Questioni caprine: il formaggio di capra incontra la birra
“Come si può governare un paese che ha duecentoquarantasei varietà differenti di formaggio?” Si chiedeva il Generale Charles De Gaulle, parlando della sua amata Francia, per sottolineare come fosse un paese variegato e complesso. Devo dire che una buona dose di ragione il buon uomo doveva averla, anche se poi una più recente tassonomia gastronomica di settore ha portato il numero dei formaggi d’oltralpe a superare il migliaio. Con buona pace e notti insonni dei successori di De Gaulle. Tra le onde di questo mare bianco di latte tramutato in forme d’infinita foggia e sfumature cromatiche ho scelto di parlare del formaggio di capra e di come possa essere abbinato alla birra. Freschissimo o stagionato, il formaggio di capra regala emozioni forti ai suoi amanti fedeli come pure ai “partner occasionali”. Iniziamo col dire che si tratta di un formaggio antichissimo. Pensate che tra le varietà di latte, quello di capra è stato il primo a essere munto e consumato dall’uomo. L’allevamento delle capre era alla base di molte economie rurali per le poche cure richieste da questi animali, per la loro resistenza alle malattie e per il lungo periodo di lattazione. Ma non solo. Anticamente infatti, presso molte civiltà del Mediterraneo e anche in Oriente, questo alimento ha rappresentato il nutrimento principale dei neonati e bambini ed è entrato a far parte persino di miti e leggende. Come quello della capra Amantea, che nutrì il piccolo Giove. In effetti il latte di capra insieme a quello di asina, è quello più simile al latte materno, almeno dal punto di vista chimico, anche se oggi quello vaccino è di gran lunga il più utilizzato. Un formaggio di capra “vero” è più magro e più digeribile rispetto a uno di mucca e non irrita l’intestino, oltre ad essere più ricco di principi attivi che rassodano i tessuti e accendono il metabolismo.
E a tavola? Quali sono le caratteristiche principali di cui tenere conto per mettere in campo la birra giusta e dar vita a un vero matrimonio? Se abbiamo scelto un caprino molto fresco, come una Robiola piemontese, magari di Roccaverano o Mondovì (o una ricottina di capra), dovremo fare i conti con un naso che ricorda lo yogurt o perfino il latte inacidito e in bocca avvertiremo una acidità marcata, anche se alcune produzioni possono virare su una certa insolita dolcezza. Gestire al meglio l’abbinamento in questo caso richiede le maniere forti. Oppure un pizzico di furbizia. Partiamo dalla soluzione numero uno: giochiamo su freschezza e acidità. Andiamo incontro senza paura alle caratteristiche organolettiche del formaggio armati di una bella Blanche, capace di equilibrare e donare armonia al boccone, donando in più pulizia e freschezza. Meglio non esagerare col tenore alcolico e orientarsi su una birra che rimanga intorno ai 5 gradi. Altra strategia può essere quella di non mangiare il caprino fresco al naturale, ma lavorarlo prima, anche con semplicità. Un’idea potrebbe essere quella di amalgamarlo con erba cipollina, olio, sale e pepe e utilizzarlo per farcire degli involtini di bresaola da adagiare poi su una crema di piselli o di fave, o anche di asparagi. In questo modo il formaggio servirà a dare la componente acida al piatto ma non ne rappresenterà la nota dominante. Va da sé che anche l’abbinamento birrario sarà differente: una Pilsner di ispirazione Ceca, con luppoli non invasivi ma eleganti e l’apporto bilanciato del malto vi farà sorridere sornioni, ma anche una APA ben equilibrata e di media struttura potrebbe fare al caso vostro. Per arrivare fino ad un’estiva Gose, per unire pulizia e sapidità.
Prendiamo adesso il caso in cui il caprino da abbinare sia di tutt’altro genere: una versione stagionata. Il naso evidenzierà profumi più complessi e meno lattici, che in taluni casi possono ricordare lo stallatico, lo speziato, fino a veri e propri sentori terziari, come nel caso dei caprini stagionati in grotta anche per anni, nella regione francese dell’Auvergne o in alcune zone della Alpi. In bocca avremo più astringenza che acidità, con punte di piccantezza. In questo caso avremo bisogno di una birra più muscolare, anche se ci sono caprini di sei mesi in Maremma che mantengono una delicatezza da trattare in guanti bianchi e altri in Valle d’Aosta e in Sardegna capaci di reggere una IGA di elevato tenore alcolico, o una robusta Belgian Strong Ale. Non potendo per ovvi motivi analizzare tutta la casistica possibile, prendiamo in considerazione la proverbiale via di mezzo, comunque ampiamente rappresentativa. Un caprino di media stagionatura, da tre a sei mesi, che presenta note olfattive tra l’erbaceo e il leggero pepato, con sentori anche appena più evoluti. In bocca avvertiremo una certa astringenza, ma anche residui di acidità e di lattico. Oltre alla parte prettamente aromatica ed a una marcata pastosità alla masticazione. Cosa scegliere dunque? Provate con una Gueze a l’Ancienne dove acidità, lattico e apporto alcolico sapranno sostenere e bilanciare il formaggio. Alternativa interessante potrebbe essere, restando nella tradizione belga, una Triple. Facendo attenzione però a non cedere alle dolci interpretazioni che talvolta si trovano in giro, bensì affidandosi a versioni più fedeli allo stile, dove dolcezza, acidità e secchezza vanno a braccetto, come nella Westmalle Triple per capirci. Come terza opzione possiamo optare per la Blanche, ma questa volta nelle versioni double, così da avere nel bicchiere più corpo e struttura, oltreché tenore alcolico.