Come dare più corpo alla propria birra
Quando un homebrewer alle prime armi espone un giudizio sulla birra autoprodotta, le prime considerazioni ruotano attorno a tre elementi che si ripetono costantemente: la schiuma, l’odore o il sapore di lievito, il corpo. Quest’ultimo, in particolare, viene molto spesso valutato troppo scarso, esile, timido, a prescindere dal tipo di birra che si ha nel bicchiere. La domanda successiva è sempre la solita: come posso aumentare il corpo della mia birra? Chiariamo una cosa da subito: non tutte le birre devono necessariamente avere un corpo pieno o anche medio-pieno. Esistono tanti stili con un’intrinseca anima “watery”, ovvero un corpo esile quasi tendente all’acquoso. Tra le pagine della guida agli stili pubblicata dal Beer Judge Certification Program ne troviamo diversi provenienti da svariate regioni produttive: le Bitter inglesi, le Cream Ale americane (a volte brassate con l’aggiunta di mais proprio per snellire il corpo), le Trappist Single del Belgio (dette anche Patersbier), le Irish Stout irlandesi. Potrei andare avanti a lungo con l’elenco, ma mi fermo qui. Questo per dire che spesso l’incomprensione sul corpo nasce a monte, nella testa e nelle aspettative di chi produce birra; nasce dalla non conoscenza degli stili, ma anche semplicemente dalla scarsa abitudine e attitudine a bere serialmente al bancone del pub, dove le birre dal corpo esile accompagnano lunghi pomeriggi di chiacchiere, permettendo a chi beve di andare avanti a lungo senza finire con il palato ingolfato. Insieme all’inevitabile nota sulla schiuma pannosa e sul sapore di lievito, il commento sul corpo scarso e acquoso è uno dei più gettonati. Partendo da questa prima grande incomprensione, si passa di corsa al secondo aspetto della questione: come rimediare a un corpo esile. Arrivano i soliti consigli triti e ritriti: aggiungi fiocchi (in questo caso è proprio la parola “fiocco” a trasmettere l’idea di corpo, di “fluffy”, tipo il fiocco di neve), alza la temperatura di ammostamento per ottenere una maggiore quantità di zuccheri residui (come se variare la densità di 1 o 2 punti cambiasse realmente qualcosa), usa malti ricchi di destrine (il famoso Carapils, che nel frattempo magari ti dà una botta di vita anche alla schiuma) fino ad azzardati voli pindarici sull’aggiunta di lattosio o “scorze” di lievito a fine fermentazione. Che poi è un po’ come somministrare dosi di tachipirina a chi ha il febbrone: la temperatura si abbassa, lo scopo è temporaneamente raggiunto, ma non è detto che la patologia sia curata. Proviamo quindi a procedere con ordine, andando anzitutto a scavare tra i composti della birra che contribuiscono a dare la percezione del corpo e che possono essere manipolati durante il processo di produzione. Sempre tenendo ben presente che non è tanto la presenza o l’assenza di uno solo di questi componenti a influenzare la nostra percezione palatale, ma l’interazione che gli uni giocano con gli altri.
Zuccheri residui
Quando un homebrewer butta giù una ricetta, la prima cosa che va a controllare per valutare il corpo della birra è la densità residua, ovvero gli zuccheri che rimarranno dopo che il lievito avrà fatto il suo lavoro. Si tratta infatti di un valore prevedibile, a grandi linee, ma soprattutto facilmente misurabile. È sufficiente immergere il densimetro nel mosto a fine fermentazione per avere un riscontro immediato sugli zuccheri residui lasciati dal lievito a fine fermentazione: più ce ne sono, meno l’asticella del densimetro affonda. Questo valore numerico, chiamato anche FG, dall’inglese Final Gravity, viene solitamente espresso in relazione alla densità dell’acqua che viene considerata 1,000. La FG della birra si muove solitamente nell’intorno di 1,010, scendendo a volte anche a valori inferiori all’uno per via della presenza dell’alcol prodotto dalla fermentazione che falsa la lettura. Più la FG è alta, più è alto il residuo zuccherino che troviamo nella birra. Teoricamente le birre ad alta FG dovrebbero essere anche più dolci, ma la dolcezza percepita dipende anche da altri fattori come l’amaro, il tostato e il livello di acidità: una Imperial Stout può avere un residuo zuccherino molto elevato, con valori di FG che arrivano anche a 1,020-1,030, ma non risultare dolce grazie al bilanciamento dei malti tostati, che di natura sono acidi, e dell’amaro apportato dal luppolo. Se da un lato è vero che gli zuccheri residui contribuiscono al corpo della birra in quanto solidi e “masticabili”, è altrettanto vero che non costituiscono di certo l’unico fattore in gioco. Birre come le Tripel, ad esempio, note per la loro secchezza finale e la bevibilità assassina, si fermano spesso e volentieri a FG intorno a 1,010. Le Irish Stout (chiamate anche Dry Stout per via del finale secco), fermentate con lieviti inglesi notoriamente poco attenuanti, si attestano su valori di FG anche superiori. Eppure, la percezione è di una birra scorrevole, grazie all’effetto dei malti tostati e della luppolatura in amaro decisa. Insomma, inutile sperare che uno o due punti di FG in più possano salvare il corpo di una birra: meglio lavorare sull’equilibrio, prendendo in considerazione il bilanciamento complessivo tra i vari ingredienti. La tipologia di zuccheri presenti nel mosto (semplici o complessi) si controlla variando la temperatura di ammostamento: passaggi più brevi a temperature più alte (ad esempio 30 minuti a 72°C) producono mosto meno fermentabile, mentre ammostamenti più lunghi a temperature più basse (ad esempio un’ora e mezza a 63°C) producono mosti molto fermentabili.
Proteine
Da sempre il rapporto tra birraio e proteine oscilla tra amore e odio. Amore, perché le proteine, contenute essenzialmente nei cereali, contribuiscono al corpo, alla formazione e ritenzione della schiuma ma anche ai processi di produzione (gli enzimi sono proteine); odio, perché alcune tipologie di proteine, se presenti in quantità eccessiva nella birra finita, possono dar luogo a torbidità, viscosità e instabilità nel tempo. Il problema nella gestione delle proteine è che ne esistono decine di tipologie e forme diverse, con effetti variabili sul prodotto finito. Se è indubbio che alcune proteine contribuiscano al mouthfeel della birra dando al palato una sensazione di pienezza, nella pratica produttiva è molto difficile selezionare le proteine “giuste” liberandosi di quelle “sbagliate”. La riduzione delle proteine inizia infatti nella malteria, quando il cereale viene sottoposto alla germogliatura che alleggerisce la gabbia proteica nel chicco rendendo il cereale friabile e riducendo in parte le proteine a catena lunga. Poi la palla passa al birraio, che può scegliere di impostare step proteolitici durante l’ammostamento (protein rest): in questi step si attivano gli enzimi proteolitici che scompongono ulteriormente le proteine riducendone la lunghezza. Molto difficile tuttavia controllare con precisione il risultato del lavoro degli enzimi proteolitici, che possono attivarsi in un vasto range di temperatura che spazia tra i 40°C e i 55°C. Se i malti sono ben modificati (come lo sono ormai quasi tutti), il risultato di questo passaggio potrebbe essere poco influente se non addirittura deleterio, per via della riduzione delle proteine responsabili del corpo e della formazione della schiuma. Ma quante proteine servono per dare un buon corpo alla birra? Anche qui, difficile fornire dei numeri assoluti e validi in ogni caso. Quel che è certo è che non è sufficiente aggiungere una manciata di grano non maltato alla ricetta per risolvere il problema del corpo esile. Alcuni cereali, come grano e avena, hanno un contenuto proteico quantitativamente maggiore: l’avena può arrivare ad avere un contenuto proteico pari al 14% del peso del chicco, il grano anche, mentre l’orzo si ferma all’11%. In termini qualitativi, però, il contenuto di proteine è molto diverso ad esempio tra avena e grano, che hanno più o meno lo stesso contenuto in peso di proteine: il grano è ricco di prolamine, che generano torbidità (non a caso le birre di grano sono mediamente torbide con un mouthfeel che il BJCP definisce “fluffy”) mentre l’avena contiene addirittura meno prolamine dell’orzo. La scelta del cereale è quindi importante per la gestione del corpo, ma non illudiamoci che una percentuale omeopatica ci risolva il problema una volta per tutte (ammesso che il corpo esile sia davvero un problema, come già detto). Basta farsi due conti per notare come una ricetta con il 5% di grano e il 95% di orzo abbia appena l’1% in peso in più in proteine della stessa ricetta formulata con 100% di orzo (ipotizzando stessa solubilità delle proteine, anche se in realtà le proteine del grano sono leggermente più solubili rispetto a quelle dell’orzo). Davvero qualcuno può pensare che una differenza di così modesta entità possa dare un qualche contributo al corpo della birra? Io credo fortemente di no.
Polifenoli
Chi viene dal mondo del vino sa bene quanto alcune tipologie di polifenoli, nello specifico i tannini, siano importanti per il corpo. Nella birra ci facciamo meno caso perché questi composti, provenienti principalmente dalle glumelle (bucce) dei cereali ma anche dal luppolo, sono malvisti per la loro tendenza a rinforzare l’astringenza. Tuttavia, se ben gestiti e bilanciati, i polifenoli possono contribuire alla sensazione di pienezza in una birra. Sui polifenoli estratti dalle glumelle dei malti abbiamo poco margine di manovra: è bene sempre ridurne la solubilizzazione durante l’ammostamento, mantenendo il pH nel range ottimale ed evitando di risciacquare le trebbie con acqua troppo calda (sotto gli 80°C è ideale). Abbiamo però un margine di manovra con i polifenoli introdotti da passaggi a cui spesso non si dà la giusta attenzione in questo senso: late hopping in bollitura, dry hopping e contatto della birra con il legno. Senza necessariamente arrivare ai quantitativi di late e dry hopping delle New England IPA, una gettata di luppolo a fine bollitura o in dry hopping aiuta a dare una spinta al corpo proprio grazie ai polifenoli che si solubilizzano nella birra. Questa è anche la ragione per cui le session IPA, sebbene poco alcoliche e generalmente molto secche, non danno quella sensazione “watery” tipica di altre birre con pari grado alcolico ma meno luppolo. Non è da sottovalutare nemmeno il passaggio in legno, che restituisce il giusto corpo a birre secche e povere di proteine come Lambic e Gueuze.
Glicerolo
Anche in questo caso chi è affine al mondo del vino forse conosce questo composto, chiamato anche glicerina. È una sostanza incolore e inodore, dalla consistenza viscosa e dal sapore leggermente dolciastro. Viene prodotto dal lievito durante la fermentazione, in quantità fortemente dipendenti dal ceppo. È noto che i ceppi saison, che molto spesso tendono a fermentare quasi completamente gli zuccheri residui presenti nel mosto, producono grandi quantità di glicerolo. Questo fa sì che la birra, sebbene molto secca in termini di FG, si presenti al palato con un corpo non completamente “watery”, supportato da una vaga dolcezza inaspettata in relazione agli zuccheri residui (FG spesso anche minore di quella dell’acqua). Sebbene sia difficile sapere a priori quali lieviti producano glicerolo in quantità maggiore rispetto ad altri (non è una informazione solitamente disponibile), questo aspetto in alcuni casi può spiegare come mai alcune tipologie di birre che sulla carta dovrebbero avere scarso corpo per bassa FG o assenza di cereali particolarmente proteici, nella realtà risultano più strutturate del previsto. Ed è anche la ragione per cui in alcuni stili la scelta del ceppo di lievito potrebbe fare la differenza sul risultato finale anche se non si esprime attraverso una significativa intensità aromatica (pensiamo alle basse fermentazioni o alle birre inglesi).
Carbonazione
Il livello di frizzantezza della birra può assumere un ruolo ambivalente sul corpo della birra. Da un lato, una carbonazione bassa (diciamo intorno a 1.5 volumi) tende a formare bolle più fini, amplificando la percezione di pienezza e setosità al palato. Le birre inglesi spillate a pompa come Bitter e Stout beneficiano della bassa carbonazione e della bolla fine che tende a formare una schiuma molto pannosa, contribuendo a esaltare la setosità della birra quando arriva sul palato. Di contro, una carbonazione molto spinta (sopra i 3 volumi) tende a formare una discreta quantità di bolle sul palato ma anche acido carbonico nella birra: la combinazione di questi due effetti snellisce la bevuta, rendendo ad esempio pericolosamente bevibili birre piuttosto alcoliche e impegnative come Tripel e Dubbel, tipiche del mondo belga. Il livello di carbonazione può essere facilmente controllato in fase di priming (aggiunta dello zucchero da rifermentazione durante l’imbottigliamento), spunding (carbonazione tramite la CO2 prodotta dal lievito durante la fermentazione) o pressione applicata al fusto dalla bombola di CO2 (maggiore la pressione, maggiore la CO2 disciolta).
Betaglucani
Un ultimo cenno meritano i betaglucani, zuccheri complessi a catena molto lunga presenti nei chicchi di cereali, in particolare orzo e avena (il grano ne ha molti meno). Presentano una consistenza viscosa, contribuendo a esaltare la sensazione di setosità e pienezza della birra. Sebbene anche l’orzo contenga una significativa dose di betaglucani (specialmente l’orzo non maltato, o in fiocchi), quando si parla di betaglucani si pensa subito all’avena e al suo contributo al corpo della birra, che viene spesso definito “setoso” e morbido. Effettivamente, diversi studi hanno mostrato come un mosto prodotto con una buona percentuale di avena non maltata (intorno al 10%) contenga una concentrazione di betaglucani quasi 20 volte superiore rispetto a un mosto equivalente prodotto con 100% orzo maltato. Altri studi hanno tuttavia evidenziato come sia molto difficile percepire una differenza nel corpo della birra se la percentuale di avena impiegata non arriva almeno al 18% sul totale dei cereali impiegati in ricetta. Inoltre, il contributo al corpo tipico dell’avena non dipende esclusivamente dai betaglucani ma anche dagli oli e dalle proteine tipiche di questo cereale. Il grano, di contro, pur avendo un contenuto proteico importante e maggiore rispetto all’orzo, ha pochissimi betaglucani. Questo per sottolineare, ancora una volta, come il controllo del corpo della birra dipenda dalla combinazione (e valutazione) di moltissimi fattori. Ad esempio, nelle Irish Stout si impiega una alta percentuale di orzo non maltato (per alta intendo oltre il 20-25%), in grado di dare una spinta sia alla concentrazione di betaglucani (l’orzo non maltato ne conserva una significativa quantità) sia al contenuto di proteine. Per orzo non maltato si intende anche orzo in fiocchi (i famosi fiocchi, sì, ma rileggiamo la percentuale di utilizzo).
Alla luce di questa lunga lista di elementi che possono influire sul corpo della birra, probabilmente nemmeno esaustiva, siamo ancora convinti che uno o due punti di FG in più possano cambiare le sorti delle nostre produzioni casalinghe? Io direi di no, ma ognuno è libero di pensarla come meglio crede.