Bere responsabile: quante pinte a settimana? In Inghilterra è scontro
Appassionati birrari di tutte le nazionalità, in guardia! Non bastassero le diatribe di fazione già in essere – industriale contro artigianale; degustazione (o nerdismo, per i detrattori) contro sorso spensierato (o tracannamento, per gli avversari); birra contro vino; luppoli americani contro luppoli “nobili”– all’orizzonte si profila il rischio di un nuovo scontro di principio. Riguardante, in questo caso, il concetto, estremamente serio, del bere responsabilmente.
Che l’esortazione in tal senso sia ineccepibile, sotto il profilo della cura della propria salute e del rispetto altrui, è infatti pacifico. Così come è parimenti chiaro che farsi sostenitori di quella posizione fa acquisire non solo meriti, ma procura anche un beneficio d’immagine tale poi da poter diventare, sul lungo periodo, anche veicolo di non irrilevanti vantaggi materiali. Senza fare nomi e cognomi diciamo che ad aver recentemente imbracciato lo scudo della morigeratezza è uno dei massimi produttori di birra, quel gruppo Heineken (200milioni di ettolitri l’anno) che, spiazzando la concorrenza, ha prodotto uno spot pubblicitario la cui morale è chiara: clienti maschietti, fatevi certo un bicchiere di chiara però poi fermatevi lì, perché le donne preferiscono i sobri. A dichiararlo con forza, una schiera di ragazze che cantando I Need a Hero di Bonnie Tyler elevano ad eroe il bevitore giudizioso (moderation is becoming cool).
Il punto è che, al di là della sua effettiva credibilità, questa condotta tutta political correctness, trova sacche di fiera resistenza. Nel Regno Unito, ad esempio, dove lo stesso governo, nella persona del consigliere alla salute Sally Davies, ha sottolineato come un bere, anche sporadico e austero, può avere effetti gravi sull’uomo, considerazioni sostenute da un documento ufficiale che abbassa le unità alcoliche settimanali raccomandate per gli uomini da 21 a 14, equiparandole alla quota indicata per le donne già dal 1995; in pratica, tre litri di birra e sette bicchieri di vino a settimana.
Ebbene, rispetto a tale provvedimento si è avuta la (prevedibile) reazione della British beer and pub association (Bbpa), la quale, tra l’altro, ha rilevato che sono stati ignorati i benefici sul benessere e lo stato d’animo derivanti dalla fruizione responsabile di una bevanda alcolica in ambienti ad alto tasso di socializzazione come i pub. Ma l’elemento più interessante è stata la presa di posizione, sulla stesso lunghezza d’onda del rilievo mosso ad opera della Bbpa, da parte di un’autorità culturale, in fatto di birra, come Martyn Cornell. Lo storico e saggista, facendosi portavoce di un sentimento diffuso, sostiene, in poche parole, che un’impostazione intellettualmente corretta del dibattito dovrebbe essere quella sintetizzabile nella formula piacere contro livello di rischio. Se quest’ultimo – prosegue facendo riferimento alle cifre esposte dalla stessa Davies – corrisponde a un 2% in più di esposizione al cancro dell’intestino, ebbene, si tratta di un indice non dissimile a quello pendente sul capo di un sessantenne che guidi ancora una moto di grossa cilindrata (il riferimento è a suo fratello); e inferiore di un punto rispetto a quello incombente su chi fa deltaplano. Ma soprattutto, incalza, il fattore statistico di pericolosità è totalmente random: Churchill è morto a 91 anni dopo aver bevuto con dedizione; mentre la madre dello stesso Cornell (che si concedeva un bicchiere a Natale) se n’è andata a 60 per un tumore all’esofago, dopo aver vinto quello al seno diagnosticatole quando ne aveva 45.
In conclusione, dice lo scrittore, il valore di una vita piacevole non viene mai calcolato: se al mio capezzale la signora Davies mi dicesse che avrei potuto vivere dieci anni di più, se fossi stato astemio, le risponderei che sarebbe valsa la pena non esserlo.