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Perché amiamo la birra? Tutti i motivi che fanno scattare la scintilla

Le birre possono essere destinatarie di vero e proprio amore o la pulsione nei loro confronti è solo un bruciante desiderio che si estingue una volta soddisfatto? Naturalmente stiamo parlando in termini ironici (e autoironici) ma in fin dei conti nemmeno troppo: lungi da noi mettere sullo stesso piano la passione per una bevanda alla ricchezza e alla complessità di un sentimento che lega due o più esseri umani, però se un numero non trascurabile di individui nei più svariati angoli del pianeta dedica la propria vita professionale o una buona parte del tempo libero al nettare di malto e luppolo significa che, per citare il titolo di un bel saggio di Evan Rail, Beer matters.

Anche la pulsione immediata in contrapposizione all’amor fou, comunque, ha un ruolo acclarato e ben preciso quando si parla della nostra bevanda preferita: nelle lezioni sull’abc del marketing birrario, infatti, si insegna a distinguere tra il bisogno immediato di ristoro liquido, magari manifestato da una persona che ha appena fatto sport o varca la soglia di un pub dopo una giornata particolarmente difficile, e il bisogno di secondo livello espresso da chi, già soddisfatto nelle sue necessità primarie, è in cerca di un’esperienza sensoriale o ludica. Nel primo caso si proporrà ovviamente una birra leggera, dissetante e di facile beva alla persona reduce da un match di calcetto o da una lezione di zumba e un’etichetta con sopra scritto “zona di comfort” a chi ha avuto la proverbiale giornataccia; se si rientra invece nel campo della seconda opzione allora è il momento, per l’oste o il publican che dir si voglia, di mettere in campo la propria cultura brassicola e di esibire i pezzi pregiati della cantina o del frigo.

In entrambi gli scenari, se il taverniere è abile, audace senza essere sfrontato e aiutato dal sempre necessario pizzico di fortuna potrebbe anche tramutarsi in Cupido e presentare al fortunato cliente l’amore, pardon, la birra della sua vita.
Sia quando si prova necessità di conforto che nei momenti di massima spensieratezza e disponibilità alla sperimentazione, infatti, ci troviamo, per motivi opposti, nella situazione migliore per farci rimanere ben impresso nella mente e nel corpo ciò che stiamo bevendo e le sensazioni positive che stiamo ricevendo in dono.

Se Marco Buratti detto l’Alligatore, il malinconico investigatore bluesman creato dalla formidabile penna di Massimo Carlotto, si è innamorato irreversibilmente del calvados bretone perché, con il suo calore, gli ha lenito le ferite sopraggiunte al cuore dopo aver scoperto la donna della sua vita in una trattoria di Brigognan intenta a mangiare ostriche e bere chablis con un tizio che non gli somigliava affatto, che cosa fa innamorare tanti di noi delle birre? 


Le risposte, come le tipologie birrarie e i tipi umani dei birramatori, sono numerose e varie: le birre, infatti, colpiscono al cuore sfruttando in primo luogo l’arma dell’estrema varietà che le contraddistingue. Una tavolozza o, se si preferisce, un caleidoscopio di colori, profumi, gusti, sensazioni boccali totalmente differenti saltando da uno stile all’altro: una molteplicità di occasioni di piacevoli incontri davvero per tutti i nasi e palati.

L’OCCHIO VUOLE SEMPRE LA SUA PARTE
Abbiamo estesamente trattato l’estetica birraria in altri articoli, ma, se parliamo di infatuazione e innamoramento, il fattore visivo non può certo essere saltato a piè pari. Il ruolo giocato dall’estetica nel successo mondiale delle Pils è ben noto, ma qui è di nostro precipuo interesse l’elemento individuale e soggettivo e ho il fondato sospetto che la diffusa infatuazione per le birre “rosse” manifestata sovente da persone che non sanno poi dare una risposta a domande basilari quali “ma la preferisci dolce o amara? E il grado alcolico? Alto, medio o basso?” abbia le sue radici proprio nella suggestione visiva solleticata da un boccale o una pinta ricolma di birra ambrata, ramata o mogano, magari gustata su un tavolino all’aperto all’ora del tramonto. La schiuma è un elemento che distingue la birra da qualsiasi altra bevanda e con il suo richiamo a una dimensione di festosità, divertimento e abbondanza gioca sicuramente un ruolo attrattivo importante così come contano anche le dimensioni e la forma del bicchiere: nessun’altra bevanda alcolica può essere servita e bevuta in boccali da mezzo o un litro, e prima o poi le neuroscienze chiariranno in termini scientifici come l’effetto cornucopia comunicato da un Maß appena spillato attivi in modalità allegria i neurotrasmettitori.

INNAMORARSI AL PRIMO SORSO

Se parliamo di gusto, l’amaro è ciò che distingue la birra da qualunque altra bevanda e ha rappresentato nei decenni di monopolio delle lager industriali la croce di chi rifiutava la bevanda a causa della sua presenza e la delizia di chi, all’opposto, lo gradiva. Ricordo nei primi anni Novanta uno dei periodici spot promozionali di Assobirra in cui la testimonial, una giovanissima Elena Sofia Ricci, lodava proprio “quel gusto amarino che mi piace tanto”: l’arrivo delle APA e American IPA ha non solo dato ulteriori soddisfazioni agli amanti dell’amaro ma anche permesso di scoprire una nuova declinazione di questo gusto. 

Non sono infatti rare le persone, specie di sesso femminile, che si sono innamorate dell’amaricatura di stampo agrumato data dai luppoli americani ed oceanici dopo aver per anni rifiutato le birre commerciali perché “amare”: è oltremodo divertente assistere alla loro espressione sbigottita quando si fa notare la ben più incisiva presenza amaricante nell’oggetto della loro nuova passione liquida, passione che viene sovente rinforzata dalla nuova consapevolezza che, alla fine dei conti, non era l’amaro l’ostacolo alla loro fruizione birraria ma una ben specifica declinazione di questo gusto.

Il gusto dolce è, al contrario, il più confortevole e rassicurante per l’essere umano (escluse rare eccezioni come chi vi scrive) sia sul piano ontogenetico, ovvero per ciascun individuo dalla culla alla tomba, che su quello filogenetico: “il dilemma dell’onnivoro” che veniva quotidianamente affrontato dai nostri progenitori e che si traduceva in una dialettica tra neofilia (desiderio di assaggiare qualcosa di nuovo) e neofobia (timore di morire avvelenato) veniva spesso risolto scegliendo il cibo più dolce perché apportatore di una maggiore quantità di calorie ed energia ma anche perché, nella maggior parte dei casi, non rappresentava alcun pericolo a differenza degli alimenti amari e acidi.

Nessuna sorpresa, dunque, alla constatazione che molti birrofili amino il lato dolce della bevanda, non solo nelle tipologie che prevedono un bilanciamento gustativo più orientato alla dolcezza come Weizen, Bock e Doppelbock, Dunkel, Wit, Dubbel, Quadrupel e Barley Wine ma anche nelle APA e American IPA: numerosi fan delle luppolate di stampo americano, infatti, se sottoposti a un ficcante dialogo socratico rivelano di amare soprattutto la componente più dolce e fruttata di queste birre.

L’acidità è, all’opposto, una caratteristica eminentemente divisiva: specie nella sua declinazione acetica, infatti, o la sia ama alla follia o la si odia e rifugge. Al di là dell’hype di cui attualmente gode qualunque birra suoni anche vagamente sour e della conseguente comica necessità, per alcuni geek, di simulare il gradimento per il gusto acido al fine di non essere rinnegati dalla comunità degli iniziati, le fermentazioni spontanee e miste nonché le birre inoculate con lacto o pedio hanno conquistato alla causa craft parecchi nuovi adepti che non trovavano soddisfazione nelle tradizionali cervoge: ancora una volta un considerevole numero di donne e pure parecchi appassionati di vini, che scoprono, soprattutto nel lambic e derivati e nelle acide di scuola fiamminga, assonanze e familiarità con il mondo enoico.

Anche una sensazione boccale come la frizzantezza può fare la differenza tra amore e indifferenza: non mancano infatti i nemici dell’anidride carbonica che dopo aver snobbato per anni la nostra bevanda preferita in quanto “gassata” si sono poi innamorati delle birre nelle isole britanniche scoprendo le real ale alla pompa. In questo caso, però, andrebbe fatta la tara su quanto pesi proprio la fascinazione della tipologia di servizio: una handpump è infatti un oggetto magnetico, che attira l’attenzione di qualunque cliente la veda per la prima volta in azione stimolando spesso numerose domande circa il suo funzionamento.

Birre da centellinare, potenti, ricche di sfaccettature e in grado di esibire spettacolari evoluzioni nel bicchiere con il passare dei minuti o birre semplici e dirette, da bere anche in quantità rilevanti senza sensi di colpa né gravi conseguenze alcolemiche?

Il mondo birrario è pieno di supporter di entrambe le fazioni che, al culmine della passione, con un bicchiere della loro prediletta in mano, non di rado sentenziano per me la birra è questa! a mo’ di complimento definitivo e pietra tombale su qualunque discussione: purché non si dimentichi mai il valore e l’importanza della locuzione per me.