FocusIn vetrina

Bevitori di un tempo perduto: all’alba delle prime bevute consapevoli

Per tracciare un verosimile identikit dei primi bevitori di birre, devo giocoforza partire dagli anni Settanta, quando cominciai anch’io a frequentare i pub con una certa regolarità. Oltretutto risulta cosa non facile cercare di identificare e descrivere la figura di un solo bevitore-tipo perché, anche all’interno della stessa area geografica, le abitudini, i comportamenti, il background, l’età, il ceto sociale e l’estrazione culturale potevano essere completamente diversi. Per non parlare poi dello stesso bevitore seduto al tavolo del suo pub oppure in contesti diversi, nei locali visitati nei viaggi all’estero, specie in quei paesi di antica e radicata tradizione birraria.

Quello che io chiamo “fattore shock” rappresentava all’epoca uno dei principali detonatori per far esplodere una latente passione che portava sovente il consumatore a diventare, da semplice occasionale bevitore, un curioso ed esigente amante delle birre cosiddette di qualità e di carattere. Mi spiego meglio. Abituato a tracannare, spesso dal collo della bottiglia, anonime mass market lager, il bevitore che incontrava per le prime volte birre ricche di profumi e dal gusto marcato, ancor più seducenti se corpose, provava dapprima uno shock per poi innamorarsi e ricercare in altre birre tali sensazioni e non tornare più indietro. Era l’epoca di birre “apripista”, tutte straniere ovviamente: come la belga Leffe o la tedesca Eku 28, solo per fare due esempi emblematici. A Genova, ad esempio, spopolava la danese Ceres, importata da un arguto distributore locale, che aveva sul consumatore proprio quel tipo di effetto-shock cui accennavo prima. Ricordo, al riguardo, una scena che mi colpì molto. In un malfamato bar in zona Marassi, vidi entrare due vecchietti, marito e moglie, entrambi un po’ malmessi, quelli che in dialetto genovese vengono definiti “sciacchelli”. Ebbene, rivoltisi al barista ordinarono, con la tipica nostra cantilenante cadenza, “due Ceres”. Non due birre qualsiasi come genericamente ci saremmo aspettati da due personaggi che sembravano usciti da una commedia di Gilberto Govi ma proprio quella birra lì, la Ceres alla quale evidentemente, grazie all’impatto alcolico e all’ingannevole corposità, avevano affidato quella che, dagli analisti di settore, viene definita “fidelizzazione”, fattore molto importante nel successo e nelle conseguenti vendite di un qualsivoglia prodotto.

Erano altri tempi, non ci si fotografava, non si postava e non si smanettava il cellulare. Semplicemente si respirava appieno l’atmosfera del pub, si conversava, si socializzava, non si annusava, né si ruotava il bicchiere, semplicemente si beveva e si godeva la birra che ci aveva colpito o si chiedeva al publican una birra simile o un consiglio su qualcosa di nuovo che non riguardava come oggi, il “famolo strano”, ma consolidate birre soprattutto belghe ma pure inglesi e scozzesi che, grazie alla nascita di un nuovo consumatore, venivano ricercate, importate e distribuite nel nostro giovane mercato. Si era meno colti, ma probabilmente più felici.

Con la crescita del movimento artigianale e dell’homebrewing in parallelo, con l’avvento di internet che favoriva scambi istantanei di informazioni e nozioni, esplodono le conseguenti nascite di un bellissimo forum, hobbybirra.it all’insegna del sano e reciproco apprendimento, degustazioni pubbliche, corsi, concorsi, eventi, festival e la pubblicazione di libri sia inediti che traduzioni di testi storici. In poche parole, si sviluppa rapidamente una cultura, inimmaginabile solo pochi anni prima, che non può che far bene a tanti ma che, al tempo stesso, può far male a chi non abbia seguito un graduale percorso di avvicinamento e di studio con in una mano un libro e nell’altra un bicchiere. Mi riferisco chiaramente a chi cavalchi quest’onda anche solo parlando e ancor di più scrivendo, commentando, criticando e soprattutto polemizzando senza averne la benché minima competenza.

Il bevitore di una volta non correva questi pericoli, raccoglieva con umiltà e curiosità la crescente cultura dei publican della generazione seguente i nostri grandi pionieri, per poi predicarla ad amici, parenti e colleghi di lavoro. Ricordo che nelle prime degustazioni pubbliche al Mulligans di Milano o alla Frottola di Vigevano i primi fedelissimi seguaci portavano amici o colleghi dicendo loro “vedrai che passerai una bella serata, un po’ diversa, con un pazzo che ti farà scoprire birre con aromi e sapori lontani anni luce dalle anonime birre industriali che hai bevuto finora”. Beh, se vedevo questo debuttante presentarsi per la seconda volta, lo accoglievo con un sorriso dicendogli “sei fottuto, amico, queste birre non fanno prigionieri, benvenuto in un universo senza ritorno”. Questo avviene, seppur in misura minore, pure oggi col rischio però che, se il neofita sia stato contagiato da un invasato beer geek, diventi pure lui un invasato posseduto dalla compulsione, fattore che il bevitore di una volta non conosceva, perché al tempo il suo primo scopo era quello di aggiungere buone birre a una bella, rilassante serata e non quello di aggiungere un inutile rating in un famigerato sito utile semmai solo come database.