Il sapore della semplicità: in fondo la birra va solo bevuta!

bevutaTutti gli appassionati conoscono il Reinheitsgebot, l’editto della purezza bavarese promulgato nel 1516, che sanciva le materie prime ammesse nella produzione della birra: soltanto acqua, malto d’orzo e luppolo (il lievito mancava nella prima stesura, semplicemente perché non ancora conosciuto). Tale editto ha influenzato in modo forse irreversibile le tradizione e la cultura birraria dell’area germanica, dove qualsiasi birraio vi dirà “questa non è birra” in presenza di qualunque ulteriore aggiunta, dai cereali crudi alle spezie, dalla frutta alle altre aromatizzazioni. In Italia la situazione è sicuramente molto diversa. A livello industriale non c’è dubbio che l’influenza tedesca è stata e continua ad essere molto grande: se escludiamo l’utilizzo dei succedanei – principalmente riso e mais, consentiti dalla legge italiana nella misura massima del 40% sul totale del malto – il modello scelto dalle nostre birre industriali è quello tedesco, con la quasi totalità di lager molto semplici nella costruzione e con nessuna concessione a livello di materie prime “atipiche”.

Se invece puntiamo l’attenzione sulla scena artigianale il panorama cambia drasticamente. Fin dagli esordi degli anni ’90 i nostri artigiani hanno sfruttato ampiamente il cliché dell’italica fantasia ed hanno utilizzato, nella definizione delle loro ricette birrarie, davvero di tutto. Solo per fare alcuni esempi sono stati sondati cereali più disparati (oltre all’ovvio frumento e ai già citati mais e riso, anche farro, segale, avena, miglio, sorgo), altri amidacei come la castagna o il grano saraceno, frutti più diversi, spesso locali (pesche, ciliegie, mele, lamponi, ribes, mirtilli e via dicendo), spezie ed aggiunte varie, dai tradizionali coriandolo e scorza d’arancia amara ai più insoliti zafferano, lavanda, vaniglia, rabarbaro, genziana, mirra, curry, erba limonaria, camomilla, fino ad arrivare al caffè, al cacao, al cardo gobbo. L’elenco è ovviamente parziale perché moltissimi dei 434 birrifici oggi censiti da microbirrifici.org hanno sentito la necessità di personalizzare la propria birra, di legarla al territorio, di renderla in qualche modo unica, facilmente riconoscibile.

Oltre a questo il birraio ha spesso preferito la potenza e l’intensità alla scorrevolezza e alla facilità di beva, forse anche a causa dell’elevato (rispetto all’estero) posizionamento di prezzo che la birra italiana deve inseguire. Ed è del tutto comprensibile che in un mercato molto giovane, in grande espansione, in cui è necessario catturare rapidamente l’attenzione, sia più semplice proporre prodotti di grande ampiezza, di rottura rispetto al prodotto quotidiano conosciuto fino ad allora, piuttosto che giocare sugli equilibri sottili e sulla delicatezza gustativa. Ma oggi è ancora così? Le birre più vendute dai birrifici sono ancora quelle più alcoliche, più strutturate, con ricetta più elaborata? Sicuramente il mercato italiano della birra sta cambiando molto in fretta: lo dimostrano le continue aperture di nuovi birrifici (trend che ancora non sembra in calo) e il numero sempre maggiore di persone che consumano abitualmente birra artigianale.

bicchiere birraRicordo che non più tardi di una decina di anni fa, quando si proponeva in una serata di degustazione una gueuze tradizionale, le reazioni erano mediamente tutt’altro che entusiastiche, per usare un eufemismo. Oggi succede molto meno; il gusto per la birra è molto evoluto e si è allontanato decisamente dalla banale birra senza sapore cui purtroppo eravamo abituati prima dell’avvento della birra artigianale. Senza arrivare agli estremi del lambic, basta vedere cosa sta succedendo col “fenomeno” IPA; oggi moltissimi birrifici producono una ale iper-luppolata e in alcune zone d’Italia il palato si è assuefatto agli alfa-acidi. Roma insegna: un mercato che rimane ancora di nicchia, ma sempre meno, e basta fare un salto a Trastevere per rendersene conto. Difficile dire quale sarà la prossima evoluzione del mercato, ma personalmente sono convinto che si possa andare, lentamente, verso una maggiore “sete” di prodotti più semplici, meno impegnativi nel bicchiere ma molto appaganti nella beva. Birre meno adatte ad un baloon belga ma più a loro agio in una pinta da ale o in un flûte da pils. Birre spesso con una ricetta meno articolata, di grado alcolico minore, d’intensità minore e proprio per questo molto più difficili da produrre.

Una birra chiara, di circa 5 gradi alcolici, non potendo affidarsi alla complessità dei malti tostati deve necessariamente lavorare sull’equilibrio. È un prodotto che potremmo definire scoperto, in cui ogni piccola nota stonata è più evidente rispetto alla complessità di una birra molto alcolica, magari con materie prime atipiche, cui anche il degustatore “permette” molto di più. Una birra semplice nella sua struttura deve rincorrere grande equilibrio olfattivo, dove le componenti maltate e luppolate, oltre alle eventuali note fermentative, devono essere perfettamente raccordate; gustativamente diventa essenziale la costruzione del mosto, l’equilibrio tra il corpo, che non deve essere pesante ma nemmeno troppo scorrevole, e l’amaro finale, da gestire con grande sapienza per bilanciare la parte maltata senza incorrere in spiacevoli note rustiche o addirittura astringenti. Se per il degustatore può essere facile descrivere la grande complessità gusto-olfattiva di una birra molto strutturata (come una trappista belga), dovrà essere più attento per cogliere i fini equilibri di una birra più semplice. Birre che andrebbero maggiormente valorizzate, perché quando fatte bene sono prova di grande capacità del birraio e perché quando raggiungono l’equilibrio perfetto sono delle compagne inseparabili, che si fanno bere a qualsiasi ora del giorno e della notte e non stufano mai. “La birra va solo bevuta” dice il claim di un famoso birrificio. Sono perfettamente d’accordo. Quando la birra è quella giusta, berla è un vero piacere “Slow”.