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Piccoli birrifici crescono: Birrificio Diociottozerouno

Alle ore 18 molte persone finiscono di lavorare e possono iniziare a pensare alla famiglia, ai propri hobby, alle commissioni personali o – nel caso di Diciottozerouno – a dedicarsi alle birre, alle fermentazioni e a tutte le attività di un birrificio. Già perché il piccolo birrificio di Oleggio Castello, in provincia di Novara, nasce sì come progetto professionale, serio e a lungo termine, ma anche come secondo lavoro per Davide Sica, appassionato homebrewer.

Dunque questa storia comincia alle 18:01 di un freddo gennaio del 2014, con la prima cotta e l’inizio di un periodo difficile e faticoso in cui Davide si deve districare tra il lavoro di consulente, nell’area milanese e quello da birraio sulla sponda piemontese del lago Maggiore. Il primo socio è un amico di Davide, ma durerà lo spazio di qualche cotta, una volta realizzato che il business della birra è più sudore e lacrime che soldi e soprattutto tanta burocrazia, che come in molti altri casi genera ritardi.

Nell’orbita del birrificio inizia così ad affacciarsi Marco Bonfà, fisioterapista e discreto homebrewer. Arriva da curioso, aiuta ogni tanto durante le cotte, intuisce che può esserci spazio per lui e anche Davide capisce che sarebbe un ottimo socio. Il problema sono i fondi e dove reperirli. Ecco il piano: Marco avrebbe dovuto partecipare e vincere, almeno secondo i “modesti” piani, ad un concorso indetto da Simatec in occasione di BeerAttraction 2016. Il nostro arriva alle fasi finali ma la vittoria resto un sogno; la leggenda vuole che l’impianto su cui gli fecero eseguire la sua ricetta si impiantò sul più bello. Il premio avrebbe dovuto essere un impianto da 300 litri che, una volta rivenduto, avrebbe assicurato i capitali per entrare in società con Davide. Alla fine i capitali saltano comunque fuori e Marco diventa socio a tutti gli effetti.

I primi anni di attività sono difficili, complessi, faticosi. Sia Davide sia Marco non possono permettersi di lasciare i rispettivi lavori e il birrificio tiene fede al proprio nome. Un lavoro, lo sanno bene tanti altri birrai che ci sono passati, è quasi impossibile da conciliare con l’attività di un birrificio. Fare birra non è un gioco, occorre essere concentrati, un errore può costare tanto, sia economicamente che in termini di immagine, soprattutto all’inizio. Sbagliano qualche scelta strategica, investendo su collaborazioni che in poco tempo si riveleranno pessime, ma questo a ben vedere è proprio figlio della stanchezza e del poco tempo a disposizione, che porta anche a non valutare bene le persone e a prendere decisioni affrettate. I due soci stringono i denti, tengono duro e finalmente, poco a poco, Davide si stacca dal vecchio e logorante lavoro per dedicarsi totalmente al birrificio.

Diciottozerouno impianto

L’attività è nata e ha preso forma a Oleggio Castello, in provincia di Novara, in quella che era la casa delle vacanze della famiglia di Davide, una casa di corte, in un contesto rurale, con un piccolo appezzamento di terra, 5 minuti di macchina da Arona. Lo spazio e i locali non mancano, anche se l’impianto e i fermentatori, al piano terra, sono limitati dalla scarsa altezza degli ambienti.

L’acqua del posto è particolarmente povera di sali e minerali, perfetta per produrre una Bohemian Pils, e infatti tra le prime 4 referenze c’è la Caraibi, con dry hopping, una variante rispetto all’originale, che la rende più italiana e ancor più piacevole nel suo bouquet floreale ed erbaceo. È il nome che la porta fuori strada: vuole richiamare la bevuta dissetante, in spiaggia, sotto al sole, mentre corre il rischio di evocare una session iper luppolata. Per questo quasi ogni volta mi sorprendo – piacevolmente devo dire – al primo sorso.

Le altre etichette destinate a fare la storia del birrificio e a completare la linea dei primi giorni sono la Ruggine, rivisitazione di una American Pale Ale decisamente interessante; la Granata che loro si ostinano a definire una Belgian Dark Strong Ale: mi toccò una telefonata “cazziatone” di Marco perché l’avevo definita Dubbel, salvo scoprire qualche mese dopo che aveva vinto l’oro all’European Beer Star 2019 nella categoria delle Belgian-style Dubbel! La quarta prodotta è la Ocra, una Saison belga che oggi è di gran lunga la mia preferita: profumi di spezie e agrumi e un finale secco e piccante quel tanto che basta per finire una bottiglia in 3 sorsi e sperare di averne un’altra.

A queste man mano se ne sono aggiunte altre, sempre spaziando tranquillamente da una tradizione all’altra, sempre interpretando in modo personale ogni ricetta, con un tocco personale e unico, fino ad arrivare a 11 referenze più o meno fisse. Una sola etichetta è di ispirazione anglosassone, la Tuxedo, una Dry Stout, per il resto le scuole di riferimento sono quella mitteleuropea (oltre alla Caraibi anche la Tulle, una Weizen che lascia spazio ai cereali con esteri e fenolici molto contenuti, una Kölsch, la Grün e la Pilx, una Imperial Pils), la scuola belga (con la Plaid, una Belgian Golden Strong Ale che si affiancano a Ocra e Granata) e le birre che guardano alla scena craft nordamericana (oltre alla Ruggine la Penny, un’American IPA e la Toast, un’American Amber Ale). Nessun volo pindarico, nessuna esagerazione, le birre sono, una per l’altra, basate sulla semplicità della bevuta a scapito di alcol e sensazioni degustative, secche il giusto.

Entrare oggi nel birrificio è un po’ come trovarsi in un film, in una realtà da comune degli anni ’60: gente che chiacchiera bevendo, qualcuno che si serve una birra alla spina, qualcun altro che chiede una bottiglia, altri giocano a biliardo, altri ancora a ping pong o calciobalilla, mentre qualcuno macina i malti per la cotta del giorno dopo (è Emanuele Galati, l’aiuto birraio). La stessa atmosfera che i nostri creano in eventi e festival, al loro stand. Diciamo che è chiaro che le birre le producono per bersele oltre che per venderle. La birra con loro ha il giusto ruolo, è bevanda conviviale, da condividere con gli amici. A discapito di questo modo di essere bohémien è però anche evidente quanto tengano a produrre birre ben fatte e alla qualità del loro prodotto. I premi di cui fanno incetta negli ultimi anni ne sono la dimostrazione e la conferma della crescita del birrificio.

Davide ha studiato, giorno dopo giorno e continua a farlo, con piccole migliorie e cambiamenti – microscopici – di cotta in cotta, birra per birra, e i risultati si vedono e soprattutto si assaggiano. Non è esattamente uno che ama le critiche, le prende male, si gioca la supercazzola, si arrampica sugli specchi, nega l’evidenza, insomma viene fuori il suo DNA da multinazionale milanese. In realtà ascolta, assimila e ci ragiona su, sempre, fino a trovare una soluzione. Ovviamente poi negherà di avere cambiato qualcosa, perché non c’era nulla da sistemare. Intanto però lo ho fatto, e non è da tutti. Senza dimenticarci che i risultati conseguiti prendo ancora più valore se consideriamo che Diciottozerouno è aperto da poco più di un lustro

Marco è molto più malleabile, gioviale, compagno di (grandi) bevute e interviene raramente sui temi della produzione, fidandosi, giustamente, del suo socio. Anche perché il suo compito è il commerciale e spesso mette la faccia, sarebbe meglio dire l’anima, del birrificio ai festival. Oggi è più presente in azienda, anche se non ha ancora lasciato, non del tutto almeno, il suo vecchio lavoro. La sfida principale è stata – e in parte è ancora – quella di farsi conoscere e trovare spazio in un mercato affollato. Un aiuto è arrivato da Novara: il Covo e il Taurus Beerstrot, due locali in centro storico, alle spine servono solo le loro birre e al Covo è dedicata la Lefty, una Golden Ale perfetta per chiunque, che sia o meno appassionato di birre artigianali.

Nel momento in cui scrivo stanno per aprire il primo locale gestito direttamente da loro, che dovrebbe chiamarsi The Brews. Si tratta di un piccolo, davvero piccolo, beershop con mescita in uno dei corsi principali del centro storico di Borgomanero (sempre in provincia di Novara, a dieci minuti dal birrificio). Nei 15 metri quadri si alterneranno Marco ed Emanuele Galati per spillare le birre dalle spine e vendere le bottiglie. E chissà che non potranno togliersi qualche soddisfazione dal punto di vista dei consumi e raggiungere quanto prima i traguardi di crescita che si erano prefissi oramai due anni fà. In ogni caso guardandosi indietro Davide e Marco non possono che essere soddisfatti per il lavoro che hanno fatto in produzione, nel commerciale e nella grafica, curata e accattivante, e anche per il popolo, eterogeneo, di bevitori che affolla il birrificio durante i giorni feriali.