Degustare una birraIn vetrina

Che profumo ami? Ad ognuno il suo bouquet!

Diecimila, si diceva negli anni venti; mille miliardi, si replica oggi, aggiornando il dato. Questa la risposta ad una domanda tanto semplice nella propria formulazione quanto complessa nel proprio svolgimento: qual è il numero degli aromi riconoscibili dal nostro naso? Il punto di partenza nell’affrontare il quesito risiede nel correlare l’esperienza organolettica a una premessa di carattere fisiologico: l’espressione olfattiva di una birra dipende dal contenuto in termini di determinati composti chimici, i quali si manifestano ai recettori umani in funzione di diverse variabili, come la concentrazione raggiunta dalle molecole in una determinata unità di spazio, la temperatura, che di esse influenza la volatilità. Ora – ed è questo che contribuisce a moltiplicare a dismisura le sensazioni odorose archiviabili nel nostro database – la percezione interessa non solo lo stimolo prodotto da una singola fattispecie chimica, ma anche le conseguenti combinazioni. In sostanza, un intreccio di possibilità pressoché infinito. Ecco, sulla base di tale premessa, la letteratura scientifica di settore e la pratica quotidiana dell’assaggio (consapevole o meno che sia) attestano come l’indagine del ventaglio aromatico dispiegato da una birra costituisca una sorta di grande viaggio attraverso una serie di territori tematici decisamente ampi, variegati, quanto affascinanti. Anche i meno esperti avranno avvertito nel bicchiere note riconducibili al cereale, al mondo della panificazione, dei mieli, oppure alle tostature, alla frutta secca e a quella disidratata, o anche alle suggestioni di tipo torrefatto, per approdare alle sensazioni fruttate, un oceano olfattivo quest’ultimo dal quale possiamo pescare i profumi più svariati: i classici pera, mela, banana, o gli esotici cocco, ananas, passion fruit, fino al micromondo degli agrumi. Senza dimenticare l’area dello speziato e del più difficile – perlomeno da cogliere – floreale; e ancora le piacevoli ventilazioni di matrice erbacea, resinosa, balsamica, così come gli accenni di marca legnosa e terrosa. E non è finita qui: tante le sensazioni che ancora potremmo aggiungere a questo elenco, che scegliamo però di interrompere, volendone offrire in questa sede, una semplice rappresentazione d’insieme, comunicarne l’ordine di grandezza.

Anche perché questo è un viaggio senza fine, il cui iter prevede tappe e soste in corrispondenza delle quali è possibile (anzi consigliabile) soffermarsi su dettagli più specifici, stanze della memoria olfattiva in cui è possibile entrare e collocare quella sensazione fruttata peculiare: riconoscere se si ha a che fare con una polpa bianca o gialla; se siamo di fronte ad una bacca rossa o nera; se stiamo parlando di qualcosa di acerbo, maturo, surmaturo o magari disidratato. Ebbene, se tale e tanta è la caleidoscopia dei profumi di fronte alla quale ci si può trovare nel sorseggiare una birra, a chi la beve spetta il il difficile ruolo di intercettare il caleidoscopio di sensazioni all’interno del bicchiere; e a chi la produce quello del creatore, di profumiere, se limitiamo l’esperienza al solo olfatto. Una cosa è certa, i profumi presenti nella birra nel corso del tempo sono cambiati, sono cambiati in natura e qualità gli ingredienti, il modo di utilizzarli, e ciò che il bevitore desidera e che considera attraente. Pensiamo soltanto agli anni che abbiamo vissuto da bevitori, perlomeno per chi ha uno storico quantomeno decennale: dal trionfo dei profumi regalati dal lavoro del lievito con le note speziate e fruttate, all’apporto dei malti nelle birre inglesi, per arrivare alla craft revolution americana e all’esplosione delle note resinose, fruttate, balsamiche dei luppoli nuovomondisti. Seguendo questa pista olfattiva e forzando un po’ la mano, possiamo suddividere l’arco olfattivo tra sentori classici, alcuni ormai vintage, per poi passare a quelli considerati moderni, più acclamati e diffusi.

Quali possono essere dunque i sentori definibili come classici? Stiamo parlando di quei profumi che hanno una tradizione, uno storico, e che nonostante gli anni non passano mai di moda. Bisogna precisare che si tratta di un recinto sensoriale nel quale possiamo forse azzardare alcune distinzioni. Ad esempio possiamo imbatterci in sensazioni che in una fase iniziale del processo di reciproca conoscenza tra birra e consumatore italiano, hanno occupato una posizione preminente nell’immaginario collettivo, mentre oggi sono rilegate ad un ruolo minore; oppure ancora profumi che continuano a dire la loro, magari non più da protagonisti assoluti, ma da comprimari: gli evergreen.

Partiamo dal settore del fruttato. Alzi la mano chi non si è innamorato, soprattutto al battesimo come bevitori, delle sensazioni fruttate prodotte in gran quantità dai lieviti belgi o tedeschi ad alta fermentazione? E così giù con sniffate di banana (isoamile acetato è il composto di maggior impatto sensoriale), pera (etil butirrato), mela (metil butirrato), albicocca (butil propionato). Oggi i classici belgi si sono ingiustamente troppo defilati, perlomeno dalla scena degli appassionati, magari si sono rifatti il lifting mixando luppolature e sentori più in linea con il tempo. Ma non importa quanto possano apparire vetuste alle nuove generazioni e ai geek moderni, parliamo di birre e profumi che sono e rimarranno immortali. Alquanto in cagnesco ai giorni nostri, perlomeno quando diventano protagoniste, sono guardate le sfumature del miele, riconducibili al malto, che coprono un ventaglio di percezioni alquanto sfaccettato. Se un Pils introduce percezioni di miele chiaro (come d’acacia o di camomilla), queste medesime suggestioni, in combinazione con i contributi (panificati, caramellati, tostati o torrefatti) introdotti da malti di altro genere producono, come risultato, l’affioramento di spunti che invocano il miele di bosco, di castagno o corbezzolo. Per non parlare delle caramellature, sparite completamente dal genere IPA, oggi sopravvivono in stili meno di grido, interpretazioni teutoniche e inglesi che ancora oggi garantiscono un rassicurante ventaglio che passa dal caramello biondo a quello più brunito (con ricordi di frutta secca, nocciola in specie; e con evocazioni di croccante).

Un altro campo di sensazioni con cui si è svezzata la prima generazione di passionisti della birra, è quello dello speziato, che rimanda al ruolo svolto da almeno due gruppi di ingredienti: da un lato il novero di lieviti e fermenti, dall’altro la categoria luppoli e altri aromatizzanti. Partendo da questi ultimi, tipico è il caso riguardante alcune aggiunte dirette (semi di coriandolo, pepe, cardamomo; cannella; scorze d’arancia, mandarino o bergamotto), così come l’impiego di particolari specie di luppoli (quali ad esempio il Chinook o il Saphir). Parlando invece di fermentazioni, emblematica è la fattispecie dei fenoli (eugenolo in primis) che si generano nell’ambito del metabolismo operato da ceppi selezionati di lievito d’appartenenza tedesca (quelli utilizzati per le Weizenbier) e belga (le varietà applicate alla produzione di tipologie quali Saison, Trappiste e così via). Tra le sensazioni che potremo definire vintage – amate dai nostalgici della birra – troviamo quelle del terroso: humus, rizomi, corteccia; note tipicamente varietali che contribuiscono a comporre il naso di numerose cultivar, come i britannici East Kent Golding e Fuggle, questi ultimi decisivi nella caratterizzazione earthy di un ampio catalogo di stili tradizionali del Regno Unito: Ordinary, Best e Stong Bitter, English Ipa, Brown Ale, English Porter, Irish Stout e così via. Purtroppo un genere poco praticato con interpretazioni fedeli.

Tra le note odorose tutto sommato immuni all’alternarsi dei tempi e delle mode; e che perciò potremmo definire sempreverdi, troviamo quelle del cereale. Si tratta di una sfera di sensazioni derivante appunto dagli stessi semi cui fanno riferimento: orzo, frumento, mais e compagnia, intesi in quanto freschi, non modificati cioè da processi di cottura tanto intensi da spostare il baricentro della percezione verso le latitudini del tostato e del torrefatto. Aromi (assimilabili a quelli raccolti mettendo piede in un granaio) determinati ad esempio dall’impiego di malti essiccati a bassa temperatura, quali il Pils o il Pale, o di grani “crudi” non tostati. In generale, tutti i cereali utilizzabili hanno i propri connotati organolettici caratterizzanti; non tutti, però, ne hanno di precipuamente olfattivi. L’avena, ad esempio, si riconosce più facilmente per il tono felpato che apporta al sorseggio; diversamente, altre varietà presentano caratteristiche odorose piuttosto ben riconoscibili, come l’orzo, il frumento, il mais. Come non amare quella nota cerealicola, rustica, di alcune keller?

Tra i profumi sempre gettonati troviamo il panificato, termine che comprende tematiche legate all’utilizzo dei cereali e, nello specifico, alla maltazione. Le varie modalità di trattamento, esercitabili in un intervallo termico che va dai 75 ai 230 °C, inducono nei chicchi modificazioni nettamente percepibili anche sotto il profilo nasale. Così tipologie di malto come il Pils e il britannico Pale lasciano affiorare impressioni di panificato a breve cottura: mollica, crosta appena imbiondita, talvolta pasta pre-infornamento. Varietà come il Vienna o il Biscuit conferiscono apporti di panificato a media cottura: crosta ben imbiondita o fette tostate. Malti come il Monaco evocano un panificato a lunga cottura: crosta brunita. Gli scuri Chocolate e Black si associano a un panificato su brace. Declinazione parallela a quella appena passata in rassegna è poi quella delle panificazioni in versione dolce, collegabile a malti Crystal o Caramel, nei quali, a prescindere dalla colorazione (chiara, ambrata o scura), l’elemento identificante è la presenza di zuccheri già formati durante la stessa cottura. Il loro impiego – o in alternativa l’esecuzione di processi di caramellizzazione degli zuccheri operati in ammostamento e/o in bollitura – spinge le percezioni di panificato verso direzioni non neutre, bensì, appunto, di connotazione più morbida: panificato dolce a breve cottura (pasta frolla), a media cottura (biscotto, calotta di dolce da forno) a lunga cottura (calotta di dolce da forno brunita, panettone ad esempio). Sempre amato e riproposto è il campo del tostato, innescato da trattamenti termici operati sulla frutta secca: note di arachide, anacardo, più frequentemente mandorla e ancor più spesso nocciola, normalmente correlate all’utilizzo di malti essiccati a medio-alta temperatura (quali Biscuit, Monaco, Brown, Cara-Munich, Cara-Brown, Special B). Affine troviamo il settore del torrefatto, molto spesso evocato da birre dark, che stanno tornando nuovamente in auge. L’espressione, fortemente evocativa, accomuna le manifestazioni odorose (cacao, caffè, orzo in tazza) tipiche dei semi cotti a elevata ed elevatissima temperatura: Black Malt, Chocolate Malt, Roasted Barley e così via.

Divisive sono invece le sensazioni dell’affumicato: o si amano o si odiano. Stiamo parlando di quelle tonalità olfattive (dalla scamorza al peated whisky) conferite dai malti essiccati in forni nei quali, oltre ai normali getti d’aria, circolano i vapori generati da processi di combustione, alimentati da materiali di vario genere: legna (faggio, quercia, ontano), torba. La Rauch di Bamberga docet. Avvicinandoci a quel terreno olfattivo che incontra il successo moderno incentrato sui luppoli, troviamo l’erbaceo. È nello scrigno odoroso di alcune varietà di luppolo il segreto delle percezioni di prato falciato: cultivar continentali e tradizionali quali il tedesco Tettnanger; di matrice britannica quali Progress e Challenger; battenti bandiera statunitense, quali Summit e Willamette. Certo, si tratta di sensazioni fortemente incisive, la cui preponderanza (o anche il cui forte peso specifico) nell’arco olfattivo di una pinta può risultare poco elegante, nell’economia e nell’esito di un assaggio. Tuttavia il fascino dei temperamenti erbacei non è mai scemato, anzi, semmai il contrario, si è reso capace di far breccia in misura crescente, anche a livelli maggiori d’intensità.

E tra i profumi considerati moderni e di successo? Sicuramente non possiamo non partire da quei profumi di agrume che avvolgevano le prime IPA. Il cascade ne era l’artefice con le sue tipiche nuance di mandarino. Un perimetro olfattivo che ha rapito il cuore dei consumatori, aprendo la strada alla rivoluzione grazie alla quale gli stili di ascendenza statunitense hanno velocemente marciato alla conquista dei mercati. Chiaro, anche in questo caso non mancavano precedenti storici, come le scorze d’arancia e i semi di coriandolo (portatori di limonene, composto presente in un poco in tutte le zeste); ma niente di paragonabile alla vividezza e all’assortimento di sensazioni (dalla stessa arancia al mandarino, dal limone al cedro, dal pompelmo giallo al rosa) garantito da alcuni luppoli di più recente generazione e di provenienza nuovomondista: oltre al già citato Cascade, possiamo citare il Centennial, l’Amarillo tra i primi; poi Citra, fino al nipponico Sorachi Ace e alle cultivar europee ricalcanti profili aromatici a stelle e strisce, come il tedesco Mandarina Bavaria.

Finalmente siamo arrivati al super inflazionato tropicale. Ambito olfattivo distinto da quello della frutta classica (di origine prevalentemente fermentativa), che abbraccia in particolare sensazioni riconducibili a polpe esotiche (mango, ananas, litchi, uva spina, maracuja), facenti parte del patrimonio odoroso appannaggio di diverse varietà di luppolo appartenenti a genealogie nuovomondiste: gli statunitensi Mosaic, Simcoe e Sabro, il neozelandese Motueka, l’australiano Enigma. Oggi dominano la scena grazie alle varie declinazioni delle IPA e non solo, appiattendo la scelta di chi, saturo, va in cerca di altro da sniffare. Tra le più apprezzate virtù odorose ascrivibili al luppolo, figurano senza dubbio anche quelle che possono associarsi a percezioni di carattere resinoso. Ovvero riconducibili agli aromi espressi dalle resine, miscele di sostanze prodotte da varie tipologie di piante, spontaneamente (ad esempio per essudazione) o in seguito a episodi di stress (ferite, incisioni, attacco di fattori patogeni). Si è di fronte a percezioni di ficcante incisività, spesso evocanti le freschezze di vigorosi fusti di conifere (pino, cipresso e abete, ad esempio: le cosiddette resine boschive); oppure fragranze più sensuali, quali quelle espresse dalle resine (mirra e incenso) ricavabili da piante medio-orientali e orientali. Seppure è il luppolo una delle sedi naturali di tali apporti (volendo citare alcune cultivar particolarmente dotate, ricorderemo l’americano Chinook, il britannico Admiral e l’australiano Victoria), non si può escludere l’eventualità del conferimento di un aromatizzante diretto: ne sono un esempio le Spruce Beer statunitensi, archeo-stile la cui ricetta prevede l’impiego di germogli o aghi coni d’abete. Molto apprezzate, in tempi moderni, anche le note olfattive dette balsamiche che fanno riferimento a impressioni di dilatazione e di rinfrescamento delle vie respiratorie: in sostanza ad essenze vegetali quali menta, eucalipto, tamerice, finocchio selvatico. Anche nel loro caso, la strada attraverso la quale arrivano a farsi riconoscere in una birra è quella delle gettate di luppolo; in specie di alcune varietà, tra le quali gli statunitensi Cascade, Amarillo, Citra e Simcoe, il britannico (oggi coltivato principalmente in Germania) Northern Brewer, il tedesco (modernista) Polaris. Tra i profumi a lungo sottovalutati, rispetto ad altre aree di descrizione aromatica nell’analisi di una birra, troviamo i descrittori appartenenti all’ambito floreale. Fortunatamente almeno a partire dal 2010, sono oggetto di un interessante processo di (ri)scoperta, anche a livello di assaggio amatoriale.

Il merito? Difficile individuarne uno soltanto. Certamente un ruolo significativo spetta a tutta una schiera di luppoli, equipaggiati con corredi aromatici decisamente orientati. Solo per citare alcuni esempi, il tedesco Mittelfrüh si fa apprezzare, tra l’altro, per profumi freschi e gentili, di petali bianchi; l’inglese East Kent Golding amalgama il proprio fiorito con note terrose; lo statunitense Centennial declina questa propensione in direzione agrumata (esprimendolo in fattispecie quali tiglio e zagara), mentre il neozelandese Nelson Sauvin esplora territori di matrice urinaria (tipici dei fiori di bosso e biancospino). Non vogliono essere oggetto di questa disamina quelle sensazioni percepite come sgradevoli ma che affascinano, quei difetti a volte consentiti, a volte proprio prescritti dalla tradizione. Tra le note borderline dobbiamo però citare quelle di tipo animale, vista la loro diffusione. Sensazioni tradizionalmente rintracciabili in ambiti stilistici quali quelli della famiglia dei Lambic (in tutte le sue declinazioni) e dell’area Farmhouse. Stiamo parlando in particolare di percezioni che evocano la pelliccia (o la coperta) sudata di cavallo (horsey, horse blanket in inglese); se non gli odori tipici degli animali da cortile (barnyard in inglese). Connotazioni alquanto incisive, conferite dall’azione dei lieviti selvaggi, come i Brettanomyces, oggi oggetto di una riscoperta, grazie anche alla reperibilità sul mercato di lieviti non convenzionali.