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Consigli per fare in casa ottime birre inglesi

Adoro l’Inghilterra e i suoi pub. Adoro i banconi con i “resident drunk”, le spine a pompa, gli sgabelli e le moquette dagli aromi di birra vecchia, stantio e polvere. Quando ho iniziato a fare birra in casa, con la prima cotta dieci anni fa, il mio pensiero è andato subito a Londra. La mia prima birra prodotta in casa fu infatti una Porter, che replicai diverse volte cercando di migliorarla sempre di più. Poi sono venuti altri viaggi in Inghilterra, è cresciuta la passione per quegli stili ma anche la consapevolezza che girando per i pub del Regno Unito le delusioni alla bevuta erano maggiori degli entusiasmi. Ma quando ti capita nel bicchiere la gemma – e capita, se si persiste – l’esaltazione è grande: birre di una semplicità estrema, di gradazioni a volte quasi da birra analcolica, riescono a suscitare emozioni indescrivibili. Il mondo della birra inglese è poco legato alle bottiglie, e molto alle spine, in particolare alle spine a pompa. Difficile ricreare tutto questo in casa, ma con un po’ di pazienza, esperienza e strumentazione ci si riesce ad andare piuttosto vicino.

Acqua
Partiamo dall’acqua. Ecco, ci tengo a placare gli animi: non c’è nulla di complesso, qui. Niente acque storiche, niente solfati a 800 ppm, tutto molto più semplice di quanto possa sembrare. Le cosiddette acque storiche sono interessanti, appunto, da una angolazione puramente storica. Raccontano come mai un certo stile si è diffuso in una certa regione in un determinato periodo. Ma in un contesto attuale, dove possiamo partire da acque osmotizzate o in bottiglia, misurare e modificare il pH con acidi vari durante tutto il processo di produzione, aggiungere sali a piacimento, il concetto di acqua storica perde di significato.
Quindi, per essere concreti. Per birre chiare/ambrate sarebbe meglio utilizzare acque con bicarbonati bassi, intorno alle 100 ppm, ma anche fossero più alti non è un dramma. L’importante – ripeto: l’importante – è mantenere il pH di ammostamento in un range accettabile (5.2-5.5 in mash, misurato a temperatura ambiente). Una concentrazione maggiore di bicarbonati renderà necessario aggiungere più acido per abbassare il pH, ma per gli stili inglesi, sempre abbastanza decisi nei sapori maltati e/o luppolati, questo non è un problema. Per il resto, rapporto solfati/cloruri sbilanciato sui primi per dare un taglio più secco ed esaltare l’amaro, all’opposto per dare un mouthfeel più rotondo e spingere l’acceleratore sulla dorsale maltata. È più importante il rapporto tra i due piuttosto che i valori assoluti, e in ogni caso non andrei oltre le 100 ppm di cloruri e le 150 ppm di solfati. Tutto qui. Se poi proprio qualcuno ci tiene a replicare una Burton Ale con l’acqua di Burton, tanti auguri.

ammostamento

Malti e ammostamento
Quando si pensa all’Inghilterra e all’utilizzo dei malti, viene subito in mente l’ammostamento cosiddetto all’inglese. Insieme alla decozione, diffusa in alcune parti della Germania e nella Repubblica Ceca, e al turbid mash, tipico delle birre a fermentazione spontanea del Belgio, è probabilmente uno dei metodi di ammostamento maggiormente legati a una specifica area geografica. L’Inghilterra, appunto. A differenza però di decozione e turbid mash, l’ammostamento all’inglese è quello più replicabile negli impianti di produzione casalinga. È caratterizzato infatti da un singolo passaggio di ammostamento, che permette di gestire la conversione degli amidi in zuccheri anche con un pentolone privo di riscaldamento: un singolo step, che può essere condotto tra i 66 e i 70°C, per un’oretta, e poi via in bollitura. Il tutto può essere facilmente gestito in un tipico thermos da picnic, dove prima si posizionano i malti macinati e successivamente si aggiunge l’acqua riscaldata a parte in una pentola, magari quella gigante in alluminio dove la nonna faceva bollire la passata di pomodoro. Ok, l’alluminio non è il massimo quando c’è contatto con gli alimenti, ma se usato solo per scaldare l’acqua non acidificata è tollerabile. Una volta uniti malti e acqua si mescola bene, si verifica che il pH sia nel range 5.2-5.5 – se non lo è si aggiunge un po’ di acido lattico – e il gioco è fatto. Tutto questo è possibile grazie ai malti inglesi che, storicamente, sono stati tra i primi a subire un processo di maltazione avanzato che li rende ben modificati e quindi gestibili con un singolo step di ammostamento. C’è da dire che ormai questo discorso vale per la maggior parte dei malti in commercio, quindi l’ammostamento all’inglese potrebbe essere applicato senza pensieri anche a birre in stile americano, belga ma anche a diversi stili tedeschi e cechi. La decozione ormai non serve tanto a gestire i malti ma a conferire al mosto sfumature organolettiche particolari, o almeno questo è quello che sostengono i birrai più romantici.

Nonostante si legga ovunque che in Inghilterra si fa molto uso delle cosiddette “adjuncts”, ovvero malti poco caratterizzanti come mais o zuccheri semplici come destrosio, sciroppi vari (treacle, molasse), questo è solo parzialmente vero. Ci sono stati periodi storici in cui si è fatto ricorso a queste aggiunte, come le melasse o gli sciroppi concentrati per scurire le Porter intorno alla fine del 1700 o agli zuccheri semplici nelle Mild o nelle Bitter per – si dice – renderle più secche, ma probabilmente, come capita in molti casi, la realtà è più grigia della fantasia e le aggiunte, specialmente quelle di zuccheri semplici, erano fatte per risparmiare sugli ingredienti. Sinceramente, ad oggi, non mi sentirei di consigliare aggiunte di mais o zuccheri semplici in Mild o Bitter, già tenui nel corpo per via del basso tenore alcolico. Non ne vedo il bisogno, a meno che non si tratti di sciroppi fortemente caratterizzanti (penso al Black Treacle delle Lyle’s) che possono dare un contributo organolettico importante anche in modestissime quantità (intorno al 2% in peso sul totale dei malti utilizzati).
La base è quasi sempre malto Pale, spesso di varietà (dette cultivar) particolari come Maris Otter o Golden Promise. In tempi moderni molti birrifici inglesi utilizzano anche i cosiddetti malti Extra Pale (il Bairds 2.0 ne è un esempio), di colore più simile al malto Pilsner, impiegati nelle Golden Ale o nelle moderne Pale Ale luppolatissime di colore più vicino a una Pilsner che a una tipica IPA inglese. Gli stili storici, praticamente tutti quelli inglesi a meno delle Golden Ale (stile moderno nato negli anni 80) presentano un colore che va dall’ambrato chiaro in poi, quindi l’utilizzo di malti Crystal, anche questi tipici inglesi perché nati proprio qui ai tempi di Wheeler nel 1800, sono d’obbligo. Attenzione a non esagerare però: come vedremo nel seguito, i lieviti inglesi tendono mediamente ad avere una idiosincrasia per il maltotriosio, e quindi un’attenuazione che si lascia dietro diversi zuccheri residui. Abbondare troppo con i malti Crystal produrrebbe un eccesso di zuccheri complessi nella birra finita, rendendo la bevuta potenzialmente stucchevole. In genere si trovano nelle colorazioni Light, Medium e Dark. Un mix tra i tre o tra due dei tre è ad esempio ottimo per una Bitter, tenendoli sempre al di sotto del 10%. I malti Crystal aggiungono complessità in Porter o Mild, e anche in Barley Wine. Attenzione però: tendono a favorire l’ossidazione, per via delle melanoidine facilmente ossidabili a caldo, rendendo le birre meno longeve.

Oltre ai malti base, fanno spesso capolino nelle birre inglesi altri malti come il Mild (usato anche al 100% nello stile omonimo) dalle tonalità leggermente più scure del Pale e più carico di melanoidine aromatiche grazie al contenuto iniziale più alto di composti azotati e l’Amber, vicino al più conosciuto Biscuit in termini di contributo aromatico, che può ricordare vagamente il caramello e il biscotto secco. Questo secondo malto è piuttosto caratterizzante, occhio alla percentuale di utilizzo che non porterei oltre il 6-7%.
Tra i malti scuri il Roasted Barley è quello meno presente in UK, appunto perché non modificato, mentre si utilizzano di più Chocolate e Black Malt in Porter e Stout. Utile anche il più moderno Pale Chocolate, meno tostato degli altri due, in grado di conferire colore, sfumature rubino e un finale leggermente più secco senza strafare sulle tonalità tostate. Vale poi la pena provare malti di piccole malterie inglesi che ancora maltano a terra e che si trovano anche in Italia, come quelli della Warminster.

Luppolo
Se da un lato è vero che il luppolo è approdato in UK in tempi abbastanza recenti, dall’altro c’è da dire che è arrivato per restarci. East Kent Goldings e Fuggle sono due luppoli iconici a livello mondiale, entrambi nati e cresciuti in Inghilterra. Non sono gli unici luppoli originari dell’Inghilterra, ce ne sono diversi come Bramling Cross, Challenger e altri più moderni, ma senza ombra di dubbio East Kent Goldings e Fuggle restano il marchio di fabbrica di stili inglesi classici come Bitter, India Pale Ale, British Strong Ale varie, Porter, Stout ma anche Barley Wine, specialmente se giovani. Uno dei lati più affascinanti della produzione casalinga di birra in casa è proprio quello di potersi godere stili che è ormai difficile trovare, perfino nelle regioni di origine. Girando l’Inghilterra si incontrano infatti spesso nei pub più che altro birre di colossi industriali o comunque di dimensioni ragguardevoli che producono birre di scarso interesse, oppure produzioni craft moderne iperluppolate, con doppi e tripli dry hopping di luppoli americani o pacifici che strizzano l’occhio alle produzioni americane. Ma il fascino di una bitter o di una India Pale Ale ambrata, con i sentori terrosi, agrumati e floreali dei luppoli inglesi rimane un’emozione indimenticabile.

Il Fuggle è un po’ ostico da utilizzare, con i suoi aromi terrosi, tonalità quasi “umide” che possono ricordare lo straccio bagnato o la cantina senza finestre in cui si dimenticano vecchie cianfrusaglie. Ma proprio questo tocco di terreno, tabacco, legnoso calzano a pennello su una Porter dalle note tostate, in dosaggi bassi a fine bollitura (1 o 2 g/L). Su Bitter o India Pale Ale possiamo osare di più (4-5 g/L), dividendo magari le aggiunte anche in dry hopping, ma non necessariamente. Aggiungiamo un tocco di East Kent Goldings per arrotondare l’aroma con note erbacee, floreali (soprattutto lavanda) e agrumate (arancia). I Barley Wine luppolati all’inglese sono quelli che amo di più, birre che possono evolvere in maniera incredibile passando da un amaro spinto (possono arrivare a 70 IBU) e un aroma di luppolo abbastanza intenso se bevuti giovani, fino a sconfinare nel mondo delle terziarizzazioni (Madeira, Sherry) e delle morbidezze quando vengono lasciati invecchiare. Insomma, con soli due luppoli si navigano praticamente tutti gli stili inglesi, anche se un tocco di Citra o Cascade su una Golden Ale male non fa. Anzi.

Lievito e fermentazione
Sui vari ceppi di lieviti inglesi disponibili per gli homebrewer si potrebbe scrivere un intero articolo, cosa che abbiamo già fatto nel numero 55 di questo magazine. È tuttavia interessante delineare dei tratti generici comuni a molti dei lieviti originari del Regno Unito. Interessante anche l’approccio alla fermentazione, differente per molti aspetti, almeno nella tradizione, da quello di altre regioni brassicole. I lieviti inglesi sono in genere caratterizzati da attenuazioni non altissime (la maggior parte si fermano al 70-75%) e da profili aromatici leggermente fruttati. Il fruttato inglese è diverso da quello delle birre del Belgio, è meno invasivo e tendenzialmente meno evidente. Gli aromi fruttati sono spesso sottili, gli esteri più comuni ricordano la pera, la pesca, la mela golden – in alcuni casi leggermente matura – quasi mai la banana (ma ci sono eccezioni, come nella Old Peculier della Theakston). Possono emergere note di frutta rossa come ciliegia, mora o prugna, ma spesso queste sono dovute all’utilizzo di malti scuri piuttosto che a esteri del lievito. Note fenoliche, ovvero speziate, in genere non ce ne sono.

Altro aspetto da tenere in considerazione è, come già detto, la scarsa attenuazione della maggioranza dei lieviti inglesi. Alcuni ceppi famosi, come ad esempio il secco ESB della Lallemand, sono maltotriosio-negativi, ovvero non sono in grado di metabolizzare il maltotriosio, zucchero costituito da tre molecole di glucosio, in genere presente nel mosto in percentuali attorno al 15%. Se quindi produciamo una bitter da OG 1.045 e la fermentiamo con un lievito maltotriosio-negativo, avremo attorno ai 5-6 punti di FG in più rispetto a una classica fermentazione, ad esempio, affidata al classico US05. Attenzione, questo non è un male in assoluto, come in molti sono portati a pensare. La birra non sarà necessariamente più dolce, lo sarà – ovviamente – a parità di IBU. Ma basta aggiungere amaro, più del solito, per bilanciare al meglio questo residuo. Che, anzi, ci aiuterà – non poco – a sostenere il corpo in birre poco alcoliche come Mild e Ordinary Bitter. L’attenuazione in sé è un numero, non significa nulla se non viene contestualizzata. Quindi, occhio al bilanciamento (IBU) e alla OG: se partiamo da OG “standard” otterremo birre molto poco alcoliche per via della ridotta attenuazione. Però, di nuovo: è sufficiente tenerne conto in fase di stesura della ricetta.

Per favorire l’attenuazione si possono tuttavia provare diverse strade. Nei birrifici inglesi che impiegano ancora tecniche di produzione storiche, si usano ad esempio fermentatori aperti, di forma rettangolare, più larghi che alti (i famosi Yorkshire Squares). Il lievito lavora meglio in presenza di aria (ovvero senza “coperchio”) e ridotta pressione (fermentatori larghi e bassi) durante la fermentazione. Questi fermentatori sono dotati anche di una pompa che rimette il lievito in circolo dal basso verso l’alto durante la fermentazione, cercando di non farlo “addormentare” e favorendo quindi l’attenuazione.

Tutto questo si può replicare in casa con fermentatori in plastica (o vasche inox tipo gelato) più larghe che alte. Lasciando i contenitori aperti per i primi due giorni di fermentazione, quando il krausen (la schiuma di fermentazione) è alto e protegge la birra dall’ingresso eccessivo di aria. Meglio tenerlo chiuso fino a quando non parte la fermentazione, poi aprirlo, lasciare aperto e trasferire in un contenitore chiuso dopo un paio di giorni. Anche dare una rimescolata (o insufflare CO2 dal basso in un contenitore chiuso) aiuta a rimettere in sospensione il lievito, ma non aspettatevi miracoli sull’attenuazione.

Le temperature è meglio tenerle basse all’inizio per non eccedere con gli esteri: 18-19°C sono un buon punto di partenza, ma già alla fine del secondo giorno meglio iniziare ad alzare per arrivare anche a 22-23°C. Con alcuni lieviti, tipo il già citato ESB, è utile alzare di un paio di gradi direttamente alla fine del secondo giorno di fermentazione.

Purtroppo i lieviti inglesi, quasi tutti, tendono a ripartire nel tempo, specialmente in birre con dry hopping (il luppolo può liberare ulteriori zuccheri semplici). Non è raro, anzi è piuttosto comune, che un lievito inglese vada a sovracarbonare la birra dopo un paio di mesi in fusto o in bottiglia. Per questa ragione, alcuni birrai alla fine desistono e iniziano a usare lieviti neutri americani, come US05, nelle loro Bitter, Porter o Mild. Cosa che si può fare ottenendo anche ottimi prodotti, ma certo limita un po’ la differenziazione del profilo aromatico e la complessità organolettica di alcune birre inglesi. Aggiungere lievito da rifermentazione CBC della Lallemand potrebbe aiutare in questo senso, in quanto è appositamente pensato per il cask conditioning e possiede il “fattore killer”, ovvero emette una proteina che inibisce la fermentazione di altri lieviti (non di tutti, ma può dare una mano in molti casi). Per quanto riguarda la rifermentazione in bottiglia, sebbene tradizionale, non la reputo centrale per questi stili. Si gestiscono benissimo, probabilmente anche meglio, con la carbonazione forzata. Ma non ditelo al CAMRA.

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Servizio
Anche qui ci sarebbe da scrivere un libro sul servizio della birra all’inglese (spoiler: esistono), ma limitiamoci a dare qualche consiglio per gestirlo al meglio in casa. Ovviamente la soluzione ottimale per molti degli stili inglesi sarebbe la spillatura a pompa, non tanto per l’assenza di spinta di CO2, ma per il fatto che questo sistema crea una schiuma a bolle finissime e un mouthfeel cremoso, dando sostanza e pienezza a birre poco alcoliche con una dorsale maltata ben presente. La spillatura a carboazoto (azoto + anidride carbonica) ha più o meno un effetto simile. Entrambe le configurazioni sono abbastanza difficili da gestire in casa, ma possiamo andarci vicino. Anzitutto, nelle birre inglesi la carbonazione deve essere bassa, ma non bassissima (specialmente se servite in bottiglia). Per evitare di avere totale assenza di schiuma quando versiamo la birra dalla bottiglia, meglio attestarsi intorno a 2.0 volumi, 1.8 per quelle scure. Alla spina si può osare una carbonazione leggermente più bassa, anche fino a 1.5, cercando di giocare con la pressione di spinta per generare maggiore schiuma al momento della spillatura.

Cercate di conservare le birre inglesi al freddo, ad eccezione di Barley Wine o Old Ale (che poi, a parte la differenziazione storica, sono praticamente la stessa cosa) la cui maturazione beneficia magari di temperature di cantina da 10-15°C. Ma Bitter, Mild, Porter, Stout, English IPA stanno benissimo in frigo. Si conservano meglio (sono abbastanza sensibili all’ossidazione) e si evitano fastidiose sovracarbonazioni (Porter e Mild con la bolla sostenuta sono piuttosto fastidiose al palato).