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Birra sfusa a casa: growler, crowler e bottiglia di plastica

In principio era il growler. Il sistema più semplice di vendere birra sfusa, imbottigliata sul momento e destinata al consumo a casa, prevedeva l’uso di un bottiglione (da uno o due litri circa), riempito al beccuccio delle spine del pub, chiuso con tappo a vite. Pratico, certo (e per questo diffusosi con una certa vivacità, specie negli Stati Uniti), ma condizionato da ovvi limiti di confezionamento e, dunque, di impiego: la massa liquida infatti non viene pressurizzata internamente e il tappo non garantisce una buona tenuta (comportando un rapido decadimento del prodotto, sotto l’effetto della decarbonazione e dell’inevitabile ossidazione). La comodità sta nella semplicità del metodo e nel fatto che il recipiente può essere usato più e più volte a patto che lo si pulisca con cura (presupposto non sempre rispettato e causa di contaminazioni).

uKeg-growler

Dall’esperienza del growler, sono scaturite – per rimediare alle grane sopra descritte – alcune sue versioni evolute. Una di esse ha portato la maxi-bottiglia formato familiare ad essere riempita in un ambiente saturato di anidride carbonica, con ovvi miglioramenti nel servizio e nella vita del prodotto (soluzione scelta anche da Birra del Borgo per alcuni suoi locali). Da segnalare in questo filone anche il brevetto uKeg, realizzato dalla GrowlerWerks, di Portland, in Oregon, che ha optato per l’acciaio inossidabile, virando verso un manufatto più ambizioso, dotato di un ugello di spillatura con cui si evita problematiche legate all’apertura del tappo. Anche in questo caso, oltre al costo del contenitore, rimane il punto dolente della pulizia, da effettuare in proprio con apposite pastiglie.

Arriviamo così al crowler. Il nome nasce da una fusione tra i termini can (lattina) e growler, ed è, in tutto e per tutto, una lattina di grandi dimensioni (un litro circa), la quale, mediante un apposito apparecchio, viene riempita, pressurizzata, sigillata ermeticamente e dotata di linguetta a strappo. Gli ideatori sono la craft brewery americana Oskar Blues e la Ball Corporation, entrambe realtà del Colorado, la seconda delle quali azienda leader negli articoli per il confezionamento alimentare e pioniera del rinascimento della lattina in campo birrario. I vantaggi? La struttura in alluminio del crowler assicura leggerezza e resistenza, mentre la natura “usa e getta” esonera dal compito di curarsi dell’igiene del contenitore.

Crowlers

Tra i sistemi che permettono di vendere birra sfusa ricordiamo anche quello che garantisce il riempimento di bottiglie in PET. Nato nel 2004 da un brevetto di un’azienda russa, Pegas, il sistema si è diffuso in Usa a partire dal 2010, grazie ad alcuni miglioramenti che garantiscono l’utilizzo di bottiglie di plastica normali (senza particolari specifiche di resistenza a pressione) e tempi più rapidi (circa 2 litri in 60 secondi). Tutto sta nell’istallare uno speciale rubinetto dotato di una particolare tecnologia che garantisce un servizio sottovuoto direttamente dall’impianto spina.

Anche se in alcuni casi la voglia dell’appassionato di portarsi a casa quel nettare, bevuto e ribevuto al bancone, è fortissima, la pratica in Italia sembra al momento non sfondare: colpa dei prezzi finali della birra da asporto, di una tecnologia fino a poco tempo fa non ancora troppo convincente e anche per un consumatore ancora diffidente (in certi casi in maniera ragionevole) verso un prodotto imbottigliato al momento. Vedremo se in futuro ci sarà spazio anche per questa tecnologia.