Brewdog compra Stone Berlin: perché Greg Koch ha fallito
Stone cede la sua location di Berlino a Brewdog: questa è la notizia-bomba che arriva e sconvolge il mondo della birra come un fulmine a ciel sereno. My heart is broken, sono le parole con cui inizia il comunicato ufficiale dell’azienda pubblicato da Greg Koch in persona. Non giriamoci intorno e non prendiamoci in giro: per ogni appassionato di vecchia data, Stone rappresenta un mito per una serie di innumerevoli motivi. Il marchio, le birre, la comunicazione, la Arrogant Bastard Ale (qualcuno da noi ci ha dedicato un locale), la location di Escondido. Oggetto senz’altro di critiche negli anni, da parte degli americani in primis: troppi ampliamenti, troppo marketing, la qualità calata, ma, c’è un ma. Che lo si ammetta o no è impossibile non conservare un posto nel cuore a Stone, come per un super-eroe della nostra infanzia, magari un po’ invecchiato, sbiadito, eppure sempre là nei nostri ricordi, sempre capace di tirarci fuori un’emozione. E allora apprendere di questa notizia fa un effetto strano, tipo sapere che Diabolik, l’Uomo Ragno, dalla sera alla mattina, decidono di rinunciare a un pezzo della loro tuta, mettendosi a girare, per dire, in pantaloncini corti o in jeans. Stona, intristisce, deprime.
Ma cerchiamo di analizzare l’accaduto lasciando da parte i sentimenti. Lo Stone World Bistrot and Garden Berlin era un luogo impressionante. Aveva quasi lo stesso fascino della location di San Diego, mancavano forse giusto i corridoi di palme e il clima californiani. La sala immensa, sapientemente progettata per essere immersa nella luce naturale, le quaranta spine diverse, un palco per eventi o far esibire band musicali, un’enorme anticamera dedicata al merchandise di ogni genere, decine di dipendenti, un’offerta culinaria ricchissima e un servizio da hotel di prim’ordine per il brunch domenicale. Non era difficile immaginare che tutto questo ha avuto e aveva un costo: le voci che parlavano di un’attività in discreta perdita si rincorrevano da un po’, e non era raro sentir dire, da chi era stato a Berlino, di essersi ritrovato in compagnia di quattro gatti nonostante una capienza adatta ad ospitare ben oltre le cento persone. L’impressione, comunque, era che a fronte di una crescita molto lenta Stone stesse credendo ancora nel posto, continuando ad investire.
Non è andata così. “Per alimentare una creatura come Stone Berlin, avevamo bisogno di volumi. Il suo puro costo di mantenimento e di costruzione non ci ha permesso una crescita lenta. A volte bisogna ammettere che i propri sogni possono essere una minaccia per il bene comune”, ammette Greg Koch. E ancora: “Forse avremmo dovuto partire con una dimensione più piccola. Mirare alle cime degli alberi anziché alle stelle. E lo so che ci saranno tantissime persone pronte a dirmi: Te L’Avevo Detto”. Un’ammissione di fallimento nuda e cruda. Koch ci mette la faccia fino in fondo, non si nasconde dietro il peggior linguaggio aziendalista. Avrebbe potuto attingere alle classiche frasi preconfezionate scritte nelle edizioni più a buon mercato del Bignami del manager, come “abbiamo bisogno di nuove sfide” o “i nostri piani hanno preso una direzione diversa”, e invece gli fa onore aver detto le cose esattamente come stanno, confermandolo un leader di grande spessore. Al netto dei vari ringraziamenti di prammatica, Koch sembra poi volersi togliere qualche sassolino dalla scarpa e punta il dito contro il mondo della costruzione berlinese: “C’è tanta burocrazia. Anche negli States ne abbiamo, quindi pensavamo di essere preparati. Ma la vera sfida con i nostri appaltatori è stata la loro tendenza a fermare tutto ogni qualvolta emergesse un problema. Hai delle esigenze particolari? Vuoi anticipare i tempi? Ferma tutto. Rivedi i contratti, ridiscuti le condizioni, butta il bambino con l’acqua sporca, ma più di ogni altra cosa: ferma tutto.”. Di sicuro esiste un fondo di verità, il cui simbolo è probabilmente l’infinita, tragicomica e travagliata storia del nuovo aeroporto della capitale tedesca, che aprirà (forse) nel 2020 con ben nove anni di ritardo, causa errori di progettazione, corruzione e malaffare; difficile pensare, tuttavia, che la vendita di Stone Berlin sia imputabile solo a questo.
I commenti sulla rete sono subito impazzati qua e là, e rimbalzati in ogni anfratto dei social, orde di appassionati non si sono fatti pregare nel dire la propria sulle cause del fallimento del progetto. Vediamone alcune:
1. Il posto è troppo periferico. Mariendorf non sta esattamente dietro l’angolo, siamo d’accordo: dal centro di Berlino ci si impiega circa una quarantina di minuti tra metro/autobus e un tratto a piedi, ma non so fino a che punto sia mai stato un gran deterrente per recarvisi. Berlino è forse la città con la rete di trasporti pubblici migliore d’Europa: impossibile non sfruttarla, non esservi abituati per saltare da una zona all’altra dell’area urbana con una facilità immensa, più di Londra, Parigi o Milano. Da turisti, magari con bagaglio a seguito, ammetto che possa venire un po’ scomodo, ma pensiamo alla location originale di Escondido (cittadina nella contea di San Diego) che proprio in centro non si trova – nessuno penso ne abbia mai fatto un problema insormontabile.
2. Una cattedrale nel deserto. Certo, lo ha ammesso Koch stesso: hanno puntato troppo in alto. Difficilmente, però, un colosso come Stone si sarebbe imbarcato in un’avventura in un altro continente senza fare le cose davvero in grande, cercando di stupire, sconvolgere e coinvolgere – nel tipico stile americano. Anzi, era esattamente il loro obiettivo: conquistare un nuovo mercato, in una nazione dove gli altissimi consumi di birra convergono verso quella della peggiore qualità. Piuttosto che salire sul carro dei Te l’Avevo Detto, sarebbe opportuna una riflessione più profonda.
3. Alla fin fine le birre non erano poi questi capolavori. E allora ci siamo, there we are. È forse il nocciolo della questione, l’aspetto che davvero andrebbe messo sotto la lente d’ingrandimento. Ritorniamo a quanto detto introducendo la notizia: per moltissimi, e per lungo tempo, Stone in Europa ha rappresentato un mito. Bere le loro IPA fresche un privilegio, un sogno proibito. Chiunque vi si fosse imbattuto almeno una decina d’anni fa potrebbe testimoniarvelo. Col passare del tempo la birra statunitense è diventata più accessibile, tantissimi nomi lo hanno affiancato, ma l’idea di avere Stone prodotto direttamente nel vecchio continente era meravigliosa. Il lancio del progetto Stone Berlin fu salutato con una ventata di entusiasmo incredibile: tutti immaginavano che d’ora in avanti avrebbero potuto bere ottime birre in pieno stile americano, finalmente fresche e non più soggette ai gap dell’importazione. Non solo: uno dei principali campi di battaglia su cui Stone voleva (con)vincere era incentrato sulle abitudini di una città e di una nazione. Far capire al berlinese medio che poteva aspirare a qualcosa di più della cheap beer acquistata a casse nei vari getränkemarkt della città, incanalare la sete di un gusto radicalmente migliore. “Quando siamo partiti con Stone nel 1996, fu perché non eravamo soddisfatti dello stato della birra nella nazione. Pensavamo che l’America meritasse di meglio. Quando abbiamo visto gran parte della Germania nella stessa situazione, incastrata in uno status quo dettato dalla birra a basso costo, ci siamo convinti di poter dare il nostro aiuto. E tuttora, la maggior parte dei tedeschi continua a comprare la birra cheap ignorando quella davvero buona”. Già, ma quale? Ecco, quest’aspettativa è stata tradita sopra ogni altra cosa. Le prime produzioni sul suolo berlinese, a fine 2015, quando decisero di mettere sul mercato le prime cotte pilota con un impianto non a pieno regime, non spiccavano per qualità; diciamola tutta, erano quasi imbarazzanti. Dal birraio alle prime armi è comprensibile; non accettabile, ma comprensibile. Da Stone ci si attendeva ben altro. C’è voluto non poco tempo affinché migliorassero sensibilmente, per arrivare a un buon livello medio, caratterizzato comunque da una costanza fatta di alti e bassi e, cosa più importante, di rado comparabili in tutto e per tutto alle corrispettive californiane.
Forse questo ha rappresentato il problema maggiore: aver rintuzzato un’aspettativa altissima, aver fatto sì che il calore iniziale si fosse spento del tutto e che magari ultimamente stava, con una certa lentezza, ritornando tiepido. Quando purtroppo era già troppo tardi e il momento di fare i conti giungeva inesorabile. L’acquisizione di Brewdog arriva forse al momento giusto per entrambe le parti: Stone con la necessità di mettere a posto i bilanci, l’azienda di James Watt e Martin Dickie con l’esigenza di un forte consolidamento di affari al di fuori di un Regno Unito dove i timori delle conseguenze della Brexit crescono di giorno in giorno. Brewdog vanta a Berlino un bar favoloso, forse il più bello dei suoi locali europei, e sarà interessante capire come gestiranno la location di Mariendorf d’ora in avanti. Di sicuro, però, senza quella testa di gargoyle sornione non sarà più la stessa.