Birra artigianale: i consumi parlano sempre più americano, non solo nel Big Country, ma in tutto il pianeta. Del resto, che la tendenza dominante sia “a stelle e strisce” è un dato di fatto: dunque non si può dire che sorprendano i dati forniti dalla Brewers Association (associazione Usa dei produttori craft, al quale fanno capo oltre 1.900 aderenti), alla luce dei quali risulta come i volumi esportati continuino a salire, facendo registrare, su base annua, un incremento del 35.7% nel 2014, e confermando sostanzialmente l’eccellente performance del 2013, quando il saldo era stato del 49%. Per avere un’idea del valore materiale di questi indici, eccone una traduzione in “moneta liquida”: l’anno scorso, dagli Stati Uniti, sono partite spedizioni per 383.000 barili (più o meno 448.110 ettolitri) con destinazione verso mercati esteri. Tra essi, quello più succulento è quello del vicino Canada, seguito dalla Svezia; mentre al terzo posto – questo l’aspetto che forse non fa scalpore, ma riflettere certamente – troviamo la Gran Bretagna.
Ebbene sì, la (ex) madrepatria – per certi versi mai rassegnatasi ad accettare una qualunque forma di subalternità nei riguardi delle (altrettanto ex) colonie – assorbe il 10.8% dell’export birrario dello Zio Sam; e soprattutto ha ormai aderito al pensiero dominante dell’american way of brewing. Basta dare uno sguardo, per esempio, ai premi assegnati nell’ambito del concorso nazionale promosso dal Siba (la Society of independent brewers del Regno Unito): a parte la Burnout di Brass Castle (North Yorkshire), una Smoked, le altre due corone sono andate una alla Big Job – la Double Ipa di Saint Austell (Cornovaglia), luppolata con Citra e Centennial – e una alla Madness, la West Coast Ipa di Wild Beer (Somerset).