Degustare una birraIn vetrina

Puzza o profumo?

Natura e caratteristiche di alcune sensazioni divisive

L’insospettabile seduzione della sgradevolezza. Ovvero: quel lato oscuro della birra nel cui cono d’ombra (abbastanza più ampio di quanto, su due piedi, si possa immaginare), ci imbattiamo in sensazioni che, se isolate, nessuno esita a classificare come poco desiderabili; mentre, collocate in quel contesto specifico (e dunque combinativamente con le altre componenti, fisiologiche e psicologiche, di quella trama organolettica), trovano la loro platea di sostenitori. Insomma, sensazioni che alla prova dei fatti, esercitano una certa attrattiva. D’altra parte, il tema della non oggettività del gusto è un argomento consolidato e univocamente acquisito. Ne è prova l’assimilazione, nella letteratura popolare, di non poche massime proverbiali e paraproverbiali. Si va dal classico Non è bello quel che è bello, ma è bello ciò che piace, tratto dal racconto Le piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino (uscito nel 1608 per mano di Giulio Cesare Croce); a un aforisma contemporaneo quale Conosco i miei limiti: non sono bello, piaccio!, pronunciato dal personaggio di Romeo (Jerry Calà) nel film I fichissimi, uscito nel 1981 e diretto da Carlo Vanzina. E dunque, dal bello al buono, il passo è breve; tanto da potersi lanciare in una parafrasi quasi inevitabile: Non è buono ciò che è buono, ma è buono ciò che piace. Ora il punto è: quanto, in una pinta, può piacere il non buono? O ancor più precisamente: quali sono le declinazioni del non buono che più sanno accattivarsi il consumatore? Abbiamo provato a stilarne un elenco.

Colpo di luce. Partiamo da una voce davvero tra le più insospettabili, come fonte di fascinazione: il cosiddetto lightstruck (locuzione che traduce esattamente quella usata in italiano), una caratteristica sensoriale che, specie in ambito statunitense, viene designata anche come skunky (aggettivo inglese derivante dal sostantivo skunk, cioè puzzola, e indicante la maleodoranza del liquido rilasciato dalla ghiandole poste sotto la loro coda). L’origine di questa sensazione sta nell’esposizione della birra ai raggi ultravioletti: in tal senso le maggiori molestie arrivano (in ordine decrescente) dalla luce solare, da quella da interni fredda (lampade da supermercato, ad esempio, o da ufficio) e da quella calda (lampade a incandescenza o, comunque, da appartamento). Tale circostanza determina, intervenendo sugli isoumuloni presenti nel luppolo dopo la bollitura (per l’esattezza su una componente strutturale della loro molecola, il gruppo isopentenile), la formazione di composti chimici appartenenti alla famiglia delle sostanze solforate, in particolare, all’area dei mercaptani o tioli: su tutti il 3-metil-2-buten-1-tiolo), la cui presenza viene associata in specie a stimoli odorosi quali quelli aventi a che fare con la decomposizione degli scarti di vegetali e frutta, con il sudore ascellare, e, appunto, con il fluido corporeo spruzzato dalla puzzola. Quali i contesti in cui questa alterazione tende a presentarsi più frequentemente? Tutti quelli che prevedano l’eventualità di un’azione prolungata, a danno di contenitori più o meno trasparenti (vetro bianco e smeraldino in primis), da parte della radiazione diurna o di faretti di vario genere: fortemente indiziata è, dunque, la filiera della grande distribuzione organizzata. E qui arriviamo alle ipotesi sul perché una birra affetta da lightstruck possa vantare la propria schiera di affezionati. Da un lato occorre non sottovalutare come la bottiglia chiara, seppur estremamente indifesa, eserciti sull’acquirente un appeal mentale innegabile; dall’altro incide il fatto stesso per cui, attraverso la vulnerabilità del sistema GDO, i prodotti recanti il timbro del colpo di luce occupino i circuiti commerciali in quantità esorbitanti, tanto da finire per plasmare a proprio vantaggio, mediante un ineluttabile meccanismo di assuefazione, il gusto stesso del mercato di massa (tanto che oggi questo difetto eliminabile con l’utilizzo di luppoli modificati, rimane una caratteristica voluta di alcuni prodotti). Tra l’altro le tipologie più soggette alla fotoalterazione (dalla quale sono ovviamente immuni fusti in acciaio e lattine; e la cui insorgenza è assai ostacolata dal vetro nero, bruno, scuro in generale e in parte anche dal verde militare) risultano essere le meno dotate organoletticamente come le Lager chiare, ovvero le più frequentemente e numerosamente circolanti tra gli scaffali delle reti di vendita.

puzzola birra

Mercaptani. Argomento simile a quello appena esposto vale per le caratteristiche organolettiche che la birra assume a causa della presenza di molte altre molecole appartenenti alla classe chimica generale alla quale può ricondursi la fattispecie stessa dello skunky: quella categoria di composti solforati che vanno sotto il nome di tioli o mercaptani. Benché numerosi e assai variegati, li caratterizza un comune denominatore: la tendenza a presentare manifestazioni odorose in assoluto poco auspicabili. Si va da quelle tipiche di alimenti quali aglio e cipolla (o porri), a quelle riconducibili a deiezioni animali, quali l’urina di gatto; da quelle assimilabili a processi di sudorazione, a quelle proprie della decomposizione di materiale commestibile come vegetali o frutta. Come e quando si formano i mercaptani? E quando si corre il rischio di trovarne nella birra? Oltre all’evenienza dell’appena citato light struck, altra causa scatenante può essere l’autolisi del lievito esausto. Ovvero la fagogitazione, da parte delle sue cellule, per mancanza di altri nutrienti (avendo consumato tutto lo zucchero disponibile), delle loro proprie pareti, con conseguente fuoriuscita del materiale citoplasmatico interno. Un inciampo che si rischia, com’è facile intuire, al termine della fermentazione primaria: passaggio cruciale in corrispondenza del quale occorre allora intervenire separando il lievito medesimo e la birra fresca in tempi convenientemente tempestivi. Peraltro, fenomeni di autolisi possono verificarsi anche su prodotto finito, nel caso si tratti di una procedura con rifermentazione in fusto o bottiglia: l’esposizione a colpi di calore nuoce infatti al lievito, le cui cellule ne vengono sostanzialmente uccise, avviandosi successivamente a decomposizione. Attenzione, però: tracce di tioli di vario tipo sono tipici anche di alcune essenze di matrice fruttata e floreale. Alcuni esempi? Ecco qua: mango (para-mentana-8-tiol-3-one, 2-Pinanethiol), ananas (3-metiltio-propionato di etile), uva spina (4-metossi-2-metilbutano-2-tiolo), petali di bosso (mercapto-4-metil-2-pentanone). E qui si apre uno spazio interpretativo che aiuta a capire il perché alcune di queste note solforate risultino, anche quando espresse in misura marcata, alquanto appetibili per il consumatore. Non sfuggirà infatti al lettore come le sensazioni, di timbro esotico-tropicali e fiorite, alle quali abbiamo appena fatto cenno rientrano a loro volta nel patrimonio aromatico tipico di luppoli quali Mosaic, Simcoe e Nelson Sauvin, quest’ultimo così battezzato proprio per la propria inclinazione sauvignoneggiante, ovvero ricalcante quel particolare e identitario descrittore sensoriale del vino Sauvignon Blanc che è la pipì di gatto. Ebbene, si tratta di luppoli che, da molti anni, figurano tra quelli che vanno per la maggiore nelle simpatie dei consumatori, e che, attraverso la pressione della consuetudine, hanno finito, anch’essi, per stabilire un paradigma odoroso capace di instaurarsi come vincente, tanto da modellare il gusto collettivo in una direzione (paradosso solo apparente) favorevole appunto ai mercaptani in generale.

saison bicchiere

Veniamo ora a un gruppo di sensazioni il cui sdoganamento è probabilmente da collegarsi al successo riscosso, negli ultimi anni, dal filone di quei prodotti fermentativi (derivanti da materie prime varie e diverse: cereali, uva, mele e altri ancora) che hanno, quale comune denominatore, quello di ispirarsi a un’idea di ricostruzione e riproposizione dei risultati organolettici ottenibili applicando processi di lavorazione che potremmo definire ancestrali o quantomeno pre-tecnologici. In campo vitivinicolo, ad esempio, si ha di fronte l’avventura dei vini naturali, con le loro luci e le loro ombre. In campo brassicolo, da un lato troviamo l’ambito procedurale delle Farmhouse Ale (con il loro ampio catalogo di declinazioni); mentre su un altro fronte abbiamo il vasto territorio delle Wild Beer, a spartirsi il quale sono da una parte le fermentazioni miste (le Brett Ales, certe Fruit Ales o certe Herbs Ales) e dall’altra le spontanee propriamente dette (in testa i Lambic belgi e a seguire le loro interpretazioni etichettata come Spontan, Spontaneum, Coolship Beer, etc…). Un recinto esperienziale di dimensioni non enormi, in termini di presidio del mercato, ma molto sfaccettato al proprio interno ed estremamente capace di orientare con forza alcune porzioni del mercato stesso, tanto da arrivare a contaminarlo nella sua interezza. Realizzando insomma, come si è detto, un processo di sdoganamento a vantaggio di alcune caratterizzazioni sensoriali, e in particolare, a essere premiate, ci sembrano le tre di cui andiamo a occuparci singolarmente. 

Cantina. È il timbro tipico degli ambienti di lavorazione che, presentando tassi elevati di umidità, costituiscono gli ambienti privilegiati per lo sviluppo di muffe: funghi pluricellulari il cui sviluppo si associa a impressioni odorose, forse  lapalissianamente ma efficacemente, designate come muffite. Praticamente impossibile non imbattervisi sorseggiando un Lambic o un’altra spontanea; né risulta affatto raro quando si abbia a che fare con una Saison o una Bière de Garde in versione Farmhouse, specie se il protocollo preveda passaggi in botte o in terracotta. Dal punto di vista chimico, l’effetto-cantina è ascrivibile a un elenco piuttosto nutrito di molecole (prodotte, tra l’altro, anche da microrganismi di natura diversa). Ad esempio l’armillaria mellèa, essa stessa un fungo, genera tricloroanisolo, responsabile del tipico sentore di tappo. Mentre non solo le muffe, ma anche alcuni batteri, possono rilasciare composti come la geosmina (ottaidronaftalen-4a-olo, da nomenclatura Iupac), il 2-metilisoborneolo o il 2-etilfenolo, sostanze che hanno la particolarità di conferire, anche a concentrazioni molto basse, una forte impressione di terriccio, muschio, legno o stracci bagnati. 

Terroso. Paragonabile ma non assimilabile al muffito propriamente detto, questa sensazione (che potremmo designare ricorrendo a descrittori alternativi quali humus o suolo o earthy) sembrano doversi correlare all’attività osmofora di un insieme articolato di molecole. Tra esse due alcoli terpenici già menzionati: la geosmina e il 2-metilisoborneolo, sostanze entrambe prodotte dal metabolismo di microrganismo chiamati actinomiceti o micobatteri. Poi gli acidi grassi palmitico (o esadecanoico, associato a note cerose) e stearico (o ottadecanoico, collegato a spunti di grasso, oleoso e rancido). E ancora il dimetiltrisolfuro (composto solforato con risonanze da verdura cotta); l’aldeide beta-ciclocotrale; il chetone che risponde al nome di beta-ionone. Ora, a prescindere dalla derivazione batterica di tali sostanze, occorre tener presente come impressioni terrose o rizomatose siano tipiche anche di alcuni luppoli: tra le quali, accanto ai britannici East Kent Golding, Fuggle e Progress, troviamo (con caratterizzazioni chiaramente meno marcate) anche varietà meno scontate quali il boemo Saaz, l’australiano Summer, gli americani Lemondrop e Willamette, lo sloveno Styrian Golding. Una selezione di coni dalla quale discende la conseguente possibilità di rinvenire caratterizzazioni earthy in un ampio catalogo di stili birrari, come le Bitter, le Mild, ma ancor più le Porter e le Stout. 

Animale. Descrittore complesso, fa riferimento all’esito combinativo di tutto un insieme di sensazioni specifiche legate al metabolismo dei lieviti selvatici, i Brettanomyces. I quali, nel loro ciclo riproduttivo, generano composti chimici in gran quantità: ad esempio 4-etil-fenolo e 4-etil-guaiacolo (da cui derivano forti impressioni di timbro disinfettante, ospedaliero e medicinale); 4-vinil-fenolo e 4 vinil-guaiacolo (associati a percezioni di acetone o solvente); varie tetraidropiridine (portatrici di odori da cuoio o da pellicce animali, come il volpino o foxy e l’equino o horsey); nonché piccole quantità (in funzione della singola specie di lievito selvatico) anche di acido lattico e acetico, da cui i conseguenti sentori da yogurt e da aceto. Il tocco brettato – vissuto come difetto vero e proprio fino a non moltissimi anni fa – è al contrario oggi accolto come elemento identificante, e volontariamente cercato, di un certo modo di produrre (birra o vino che sia), e quindi viene percepito come una connotazione ammissibile (anche oltre il proprio perimetro stilistico fisiologico delle fermentazioni non convenzionali), non di rado addirittura come una sfumatura di pregio. 

luppolo pellet

Pellet. Teniamo per ultimo, e non a caso, l’argomento più scivoloso. Nel senso che fa riferimento a una sensazione definire la quale non gradevole è, oggi, quantomeno coraggioso. E lo è proprio perché si tratta di una connotazione organolettica ormai talmente comune da essere percepita non solo come normale, ma spesso come desiderabile e qualitativamente positiva. Parliamo di quella sfumatura olfattiva che distingue il luppolo in pellet da quello fresco, e che è, probabilmente, correlata alle concentrazioni – più elevate dopo il processo di essiccazione, polverizzazione e pressatura – delle varie aldeidi (quali esanale ed eptanale) alle quali fisiologicamente si devono le più intense percezioni definite come vegetali o verdi. Una connotazione che se presente al palato, nel finale di sorso o nel retrolfatto sotto forma di pungenza e piccantezza, è considerata sgradevole. Diversa è invece la situazione quando ci si attiene all’ambito strettamente olfattivo, dove abbiamo tra le mani una sensazione che non risulta affatto facile da descrivere, e che, nel tentativo di farlo, potremo utilizzare un’immagine combinativa: la somma tra una forte, addensata, caratterizzazione erbacea e una certa impressione di chiuso, di non aerato (il che non significa di stantio, sia chiaro). Quale l’ambito stilistico in cui rinvenire questa sfumatura? Ovviamente quello, assai dilatato, di tutte le tipologie in cui i fiori del tenace rampicante recitano il ruolo di protagonisti: dalla sterminata genealogia delle American Ales a tutte le produzioni consacrate al dry-hopping. Il che, di per sé, basta a far capire la ragione per cui, a questo punto, dibattere attorno al naso da pellet (ma noi lo facciamo lo stesso) assuma un carattere quasi accademica: l’occupazione manu militari di larga parte del mercato ad opera dei generi birrari appena citati e il contestuale impiego, su tali ricette (American Ipa, Double Ipa, Session Ipa, Neipa…), di pellet in dosi massicce, fanno sì che l’olfatto tipico di quel formato sia non di rado sovrapposto e fatto coincidere (nella percezione prevalente) con l’aroma del luppolo tout court. Anzi, anche in questo caso, si è passati a rintracciare, in quella che anni fa era avvertita come leggera ineleganza, un elemento non soltanto normale, ma per qualcuno addirittura un requisito desiderabile