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Quando le parole nella birra sono importanti

Facciamo chiarezza su alcuni vocaboli usati in degustazione

La birra e il suo vocabolario. Ovvero: quando la forma conta quanto la sostanza. Perché una bevuta può essere eccellente nei contenuti qualitativi e ricca di emozioni, ma se poi mancano la parole giuste per comunicare quei contenuti e quelle emozioni, l’incontro che si è avuto corre il rischio di rimanere un episodio confinato entro i limiti dell’esperienza privata, del fatto soggettivo.

Sono dunque importanti le parole: quelle giuste, appunto. Ma cosa s’intende con giuste? In prima istanza adeguate, pregnanti, ovvero capaci di rappresentare una sensazione in modo immediato, preciso, efficace. Poi, su un livello diverso, con giuste s’intende anche condivise, tali cioè da costituire una piattaforma di termini utilizzati e recepiti in modo ragionevolmente univoco in ordine al rispettivo significato; atti a veicolare concetti e sfumature di senso in modo non fraintendibile (o comunque il meno possibile). Ecco perché da tempo, nell’ambiente della divulgazione, non poche voci (compresa quella di Fermento) insistono sul tasto di quello che sarebbe uno sforzo collettivo quanto mai opportuno nell’ottica di individuare un glossario di massima da applicare all’assaggio.

Un passaggio, questo, determinante rispetto all’obiettivo del fare chiarezza in un terreno semantico che ancor oggi, invece, appare infestato da definizioni la cui circolazione è causa di frequente equivoco, ergo di confusione. E se l’argomento può sembrare cerebrale o comunque tecnicistico, et voilà, eccovi servita una lista composta proprio da diciture incriminate, messe sotto accusa in quanto fonte di errori o incomprensioni, soprattutto nei confronti del consumatore medio.

 

LA LISTA ROSSA: RISCHIO INCOMPRENSIONE

Partiamo con un elenco di termini e locuzioni non inesatte in sé, ma oggetto, non di rado, di una scorretta interpretazione. E che dunque includiamo in un fascicolo di espressioni poste sotto stretta osservazione.

barley wine

Corpo. Quello definito come corpo rappresenta uno dei parametri di descrizione di una birra: corrisponde alla sua tessitura materiale (più fluida o più consistente) e dipendente dalle quantità contenute, in quella birra, di sostanze come zuccheri non fermentabili o non fermentati, proteine, glicerina, polifenoli, componenti di natura salina e minerale. Il corpo suggerisce insomma l’idea di come il sorso scorre nel suo passaggio al palato: non va perciò confuso con una generica sensazione di pienezza organolettica né, men che meno, con la specifica gradazione alcolica.

Secchezza. Requisito corrispondente, in una birra, al livello di attenuazione conseguito dai lieviti nel loro compito fisiologico di consumare zuccheri, e dunque al livello di eliminazione di questi ultimi. Una bevuta perciò è secca se il residuo zuccherino tende a valori minimi, mentre non ha a che vedere con il parametro del corpo, di cui si è detto poche righe sopra.

Morbidezza. Altro parametro di descrizione di una birra, corrisponde all’effetto sensoriale generato dalle sue componenti dette, appunto, morbide; ovvero atte a svolgere una funzione che potremmo definire levigante. Tra queste abbiamo alcol, proteine, betaglucani, glicerina e, certamente, anche zuccheri (non fermentabili o non ancora fermentati). La morbidezza non va confusa quindi con la sola dolcezza. Per esempio una Oatmeal Stout può essere morbida senza risultare necessariamente dolce.

Fruttato. Capita ancora, talvolta, di sentir parlare di fruttato con un presunto significato contrapposto a secco. In realtà i due termini interessano, ciascuno, una sfera sensoriale diversa e non correlata con l’altra. Per capirci: una birra può, assolutamente, essere fruttata (in quanto dotata di un ventaglio aromatico orientato in quella direzione) e insieme secca (in quanto ben attenuata nei suoi residui zuccherini).

birra alla frutta 2

Aspro. Da dizionario, l’asprezza è la prerogativa di ciò che ha il sapore acre della frutta acerba. Parlando di birra lo si usa talvolta, non del tutto a proposito, in riferimento a un prodotto dal carattere genericamente acido. Talvolta, più appropriatamente, viene impiegato per una tipologia in cui l’acidità si sommi a risonanze tattili, quali l’astringenza o un certo graffio acetico.

Astringenza. Si definisce astringente quellimpressione di asciugamento e di corrugamento dei tessuti molli del palato che si sperimenta ad esempio quando si masticano la buccia dell’uva o i suoi semi, essendo infatti legata alla presenza di tannini. Rappresenta una tra le possibili sensazioni palatali percepite durante il sorseggio di una birra, nella quale può rilevarsi – tra altre ragioni – a fronte dell’uso di spezie (come il coriandolo o la buccia d’arancia), così come di cospicue quantità di malti torrefatti o luppolo.

Beverino. Voce che ricopre un ventaglio piuttosto ampio di significati. Anzitutto, quello di Beverino (con l’iniziale maiuscola): un comune nella provincia della Spezia. Beverino è anche un vasetto (in vetro o terracotta) da riempire d’acqua e mettere nelle gabbie per dissetare gli uccelli, ma è anche una rete da caccia che (contravvenendo alla normativa in materia) viene tesa sopra stagni, laghetti e così via, dove sempre gli uccelli vanno a bere in estate. Infine (attestato da non tutti i vocabolari) beverino è un modo di designare bevande di facile fruizione. Ecco, in questo senso, il termine si applica anche alla birra. Il punto è che, spesso, nell’accezione diffusa, lo si identifica – appiattendone la valenza – con requisiti esclusivi di basso grado alcolico e corpo decisamente scorrevole. A nostro avviso, invece, ciò che risulta agevole nella fruizione è non solo leggero in gradazione e struttura, ma anche e soprattutto equilibrato: privo, ad esempio, di esuberanze gustative (acide, astringenti, amaricanti). E dunque, tanto per essere chiari, si ha un bel dire quando si voglia catalogare come beverina una Session Ipa solo perché filiforme nella sorsata e contenuta nella stazza etilica: qualora ad esempio quella birra risultasse ruvida nella componente luppolata, saremo decisamente lontani da un effettivo concetto di facile beva.

Frutti esotici, di bosco, a pasta gialla. Partiamo dal descrittore frutta esotica. Ebbene, nel contesto di un’argomentazione come questa, ricorrere a un descrittore sommario come frutta esotica è del tutto plausibile e sensato; ma se andiamo nella concretezza dell’assaggio di una specifica birra, è evidente come tale descrittore risulti approssimativo. Perché di frutti esotici ne esiste un paniere infinito e con tante, troppe sfumature diverse al proprio interno: basti pensare alle differenze che corrono tra un ananas e una banana, tra un mango e una papaia, tra un kiwi e un alchechengi. Identiche considerazioni valgono per altre definizioni generiche quali frutti di bosco o frutta a pasta gialla.

birra frutta

Umami. È uno dei cinque gusti fondamentali, percepito a fronte di contenuti significativi di sali quali il glutammato monosodico, l’inosinato e il guanilato disodici, rintracciabili in formaggi a lunga stagionatura come il Parmigiano Reggiano o in alimenti quali il brodo di alghe e la salsa di soia. Si tratta in particolare di una declinazione particolare della sapidità; non di una generale sensazione d’incremento dell’intensità gustativa.

Temperatura ambiente. Espressione che può diventare estremamente insidiosa se non la si tratta con il dovuto buon senso. Per temperatura ambiente s’intende infatti una temperatura di 18-20 gradi centigradi circa: non certo la sua assunzione letterale, la quale peraltro varia in funzione della stagione e del contesto climatico-territoriale nel suo complesso.

Torbido. L’aggettivo è legittimo qualora la birra si presenti con una sospensione densa a tal punto da renderne la massa liquida quasi non attraversabile da parte della luce; non certo, però, quando la velatura sia appena accennata o anche diffusa ma non densa e offuscante.

hazy ipa

Lager. È il nome d’arte di tutte le basse fermentazioni, dalle Helles (chiare) alle Schwarz (scure), dalle PIls (leggere in taglia alcolica) alle Eisbock (che possono toccare i 14 gradi in volume). È insomma l’appellativo assegnato a una intera tra le grandi famiglie su cui si basa la classificazione birraria; e come tale va usato, ovvero con un’accezione macrocategoriale. Errata, invece, è la sua identificazione con un singolo segmento dell’ampio catalogo di prodotti che fanno capo alla definizione di Lager: ovvero le sole interpretazioni di colore chiaro (dal paglierino alle soglie dell’ambra) e di medio-bassa gradazione. Le quali rappresentano sì la larga prevalenza statistica nel proprio campo d’appartenenza, ma in ogni caso non la sua totalità.

Profumo dolce o amaro. Gli aggettivi di dolce e di amaro vengono non di rado impiegati in riferimento al profumo di una birra. Ebbene, si tratta di un uso non corretto: i due parametri in questione rappresentano altrettanti gusti fondamentali, dunque è soltanto in ordine a questa sfera sensoriale che li si può applicare in fase descrittiva. Al naso abbiamo, è vero, profumi che – per l’esperienza prevalente – possono far presagire, in bocca, un tenore dolce o amaro (si pensi, rispettivamente alle caramellature o alle fragranze erbacee); ma stabilire tra i due momenti dell’assaggio una saldatura automatica è senza dubbio inappropriato.

 

LA LISTA NERA: IL BESTIARIO

E dopo le formule semplicemente sotto osservazione, ecco quelle da evitare senza esitazioni: parole ed espressioni propriamente sbagliate o quantomeno del tutto fuori luogo, se applicate all’ambito brassicolo.

Birraio vs birrario. Il primo dei due termini corrisponde al produttore di birra: da cui il titolo di mastro birraio; il secondo è l’aggettivo che sta a designare qualcosa di riferito al settore: così abbiamo questo e quel festival birrario, questa e quella iniziativa di formazione birraria; questo o quel paese di radicata cultura birraria; questo o quello stile birrario; e via dicendo.

Gittata vs gettata (di luppolo). Gittata è oggi un vocabolo di uso tecnico. Ad esempio in ambito medico (quella cardiaca misura il volume di sangue espulso da un ventricolo nel giro di un minuto); oppure in campo balistico, riferita al lancio di un proiettile, stabilisce la distanza fra il punto d’origine della sua traiettoria e il punto in cui questa incontra l’orizzonte dell’arma. L’operazione con cui si aggiunge luppolo a un mosto in bollitura risponde invece alla definizione di gettata.

Carbonatazione vs carbonazione. La carbonatazione è il processo chimico, naturale o artificiale, per cui una sostanza dà luogo alla formazione di carbonati (cioè sali dell’acido carbonico) sotto l’azione di anidride carbonica. L’aggiunta di anidride carbonica alla birra (e, per estensione, il livello di frizzantezza di quella stessa birra) va sotto il nome di carbonazione.

Dunkel vs Dankel. In designazioni stilistische quali Münchner Dunkel o Doppelbock Dunkel, facenti capo alla Germania e alla sua scuola birraria, il secondo termine (la cui traduzione è scuro o scura) si pronuncia appunto alla tedesca, ovvero dùnkel, e non (come talvolta capita di sentire) all’inglese, cioè dànkel.

dunkel bicchiere

Dubbel vs dabbel. Idem, la definizione tipologica di Dubbel, trattandosi di un termine fiammingo, si pronuncia secondo le regole fonetiche di quella lingua, ovvero dùbbel  e non secondo la fonetica inglese, cioè dàbbel.

Tripel vs tripla fermentazione. Fermi tutti, giù dalla sedia! Non si vuole certo discutere la legittimità di una definizione di tale rango. La Tripel è la Tripel: una tipologia di stampo monastico; di gradazione (mediamente) tra il 7.5 e il 9.5% vol.; di colore chiaro; il cui ventaglio aromatico, ampio, è contrassegnato dalle impronte del lievito; eccetera eccetera. La questione semmai sta nel fatto che qualcuno, ancora, associa quella definizione tipologia con il concetto di tripla fermentazione; il quale fa riferimento a procedure produttive del tutto particolari (ad esempio due fermentazioni in tino e una in bottiglia), come la ben nota Orval, firmata dai trappisti dell’omonima abbazia nella provincia vallona del Lussemburgo. Peggio ancora se la denominazione Tripel viene collegata alla categoria, del tutto inesistente, di triplo malto.