Alt e Kölsch: guida ai due stili ibridi tedeschi
Chi pensa che il campanilismo sia un fenomeno esclusivamente italiano non ha probabilmente mai sentito parlare di Colonia e Düsseldorf e della loro acerrima, inestinguibile rivalità che si alimenta anche delle loro diverse tradizioni birrarie: le due città della Renania Settentrionale-Vestfalia sono infatti sia unite in un comune destino da una serie di fattori, principalmente geografici ma non solo, che ineluttabilmente divise da altri elementi, in primo luogo storici. Il fiume Reno le bagna entrambe e i circa quaranta chilometri che le separano possono essere percorsi in meno di venti minuti grazie ad un rapido collegamento ferroviario interurbano: ottima notizia per i turisti birrari intenzionati a compiere il giro completo delle birrerie storiche delle due città, ambedue comodamente visitabili a piedi, senza mettere a rischio la patente. La loro differente ma connessa storia è, assai probabilmente, la ragione profonda della loro inesauribile rivalità: se Colonia può infatti vantare ascendenze romane risalenti ai tempi dell’imperatore Claudio e della moglie Agrippina minore, la prima citazione di Düsseldorf come piccolo villaggio rurale (Dorf in tedesco significa proprio “villaggio”) risale solo al 1135. Ciò può spiegare in parte il senso di superiorità culturale che da sempre i Kölner nutrono nei confronti dei loro vicini, ma la principale pietra dello scandalo è rappresentata dalla concessione della dignità di città (Stadtrecht) a Düsseldorf, che avvenne il 14 agosto 1288 ad opera del duca Adolfo V di Berg. Chi era costui? Un condottiero che concesse il titolo di cittadini agli abitanti dell’ancora piccolo Dorf per ringraziarli del loro aiuto prestato, poco più di due mesi prima, nella battaglia di Worringen, in cui Adolfo, alleato sia del duca Giovanni I di Brabante (proprio il leggendario Jan Primus o Gambrinus divenuto icona birraria mondiale) che della cittadinanza di Colonia, con la gilda dei birrai in prima fila nel sostegno dell’operazione bellica, aveva sconfitto l’arcivescovo della stessa Colonia, l’ambizioso e avido Sigfrido di Westerburg, che tra le altre pretese aveva anche quelle di tenere le mani ben salde sulla metà del gettito fiscale delle birrerie.

L’identikit
Ma veniamo finalmente alle birre, apparentemente molto distanti tra loro, dacché le kölsch sono chiare e caratterizzate da bouquet e corredo gustativo estremamente delicati e di ridotta persistenza, mentre le altbier sono ambrate, con nuance che possono spaziare dal ramato al mogano, e contraddistinte da una notevole intensità e persistenza gustativa dovute all’impiego di malti caramellati e tostati accanto a una luppolatura piuttosto decisa: è particolarmente famosa una mordace stampa satirica, realizzata ovviamente a Düsseldorf, raffigurante un cavallo che si abbevera di altbier ed espelle dalla propria uretra un liquido giallognolo che va a riempire un recipiente che riporta la scritta “kölsch”. Le due apparentemente antitetiche specialità brassicole hanno però anche profondi punti in comune: sono entrambe birre dal moderato tenore alcolico (pressoché sempre sotto il 5% in volume) e ad alta fermentazione ma, soprattutto, sono ambedue degli ibridi, o, per usare un’immagine più icastica delle ale travestite da lager. I ceppi di lieviti “ad alta” vengono infatti impiegati, sia a Colonia che a Düsseldorf, al gradino più basso di temperatura per la famiglia delle ale, intorno ai 14°-15°C, ed entrambe le birre vengono poi sottoposte ad una lunga maturazione al freddo, del tutto analoga, per tempistiche e temperature, a quelle delle basse fermentazioni.
Questi due dettagli produttivi conducono ovviamente a pensare ad una ridotta formazione di esteri in fase fermentativa e in effetti è proprio così, anche se una delicata sfumatura donata da questi composti aromatici è uno degli elementi che fanno la differenza e danno una marcia in più ai migliori esemplari di entrambi gli stili e, nel caso delle kölsch, agevolano il loro riconoscimento: individuare una birra di Colonia alla cieca in mezzo a una pils bavarese, una export e una keller chiara può infatti essere tutt’altro che agevole in assenza di questo marcatore. La nota caratteristica che gli esteri esibiscono è, naturalmente, molto diversa per le due tipologie: nelle kölsch assume le sembianze di un frutto acerbo, spesso albicocca o nespola, senza dimenticare che, in questo stile, è ammessa una piccola presenza di acetaldeide (e quindi, a livello olfattivo, di mela verde), mentre nelle Alt è invece più riconducibile alla pera, che con l’interazione dei malti diventa “cotta”.

Il servizio
Inoltre, anche il servizio delle due diverse tipologie presenta delle forti analogie: nelle birrerie tradizionali sia di Colonia che di Düsseldorf troverete solo camerieri (chiamati kobe) di sesso maschile, in età matura e vestiti di tutto punto con l’uniforme del marchio per cui lavorano, mentre i piccoli bicchieri di foggia cilindrica saranno sempre riempiti da botticelle a caduta, che giungono in continuazione dalle cantine attraverso piccoli montacarichi, facendo ruotare sotto al rubinetto di spillatura il caratteristico vassoio circolare, chiamato kranz, in cui i bicchieri stessi sono infilati in appositi alloggiamenti tondeggianti al fine di evitare rovinose cadute. Sui bicchieri vi è una sostanziale analogia nella forma, dal momento che si tratta in entrambi i casi di una colonna slanciata di vetro estremamente sottile dall’apertura stretta e dal bordo affilato, ma una piccola differenza nel quantitativo: la stange (letteralmente “barra”) in uso a Colonia ha una capienza da 0,2 l, il dröppke di Düsseldorf contiene invece 0,25 l. In entrambi i casi, comunque, nulla di più lontano dalla cultura bavarese del maß da un litro e anche da quella francone del robusto seidla da mezzo litro: le caratteristiche organolettiche delle birre, in particolare delle kölsch con la loro estrema delicatezza, offrono senz’altro una plausibile spiegazione alla scelta di un bicchiere che garantisca un consumo rapido e senza perdita di freschezza del prodotto, ma un ruolo altrettanto o probabilmente più importante lo ha l’indole della popolazione. I renani si fanno infatti vanto di usare bicchieri più eleganti e sofisticati rispetto ai, a loro dire, caciaroni e un po’ zotici bavaresi, i quali, per canto loro, scherniscono gli abitanti della Renania Settentrionale chiamando i bicchieri da kölsch e alt dei reagenzgläser, ovvero “provette da laboratorio”.

La genesi
Un altro fattore comune è che i nomi delle tipologie e, in modo più evidente nel caso delle kölsch, anche le ricette come oggi le conosciamo non sono così antiche come un appassionato un po’ ingenuo potrebbe pensare leggendo che in entrambe le città esistevano gilde di birrai fin dal XIII secolo. La rivoluzione dei malti chiari giunta dall’Inghilterra nell’Europa continentale negli anni trenta dell’ottocento ha infatti avuto un notevole impatto anche in riva al Reno ed è negli stessi anni che a Düsseldorf entra in uso il nome altbier, letteralmente “birra antica (o vecchia)”, per designare collettivamente le locali specialità ad alta fermentazione in contrapposizione alle “birre nuove”, le lager importate dalla Baviera e dalla Boemia che all’epoca rappresentavano l’ultimo grido della moda e la radicale avanguardia brassicola. In precedenza, con ogni probabilità, per identificare le singole birre della città si usava semplicemente il nome della birreria o della famiglia che le produceva, senza alcun bisogno di coniare un termine collettivo che le accomunasse e questo forse spiega le differenze anche di non poco conto ancora oggi reperibili tra i vari produttori di Düsseldorf. Ancora più recenti le datazioni relative a Colonia: la prima kölsch moderna è stata brassata nel 1906 dalla brauerei sünner, ancora oggi esistente, ed è stata la stessa birreria a coniare, solo nel 1918, il termine kölsch per identificare e promuovere questa nuova, delicata, birra chiara ad alta fermentazione che nel frattempo era stata imitata da tutti gli altri produttori cittadini.
Kölsch Konvention
Un’unicità di Colonia, non solo rispetto alla città rivale, è la tutela legale su base territoriale in campo dai produttori: fin dal 1945 Hans Sion, titolare dell’omonima birreria ancora oggi esistente anche se non più indipendente, si espresse circa la necessità di regolamentare la produzione e la distribuzione della birra cittadina e nel 1963 il tribunale regionale della città stabilì, per la prima volta, che il termine kölsch non identificasse solo una tipologia birraria ma anche la zona d’origine, sentenza che venne poi confermata dal tribunale regionale superiore di Colonia nel 1977 e che ha quindi autorizzato il Kölner Brauereiverband (l’associazione dei birrifici del circondario cittadino) a dare vita, nel 1986, alla Kölsch Konvention, un disciplinare produttivo in sedici punti che regola le linee guida a cui tutte le birrerie devono attenersi e difende il nome geografico da eventuali utilizzi non autorizzati. Forse qualcuno si ricorderà che in passato qualche birrificio italiano ha ricevuto lettere di diffida dal Kölner Brauereiverband per aver usato il solo termine kölsch anziché locuzioni come “ispirata alle kölsch” o “kölsch style” sulle etichette delle proprie birre. I ventiquattro firmatari originari della Konvention si sono poi ridotti a undici a causa sia di alcune chiusure, come quella di Kurfürsten a fine 2011, che soprattutto, dell’acquisizione di alcuni produttori storici da parte di grandi attori industriali: Sion, Dom, Sester, Peters, Küppers e Gilden sono infatti da tempo etichette del gruppo Radeberger e unificate a livello gestionale nel marchio collettivo Haus Kölscher Brautradition GmbH. Secondo la convenzione le caratteristiche necessarie per definire una kölsch sono:
- alta fermentazione
- gradazione alcolica compresa tra 4,2 e 5,5% vol
- gravità originaria tra gli 11° e i 16° Plato (categoria fiscale che in Germania è chiamata Vollbier)
- colore chiaro
- filtrazione e conseguenza limpidezza: una kölsch non filtrata, sia pur prodotta a Colonia, deve essere chiamata Wiess, ovvero “bianca” nel dialetto locale e specificatamente presentata come naturtrüb, ovvero “naturalmente torbida”, non sono invece ammesse diciture come Ur-kölsch o Echte kölsch (ovvero “kölsch originaria” o “kölsch autentica”)
- elevata attenuazione, secchezza, corpo snello e ridotta presenza di gusti e sensazioni boccali tipiche dei malti
- ben percepibile aroma di luppolo
- essere prodotta esclusivamente a Colonia ad eccezione dei birrifici fuori dall’area urbana dalla città che già prima della firma della convenzione producessero delle kölsch
- nessun vincolo invece sulla presenza di malto di frumento, che è ammessa ma non obbligatoria

I produttori di kölsch
Di fronte ad uno stile decisamente incentrato su levità e delicatezza si potrebbe pensare che le differenze tra uno e l’altro dei produttori storici sia minima, ma se si compie un completo kölsch crawling della centro storico, esperienza altamente consigliata per ogni appassionato, si scoprirà che comunque le distinzioni sono ben percepibili. Tra gli imperdibili vanno segnalati Päffgen, personalmente sempre la mia prima tappa quando arrivo in città, con il suo mirabile gioco tra richiami floreali dei luppoli, un leggero panificato chiaro dei malti e una mirabile secchezza, Zum Pfaffen, leggermente più maltata ma sempre con un’ottima secchezza e Malzmühle, in cui è ben percepibile a livello boccale la presenza del frumento e il corpo risulta più rotondo rispetto agli altri classici cittadini. Früh, uno dei pochi marchi reperibili in Italia senza troppa fatica, va visitato sia per l’atmosfera della birreria a due passi dal celebre duomo, sia perché la birra, molto bilanciata, gustata in loco con la spillatura a caduta è assai più godibile rispetto alle versioni in bottiglia esportate. Sion, Peters e Gaffel invece risentono inevitabilmente di una certa standardizzazione produttiva, giusto Gaffel, se avete la fortuna di trovarla fresca, può sorprendervi con un finale luppolato un po’ più brioso. Corretta ma non memorabile è solitamente anche Sünner, cui però va tributata una visita sia perché è la capostipite dello stile che per la suggestiva atmosfera del locale di mescita. Leggermente fuori dal pieno centro, ma sempre raggiungibili a piedi, sono tappe consigliate Hellers e Reissdorf, con quest’ultimo che spicca per il finale amaro, nonché, se siete fortunati, Schreckenskammer: locale suggestivo e poco battuto dai turisti, birra un po’ altalenante ma solitamente su livelli decisamente buoni ma, attenzione: orari e giorni di apertura non sono sempre regolari! Più lontani dal centro ma facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici c’è Braustelle, nome storico del craft tedesco, che produce una buona versione non filtrata e anche, con sprezzo del pericolo, una Alt! In Italia le interpretazioni dello stile non sono mai state particolarmente numerose e non di rado poco ortodosse, a partire dall’indimenticabile Rodersch di Bi-Du, spesso velata ma, soprattutto, contraddistinta da una luppolatura ben più vigorosa rispetto all’originale renana, così come la Westfalia prodotta da Hammer: Marco Valeriani, autore della ricetta risalente al 2015, aveva già creativamente reinterpretato la tradizione di Colonia da Menaresta con la Gib, birra brassata purtroppo solo per pochi batch era una sorta di double kölsch da 6 gradi con una spiccata luppolatura erbacea. Al contrario, la Happen che il tre volte vincitore di Birraio dell’Anno realizza saltuariamente con Alder appartiene decisamente al filone “filologico” inaugurato in passato dalla Tscho! di Maltovivo, oggi non più in produzione, dalla kölsch Style di Kamun, della Dekas di Civale, dalla Glu Glu di MC77 e dalla più recente W Colonia!, birra collaborativa prodotta da Bondai e Brewfist nella primavera 2024 e che ci auguriamo non rimanga una “one shot”. Vanno invece ascritte al novero delle più creative ed eccentriche la Hauria di Croce di Malto, che nacque addirittura con un dry hopping di Cascade, la Michetta di Lariano, contraddistinta dall’utilizzo di un 10% di pane di recupero nel mash, e la più recente Miss K del milanese Birrificio di Ringhiera, segnata da un più audace utilizzo del luppolo in aroma.
I produttori di altbier
Le altbier presentano una varianza più ampia grazie alla possibilità di combinare in diverse percentuali i malti che caratterizzano la tipologia: lo storico Horst Dornbusch, ormai da decenni statunitense d’adozione ma nativo di Düsseldorf, spiega come i malti Monaco e Vienna siano la spina dorsale delle Alt, più frequentemente presenti accanto a una base di malto Pils. Non mancano però esemplari brassati con il 100% di malto Monaco e altri in cui, analogamente a quanto avvenga per le kölsch, vi è una piccola percentuale di frumento maltato, che dona cremosità, morbidezza boccale e una maggiore tenuta di schiuma. La tipologia deriva dalle forti ale scure che, tra Medioevo ed età moderna, erano molto diffuse nel nord della Germania e anche nei vicini Paesi Bassi. L’arrivo dei malti chiari di derivazione britannica nell’Europa continentale di inizio Ottocento ebbe però, come già ricordato, un notevole impatto anche in riva al Reno. Non a caso, i quattro birrifici della città vecchia ancora indipendenti nascono a breve distanza uno dall’altro proprio in questo periodo: il primo è stato Schumacher nel 1838 seguito da Füchschen nel 1848 e, nel 1850, da Zum Schlüssel, aperto da Jakob Schwenger come birreria e panificio. Analoga parabola imprenditoriale è stata disegnata da Hubert Wilhelm Cürten, fondatore di Zum Uerige, oggi la più famosa altstube al mondo, che aprì nel 1855 come panificio e nel 1862 come birreria. Accanto a questi quattro autentici monumenti brassicoli si sono aggiunti, nel 2011, i giovani di Kürzer, innovativi sul piano del servizio ma tradizionalissimi dal punto di vista della ricetta. Dal punto di vista gustolfattivo si può delineare una scala ascendente di intensità delle tostature che, partendo da Füchschen, la più chiara nel colore (il nome del birrificio significa “volpacchiotta” e la tinta della birra ricorda proprio il manto di una volpe) e quella contraddistinta dai sentori più caramellati e da una maggiore tendenza dolce, passa per Zum Schlüssel per approdare al mirabile bilanciamento di Schumacher, che solitamente si contende con Uerige la palma di miglior Dröppke in città. Le stazioni successive sono Kürzer e infine Uerige, la più scura in colore con la sua inconfondibile nuance mogano, la più tostata e la più amara, con un finale che ricorda la radice di liquirizia e la corteccia di china. Düsseldorf non è però l’unica città a poter vantare delle altbier: sempre in Vestfalia si trova infatti Münster il cui birrificio Pinkus Müller, attivo dal 1816 e unico superstite delle oltre centocinquanta birrerie presenti in città prima del Novecento, propone due versioni di Alt molto diverse da quelle renane: più chiare, di un tenuo ambrato aranciato non distante da un dorato carico e con note caramellate più timide, specie nella Original. La Classic presenta invece uno spiccato carattere acidulo che, secondo alcuni degustatori come Conrad Seidl, proviene da un blend con una piccola percentuale di birra lasciata volutamente invecchiare fino ad acquisire uno spunto lattico. Un ulteriore elemento curioso è che Pinkus Müller, forse per affinità storica con i vicini Paesi Bassi, produce anche una dunkel e una bock scura ad alta fermentazione. In Italia le interpretazioni delle alt sono ancora meno numerose rispetto alle kölsch ed è oltremodo curioso che la prima di esse, la Sticker di Grado Plato, sia un omaggio alla sticke, una versione speciale (il cui nome significa “segreto” in dialetto locale), più forte e corposa, della alt di Uerige che viene servita soltanto il terzo martedì di ottobre e di gennaio. In anni più recenti sono arrivate la AlterElvo, collaborazione tra Elvo e Mastino che occhieggia maggiormente a Füchschen; la sticke di Foglie d’Erba, che ricalca il tenore alcolico di Uerige ma con meno intensità di amaro e di tostature e, probabilmente anche per questo, nel corso del 2024, ha cambiato nome in Jung Brunnen (ossia “sorgente della giovinezza”), la Mahlzeit di MC77, decisamente più vicina a Schumacher e la più luppolata Altseriana del Birrificio di Ringhiera.
