Come abbinare la panna cotta alla birra
La panna cotta, ma sì. Nel nostro spazio dedicato agli abbinamenti, stavolta, parliamo di quella. O meglio: di quelle. Perché anche in questo caso, quanto mai vero risulta l’ammonimento per cui diventa quanto mai obbligatorio esprimersi al plurale. In soldoni, dicendo “panna cotta” si rischia di non dire alcunché di preciso fino a quando non si dice “nome e cognome”: panna cotta al caramello, al caffè, al cioccolato, ai frutti di bosco e così via.
Insomma: si cominciano a mettere le carte in tavola solo nel momento in cui si specificano gli elementi di accompagnamento; nella più semplice delle ipotesi gli sciroppi destinati a irrorare e colorare, anche in senso gustativo, la faccia superiore del nostro “tombolino bianco”. Talmente tanto diverse sono anzi le possibili direzioni che, lungi dal limitarsi (come si potrebbe supporre) al solo campo dei dessert, gli esiti ultimi delle operazioni preposte al “guarnire” possono agevolmente condurci nei territori dei secondi piatti o degli antipasti. Infatti (eh sì) non solo dolci sono le panne cotte, bensì anche salate: e realizzabili, queste ultime, con una varietà di ingredienti sinceramente sorprendente. Mettendosi infatti in cerca di curiosità e armandosi di pazienza per effettuare le indispensabili “verifiche sul campo” (assaggiare: un duro lavoro ma, come recita il refrain, “qualcuno deve pur farlo”), si scoprono “prove d’autore” in versione appunto salata, con condimenti quali funghi e crema al tartufo, tonno e salsa al pomodoro, Parmigiano e pesto ai pistacchi. Ora, al di là del fatto che tutto questo ben di Dio stimola di per sé la proverbiale acquolina, il pensiero superveloce dell’abbinatore compulsivo corre subito a elaborare la quantità diluviale di combinazioni possibili con l’altrettanto camatrimonileidoscopico universo degli stili birrari. Andiamo tuttavia per ordine, prima di mettere troppa carne (pardon: troppo latte) al fuoco, e stabiliamo le regole di base di questo gioco.
Di genesi non certa – sembra che l’invenzione sia attribuibile a una cuoca ungherese – la panna cotta viene iscritta per convenzione ormai stabile tra le tipicità delle Langhe (essendosi l’inventrice in questione lì trasferita), tanto che la Regione Piemonte ha inserito questo prodotto tra le sue specialità tradizionali; comparsa sulla scena ai primi del Novecento, viene sovente presentata dalla letteratura culinaria come “budino”. Per apparecchiare il quale occorre unire panna, latte, zucchero e vaniglia addensandoli con colla di pesce o albume d’uovo e lasciando poi raffreddare l’impasto in frigorifero, così da dargli consistenza solida. Una volta ottenuta la “materia prima” arriva quindi la fase della rifinitura, e qui come ampiamente premesso è lecito sbizzarrirsi: con personalizzazioni che vanno dal decorare l’iniziale formina bianca con frullati di frutta della più varia natura (kiwi, fragole, cachi) ad aggiunte decisamente più robuste, quali quelle a base di vino liquoroso, come il Marsala, o il classicissimo caramello. Come premesso è possibile “smarcarsi” dalla sfera dei dessert e collocarsi in altri momenti del pasto sostituendo lo zucchero con sale o sostanze sapide, ad esempio il formaggio.
Denominatore comune a entrambi i “rami” (il dolce e il salato) è la presenza di certe quantità di proteine (siamo sul 9%) e, a crescere, di carboidrati (attorno al 30%) ma soprattutto di grassi, che nella compagine societaria si accaparrano il 60% circa. E dunque, sebbene sia possibile alla fine avere a che fare con un piatto dall’intensità gustativa anche delicata e dalla struttura materiale non cementizia, la massiccia percentuale lipidica impone in ogni caso di orientare le “strategie di abbinamento” verso birre che abbiano attitudini sgrassanti e solventi: conferite (magari in team) dalle rispettive acidulità, dal tenore della frizzantezza e da quello del grado alcolico. Inoltre, per completare la “ricognizione preliminare” occorre prendere nota di come, zuccherina o sapida che sia la nostra panna cotta,quello al quale ci affideremo sarà sempre il “matrimonio” con una birra dalla tendenza abboccata: nel caso di un dessert si procede infatti a un accostamento per affinità (dolce con dolce, in proporzione); nel caso delle salature si opera un “contrasto armonico”, ancora con il dolce e sempre in proporzione.
Tirando velocemente le somme gli indizi ci portano a selezionare tipologie “dalla cintola in su” in fatto di taglia etilica e dalla personalità gustativa amabile (in cui limitato sia il ruolo degli apporti amaricanti del luppolo): e dunque qualche Strong Ale di discendenza belga (Triplexxx by Croce di Malto, Chimera di Birrificio del Ducato); in ambito britannico, Old Ales e Barley Wines (Baladin Xyauyù, Robinsons Old Tom); una perentoria Weizenbock di stampo tedesco (la Ayinger, ad esempio). Dopodiché diventa come al solito determinante la scelta del “condimento”. Perché è chiaro che se il temperamento della panna cotta è determinato da creme al caffè o al cacao, sarà automatico cercare complicità toccando le corde delle torrefazioni: con qualche Robust Porter (Two Penny di Bad Attitude) o qualche Stout “potenziata” (Chocolate Stout di Rogue, “Kujo” Imperial Coffee Stout di Flying Dog). Mentre con un topping incentrato su frutti a bacca rossa o nera potremo azzardare le maliziosità caratteriali, anche di stampo “sour”, di qualche prodotto alla frutta, dalla Bloed (Extraomnes) alla Draco (Montegioco). Escluso dalla partita allora il filone “hoppy”? Non del tutto, specie nelle versioni con forti abboccature come suggeriamo qui sotto in una delle due proposte d’abbinamento specifiche.
PANNA COTTA ALLA LIQUIRIZIA CON CREMA AL CIOCCOLATO
Su questo “banco di prova” la direttrice di sviluppo sensoriale è duplice: da un lato abbiamo la liquirizia (aggiunta direttamente in impasto, al “nucleo latteo”), dall’altro il topping al cioccolato, per il quale – nel caso di specie – si utilizzano cacao amaro, zucchero e succo d’arancia. Inutile quasi preavvertire di come la cucchiaiata risulti “elevata a potenza” nelle densità sensoriali e nell’incisività dei toni caldi, appena rinfrescati dall’affilatezza dell’arancia. Un amalgama gustolfattiva che chiede “approvazione” soprattutto in trame organolettiche speculari, sia per qualità, sia per spessore: ecco dunque l’opzione di affiancare a questo dessert l’elegante abbondanza di una “Dieci” della gamma Bruton o le vampe liquorose di una “Chocarrubica” di Grado Plato.
PANNA COTTA IN SALSA CARAMELLATA DI AGRUMI
Qui la costruzione del piatto è del tutto classica, con al centro una mattonellina circolare rispettata in toto nella sua sostanza lattea. A dare il guizzo è la colata dall’alto di una caramellatura di arancia e limone (con scorze e succhi, insieme allo zucchero) e l’ulteriore aggiunta di buccette non trattate in sciroppo, così da mantenerne viva la componente anche amaricante legata all’albedine. L’intenzione è quella di azzardare un abbinamento intrigante, sul filo di un altalenare inquieto: spillando, in accompagnamento, una pinta di Imperial Ipa come la Freewhelin’ di Foglie d’Erba o la Techno di Elav. Risultato? Da sperimentare. Di certo, se grassi e dolcezze del piatto supportano gli elementi “bilancianti” già presenti nella birra nel tenere a bada la veemenza del luppolo, alla fine del sorseggio è comunque lui a prevalere e a dominare la retrolfazione; si tratta dunque di un equilibrio asimmetrico, opinabile e tuttavia ammissibile. Anche perché altrettanto sicura è l’assonanza fra i tasti aromatici agrumati presenti sia nel cucchiaino, sia nel bicchiere: che stabilisce un bel dialogo tra vocabolari consanguinei, in una marcia senza conflitti, essendo il dolceamaro (“fil rouge” dell’intero assaggio) un tira e molla fisiologicamente piacevole.