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Ricordi di viaggio nelle Fiandre

A parte Bruxelles e l’adiacente Pajottenland dove sono a casa mia, una provincia a me molto cara è sempre stata quella delle Fiandre Occidentali che, in un articolo di oltre trent’anni fa, definii “un piccolo paradiso nel paradiso”, dove per paradiso intendevo ovviamente il Belgio. Quello che Jacques Brel chiamava “le plat pays” è sempre stato ricco di gemme per il cacciatore di birre con birrerie, caffè, beer-shop, musei e così via, uno dietro l’altro. Grave errore pensare di poter seguire un programma stabilito perché al primo incrocio potrebbe spuntare un rudimentale e sgangherato cartello di legno o di cartone con una freccia e la scritta “ambachtelijke bieren te koop” (birre artigianali in vendita) e il programma va a finire nel cesso per dare inizio ad una giornata memorabile costellata di vecchietti, ognuno con la propria versione sull’etimologia dei termini locali, di posti chiusi dati aperti o aperti dati chiusi, da guide scritte da stranieri che sinceramente amano il Belgio ma che, a differenza del vostro vecchio Kuaska, belgi nel midollo non lo saranno mai! 

Ho girato quella provincia in lungo e in largo partendo, perlopiù quando vi alloggiavo, da Bruges, città con la quale ho un rapporto d’amore enormemente profondo e radicato. Altre città, villaggi e luoghi del Belgio, assieme alla loro gente, sono naturalmente entrati nel mio cuore, ma non con la stessa prorompente forza. In terra di Fiandra ho indubbiamente goduto di indimenticabili momenti ad Anversa e, nell’omonima provincia, a Mechelen; nelle Fiandre Occidentali a Kortrijk, Ostenda e Roeselare; nelle Fiandre Orientali a Oudenaarde, Aalst e Sint Niklaas; nel Brabante Fiammingo a Lovanio, e nel Limburgo ad Hasselt e Genk. Avrete notato come io non abbia nominato Gand o Gent, come andrebbe scritto e detto, ma sinceramente non so per quali recondito motivo, non ho mai instaurato un rapporto altrettanto affettivo con questa bellissima città.  Al contrario il mio carissimo amico da oltre trent’anni, Jef Van den Steen, gran bella persona, autorevole storico e valente birraio di Glazen Toren, da tempo molto conosciuto, apprezzato e amato anche in Italia, definisce Bruges “una città di marionette” quindi finta o artefatta mentre per lui Gent rappresenta la vera, viva città fiamminga! Pur rispettando la sua opinione, io continuerò a coltivare un amore per Bruges che oserei definire quasi morboso, forse paragonabile solo a quello che provo per Bruxelles e non lontano, come intensità, dalla mia ben nota perversione, leggasi Pajottenland! Naturalmente, se dovessi elencare tutti gli aneddoti che mi hanno legato a questa minuscola parte del pianeta, non basterebbe svariati tomi di una nostalgica enciclopedia, ma cercherò di raccontarne solo alcuni tra i più divertenti ma fortemente significativi per capire questo popolo, non semplice al primo contatto ma che, non troppo tempo dopo, miracolosamente si trasforma  da “simil-ligure” a un “simil-romagnolo”.

Un episodio che vi voglio raccontare è legato al mio carissimo amico fiammingo Regnier De Muynck, gran bella persona, oggi publican del bellissimo caffé Le Trappiste di Bruges, che gestiva all’epoca il famoso beer shop “De Bier Tempel” in rue Marché aux Herbes a pochi metri dalla stupenda Grand Place di Bruxelles.  Regnier voleva aumentare il numero, già bello ampio, di bottiglie belghe. Mi chiese di aiutarlo e per prima cosa gli suggerii la birreria De Bie (l’Ape) della quale apprezzavo le birre e che lui non conosceva nonostante si trovasse nella stessa provincia in cui abitava, le Fiandre Occidentali. Una domenica, come da accordi, mi raccolse alla stazione di Bruges e arrivammo in breve, con il suo pick up vuoto, nella magica zona di Watou, paesino minuscolo ma dotato da ben tre fulgide gemme come le birrerie Sint Bernardus, Van Eecke e il rinomatissimo ristorante ‘t Hommelhof, in cui officiava il grande chef e mio vecchio amico Stefan Couttenye. La piccola birreria era veramente difficile da trovare, in mezzo al nulla del nulla, come si usa dire, ma dopo qualche giro a vuoto trovammo il caffè Hellekapelle nel cui cortile sapevo trovarsi la birreria stessa. Presentai Regnier al birraio che, dopo averci fatto visitare la minuscola birreria, tirò fuori tutte le birre della sua gamma. Assaggiammo alla grande e il risultato fu un “compro tutto” che mi costrinse ad inusuali lavori manuali, tipo caricare infinite casse di birra e fissarle con cura, naturalmente sotto il controllo attendo del mio amico, per non correre il rischio di romperne a causa delle sterrate stradine di campagna che avremmo dovuto ripercorrere. A operazione conclusa, prima di ripartire, gli chiesi se avesse firmato la bolla di consegna. Dal suo stupore mi resi subito conto che non poteva capire la mia domanda perché da loro burocraticamente si faceva quello che si voleva. Giunti in centro a Bruxelles, grazie al prezioso “pass” dei negozianti che ti permette di arrivare a pochi metri dalla Grand Place, alzammo la serranda, entrammo e piazzammo sugli scaffali dieci bottiglie per ogni tipo di birra acquistata. Regnier con l’apposita etichettatrice piazzò uno zero dietro il prezzo irrisorio pagato (più di vent’anni fa, c’erano ancora i franchi belgi e, se ricordo bene, costavano meno di mille lire a bottiglia). Dopo un minuto, appena alzammo la serranda, entrarono due turiste giapponesi che, attratte dalle bellissime etichette raffiguranti api e streghe, ne comprarono una per tipo. Regnier, ben sapendo della mia devozione al lambic, mi regalò per l’aiuto e le dritte che gli avevo dato, a ricordo di quella epica giornata, una meravigliosa brocca da litro in ceramica bruna, che conservo ancora con la massima cura, utilizzata, decenni prima, da un estinto caffè del Pajottenland.

Un altro ricordo è legato a un giorno di pioggia feroce, quando andai a visitare il birrificio Strubbe nella piazza principale di Ichtegem. Marc, il birraio, mi aveva consigliato di pranzare nella vicina Eernegem, poco più di 5 minuti di autobus, nel ristorante De Buuzestove. Mi misi a parlare usando un mix di francese-olandese-spagnolo con un simpatico vecchietto sdentato, diventato fratello dopo un paio di birre della casa a prezzo irrisorio, che io credevo facesse Strubbe mentre lui sosteneva le facesse la Brasserie Union di Jumet vicino a Charleroi, cosa molto inusuale per l’epoca dato che in ogni parte del piccolo paese si trovavano quasi solo birre locali se non solo del villaggio stesso. Ricordo che rimase letteralmente sconvolto, con simil-paresi facciale, per avermi sentito parlare delle birre del birrificio Callewaert che io adoravo. Siccome la famiglia di sua moglie era di Zwevezele, proprio il villaggio della birreria Callewaert, conosceva e amava la Extra Stout che beveva nel caffè nella piazza principale. Gli chiesi se fosse vicino ma mi disilluse esclamando subito a voce alta “te ver!” che dal tono e soprattutto da un eloquente gesto con le braccia allargate capii che intendesse dire che fosse lontano. Le speranze tornarono ben presto a materializzarsi quando mi disse che quel villaggio dal nome impronunciabile, che mi scrisse in uno dei foglietti con il logo di un’acqua minerale locale usati per il conto, fosse nella zona di Roeselare, cittadina dove dormivo io e sede di uno dei miei primi amori come la straordinaria birreria Rodenbach, baricentro strategicamente perfetto per andare direttamente a Bruges in treno e anche dai De Dolle con treno fino a Diksmuide e da lì in taxi o autostop. Il giorno dopo, già di buon mattino presi un bus dalla stazione di Roeselare per Zwevegem e da lì dopo un quarto d’ora a piedi sotto un cielo plumbeo ma senza pioggia arrivai al cancello della birreria in mattoni rossi con un bel fumaiolo. Sembrava non ci fosse nessuno e non sapevo cosa fare quando uscì un ragazzotto rubicondo con un carrello che trasportava casse di legno piene di bottiglie vuote. Gli chiesi se parlasse inglese, non osavo farlo in francese. Come immaginavo parlava solo olandese ma alcune parole “internazionali” aggiunte a quelle che sapevo nella sua lingua gli fecero capire che fossi un appassionato degustatore di birre (bierproef) e che venivo dall’Italia. La parola Italia mi aprì la porta della birreria. Entrammo insieme e lui mi presentò, diciamo così, a quello che doveva essere il birraio e/o proprietario, un tipo sulla cinquantina dallo sguardo torvo che ben presto conquistai totalmente sparandogli i nomi delle sue birre per le quali stravedevo come la Extra Stout bella secca e meno dolce delle consorelle come, ad esempio, la stout di Louwaege e poi la corposa Schavuit e la mia preferita Elckelryc, che mi confondeva ogni volta perché mi ricordava più una oud bruin che una vlaams rod, anzi dirò di più, una oud bruin di una volta, diverse da quelle di oggi che nonostante il nome, oud bruin proprio non sono. Adoravo berla e riberla con quella sua nota più lattica che acetica che sposava alla grande le dolci note di caramello con quel lievissimo finale fumé che la differenziava dall’altro mio grande amore, la Odnar di Liefmans. Scioccati e divertiti, mi aprirono bottiglie vintage, alcune imbevibili, altre da lacrima ma il tutto avvenne in piedi, con le bottiglie versate in bicchieri mai cambiati. Evidentemente non era contemplata quella che oggi chiameremmo “tap room”! Erano stati gentili ma avevo capito che dovevo togliere il disturbo in quanto pur non facendo birra, stavano lavorando. Peccato, mi sarebbe piaciuto vedere all’opera quel bollitore che sembrava abbandonato. Andai in bagno o almeno così lo chiamarono e li salutai con un “tot ziens” e loro mi salutarono con un improbabile “adios”.