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Birra e bicchieri: il tumbler da Witbier

Della serie: quando l’idea di un singolo produttore s’impone a tal punto da diventare patrimonio di un intero genere produttivo. Nel nostro girovagare tra le storie di birre e bicchieri, non potevamo non dedicare spazio al tumbler adottato dalla Hoegaarden e – grazie al ruolo-guida assunto dal marchio fondato ad opera di Pierre Celis rispetto alla schiera delle Bière Blanche belghe – divenuto poi appunto il simbolo di tutta la propria tipologia d’appartenenza.

In sé il massiccio recipiente a colonna, inseparabile compagno della più nota tra le birre di grano di ascendenza non tedesca, rappresenta davvero qualcosa di relativamente poco originale. Si tratta di un tumbler a sezione poligonale, caratterizzata da un limitato numero di facce – è esagonale per l’esattezza – e, per questo, risaltante proprio per una sua connotazione piuttosto semplice, robusta, dalle spigolature evidenti e alquanto tarchiata. Eppure, è un bruttino piacente. Sarà per il vetro spesso – capace anche di mantenere a lungo la freschezza della birra al proprio interno, preservandola dai rischi di un precoce risaldamento – e per la conseguente fisionomia da bullo o da wrestler a corporatura compatta; sarà per le doti di solidità, maneggevolezza e durata, ma è un fatto che, quando la regia di Interbrew (nucleo fondativo dell’attuale massimo colosso birrario mondiale AB InBev) decise di scommettere su questo modello per dare slancio alle vendite della propria bianca (la Hooegaarden era stata acquisita tra il 1985, anno dell’incendio che colpì lo stabilimento di Celis, e il 1988), mise a segno un colpo promozionale formidabile.

A tal proposito c’è un aneddoto, da pochi probabilmente conosciuto, ma attestato nientemeno che dal britannico The Telegraph. Fin da quando il quadrello (così lo si indicava, talvolta in Italia) fece la sua comparsa nei locali londinesi, divenne l’oggetto del desiderio di un’intera generazione di ragazzi feticisti dell’oggettistica brassicola e disposti, per soddisfare la propria smania di possesso, a rischiare di farsi beccare pur di portarsi a casa, gratis, quel bicchiere considerato così tanto glamour. Ebbene, anziché cercare di arginare la dilagante cleptomania, i vertici di Interbrew (considerando quella refurtiva il miglior testimonial della birra ad esso associata), ne incoraggiarono al contrario l’espansione, ponendo i giovani artisti del trafugamento di fronte a una vera e propria sfida: accanto al classico formato da 33 centilitri, misero in circolazione il gigante da mezzo litro, ancor più monumentale, ben più difficile da nascondersi sotto la giacca. E quando lo sport dello sgraffignare iniziò ad annoiare i suoi praticanti, si esortò gli stessi publican a far dono di quei cimeli, come sorta di pieghevole pubblicitario in 3D. Oggi, le due varianti (il mezzo e il terzo di litro) sono ancora in pista e grazie al loro successo hanno spinto altri birrifici ad adottare disegni simili.