Sfida all’alta cucina: perché la birra artigianale ha le carte in regola per entrare nei ristoranti stellati
A metà anni 90, una delle tante peculiarità che saltavano subito all’occhio del neonato movimento artigianale italiano, anche a chi fosse stato totalmente ignaro della rivoluzione che stesse partendo, era l’immediata equazione “bellissima bottiglia da 75cl = tavolo ristorante di prestigio”.
Purtroppo, bisogna onestamente riconoscere che, mentre la cultura della birra artigianale si stava diffondendo a velocità superiore alle più rosee aspettative, le tanto auspicate carte delle birre affiancate a quelle dei vini nei menù dei grandi chef si potevano contare sulle dita di una mano.
Come sempre ripeto e qui confermo anche dopo un quarto di secolo, se tanti oggi non sanno o sanno poco delle nostre enormi potenzialità, la colpa è anche nostra, cioè di chi non ha saputo comunicarlo. Per fortuna un sistema c’è per tentare di cambiare passo e dare una svolta partendo sempre dal principio del “non mollare mai”, dal non farsi cadere le braccia e del darci dentro ancor più convintamente.
Questo sistema o meglio, questa reazione, mi viene sempre quando vedo emeriti approfittatori cavalcare in modo ridicolo e vergognoso l’onda che tutti noi abbiamo appassionatamente alzato. Potrei riferirmi a una pletora di personaggi, sia quelli prigionieri dei loro padroni stranieri, sia quelli prigionieri della loro vanità e incompetenza. Ridicoli ma influenti personaggi televisivi, cuochi, gastronomi e così via, che predicano la filosofia dell’impiego di ingredienti di altissima qualità e sicura provenienza, selezionati personalmente alle luci dell’alba nei mercati o in visita a sorridenti e rugosi contadini, per poi finire a fare da testimonial di catene di fast food, birre delle multinazionali o pubblicare articoli e libri con piatti abbinati alle suddette birre.
Detto questo, devo ammettere di non sapermi ancora spiegare, dopo tanti anni, il perché i nostri bravissimi ristoratori, innamorati del loro lavoro e ovviamente refrattari alle sirene delle telecamere e dei circhi mediatici, non si rendano pienamente conto delle armi che possano loro fornire le birre artigianali dei produttori indipendenti.
Le ho chiamate “armi” apposta e non strumenti, in quanto vorrei, che questo accorato appello arrivasse, tramite questo articolo, a chi di dovere, non tanto per far vendere più birre artigianali e meno industriali (il che non sarebbe certo un male), ma principalmente per educare il consumatore, figura fondamentale nella diffusione della cultura delle birre in un paese rinomato per la cultura del cibo, vino e del buon gusto.
Ma quali sono queste armi? Sono tante, più di quello che comunemente si creda, ma almeno tre, a mio avviso, possano concretamente rappresentare un aiuto decisivo e imprescindibile. Le ho predicate mille volte ma stavolta lasciatemele replicare perché sono “in missione per conto di Dio”.
Prima arma: oggi il ristoratore ha a disposizione birre italiane di altissimo valore, in quanto la media qualitativa si è notevolmente elevata e quindi potrà spaziare con estro e fantasia, partendo dai produttori più vicini, tra mille aromi e gusti da pensare per i propri piatti o, perché no, inventare nuovi piatti ispirati dalle caratteristiche delle birre.
Seconda arma: il cosiddetto “packaging” cioè la bottiglia nella sua foggia, nell’etichetta e in altri dettagli. Noi italiani veniamo giustamente e meritatamente considerati in vari campi legati al gusto e all’estetica, come, tra i molti, il cibo la moda e il design. Oltre che per il contenuto, le nostre bottiglie vengono apprezzate, per la loro eleganza e originalità, in tutto il mondo e fanno fare bella figura anche al ristoratore che prima aveva a disposizione bottiglie inguardabili, tutte uguali e subito riconducibili alle insipide mass-market lager industriali.
Terza arma: l’inarrivabile eclettismo e l’incomparabile duttilità delle birre, a differenza dei vini, nell’abbinarsi a tutti, sottolineo, tutti i cibi. Da anni porto in giro un format intitolato “là dove le birre osano, i vini non possono farlo” in quanto, come ammettono gli stessi sommelier del vino, alcuni ingredienti sono incompatibili come uova, carciofi, broccoli, cavolfiori, asparagi, peperoncini, sottaceti per non dire dei finocchi. Invece noi con le birre possiamo affrontare qualsiasi sfida, provare per credere.
Queste tre potenziali armi sono state recepite da molti gestori di locali, pub in primis, ma, almeno per ora, da pochi ristoratori. Certo che potersi fare, ogni tanto, una bella esperienza da un ristoratore coraggioso e lungimirante non dispiacerebbe a nessuno, ma con questo non voglio certo dimenticare il grande lavoro che si è fatto con i nostri publican nel combattere e sfatare quel luogo comune che portava clienti al pub a bere una o due birre ma solo per finire la serata, dopo aver cenato al ristorante.
Da tempo le cose sono cambiate e molti consumatori dopo aver “visto la luce” con nuove birre, ricche di gusto e carattere, lontane se non addirittura opposte a quelle industriali cui erano abituati, hanno ben capito come molti gestori di locali, appassionati, competenti e sempre più aggiornati, abbiano puntato alla ristorazione di alta qualità rifornendosi da birrai legati dalla stessa filosofia e, concedetemelo, dalla stessa vocazione.
Questo allettante binomio “birra & cibo” declinato da ogni publican secondo la propria personalità e filosofia applicate nel proprio territorio con la propria biodiversità, permette al consumatore di oggi, sempre più esigente e competente, di godere di una più ampia scelta per poter soddisfare quella curiosità che rappresenti, come in ogni campo, la molla che faccia crescere l’intero movimento.
Ebbene, mi chiedo, perché non provare, dopo i primi non incoraggianti tentativi, ad “invadere” finalmente anche baluardi finora caratterizzati dall’incontrastato dominio del vino come i ristoranti che propongono la cosiddetta “haute cuisine”?
Abbiamo avuto nel corso degli anni alcune esaltanti “prove tecniche di invasione” ma sempre considerate fattori episodici. La “case history” che di seguito riporto spero possa spingere altri ristoratori ad accorgersi dell’immenso potenziale, etico e culturale, che il nostro movimento artigianale può vantare.
Case history: le birre di 32 Via dei Birrai incontrano l’alta cucina.
Da tempo immemore il birraio Fabiano Toffoli, che considero il mio “figlioccio”, e i suoi due amici e soci Alessandro “Bano” Zilli e Loreno Michielin, mi avevano parlato della forte volontà di organizzare una cena “top level” con le loro birre griffate 32 Via dei Birrai. Un giorno Fabiano mi chiamò trionfante, aveva trovato location, titolare e chef perfetti. Sapendo dell’intransigenza di Fabiano non andai nemmeno a vedere in rete chi avesse scelto per un evento cui lui e i suoi soci tenevano moltissimo. Man mano che si avvicinava la fatidica data, ancora prima della pubblicazione del menù, infatti tutti mi confermarono la qualità e la reputazione del ristorante prescelto, Locanda Solagna a Quero Vas nel bellunese. Si era istantaneamente formato un team affiatato che alacremente, entusiasticamente e collettivamente cominciò a lavorare all’evento. La formazione: alle birre Fabiano e Bano, alla gestione Andrea Riboni, famiglia di ristoratori, che da tre anni aveva preso in consegna la Locanda dalle mani degli zii, ai fornelli il giovane, creativo chef Mirko Cairone, alla comunicazione la vulcanica Ketty Roman e alla conduzione il vecchio Kuaska. Lascio ora “parlare” l’incredibile menù con le birre scelte direttamente dal cuoco.
Come antipasto si partì dopo un pazzesco macaron al fagiolo e cacao, con baccalà mantecato e pomodoro abbinati alla leggera ma profumata 3+2 e ad un sorprendente carciofo fritto alla menta in combattimento con la più forte Audace. Due i primi piatti in scaletta: per gli spaghettoni Felicetti, burro, salvia e tartufo nero estivo si optò per la freschezza della speziata Curmi, mentre per i cappellacci con Piave, pepe, lime e guanciale per la più alcolica Nebra. Ai già disorientati ma felici partecipanti venne proposto, come secondo, una sconvolgente “combo” formata da anatra fritta e canocchia (sì avete letto bene) con zucchine alla scapece da sperimentare con la Oppale per sfruttare le sue note di erba cipollina conferite dal luppolo di Poperinge, la città santa, in Belgio, di questa divina cannabinacea. Ormai pronti a tutto, ci prepariamo al gran finale con un misterioso dolce dall’intrigante nome di “Emigrante” servito non con una birra ma con l’Amaro Ambedue, nato dalla Nebra con utilizzo di estratti naturali di erbe, radici e foglie. Standing ovation finale, automatica a coronamento dei tanti sforzi fisici e mentali che hanno portato a una serata indimenticabile che spero servirà da sprone per altri birrai, titolari e chef nel difficile ma non impossibile sforzo di considerare le birre artigianali degne di entrare nelle prestigiose carte di un sempre maggior numero di ristoranti di alto livello.