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Parla come bevi! I neologismi birrari

Parole trendy per il bevitore che vuole essere sempre sul pezzo

Un po’ come per i biker, gli appassionati di meteorologia o trasmissioni radio, i collezionisti di memorabilia di Elvis, i fanatici di volo con la tuta alare e più in generale coloro che investono tempo e stipendi in interessi per lo più indifferenti alla maggioranza della popolazione; l’insieme degli amanti della birra artigianale può a tutti gli effetti essere considerato una subcultura.

Assimilati trasversalmente da una preferenza estetica per la birra artigianale, il suo corredo sensoriale, semantico e storico, gli appartenenti a questa sorta di tribù condividono talvolta, oltre che la semplice devozione per la bevanda, ulteriori elementi distintivi. Si pensi per esempio al caratteristico codice di abbigliamento che passa da maglie e felpe di festival e birrifici più o meno oscuri, dall’uso pressoché generalizzato, a bizzarri cappelli da marine o da pescatore, fino a giungere ad amenità quali bermuda cargo e sandali/infradito neofrancescani, in voga esclusivamente presso alcune frange estremiste della setta.

Prima e più eminentemente del vestiario, però, un altro elemento unisce e dà forma a questo eterogeneo gruppo di persone: un linguaggio, tipico del clan, fatto di parole esclusive, di parole consuete usate in accezioni peculiari, di neologismi, di memi linguistici che assurgono – accumulando significati accessori relativi al contesto d’uso, e pertanto incomprensibili a chi non sia a conoscenza di dinamiche e avvenimenti interni al settore – ad unità semiotiche indipendenti.

Si noti la netta predominanza, in particolare, di anglicismi. E in effetti non serve una riprova della centralità culturale del movimento statunitense all’interno della scena craft mondiale, e della sua funzione di catalizzatore non solo di mode e costumi contemporanei ma anche di tradizioni e produzioni birrarie antiche, che da un certo anelare all’autenticità e da una forma di sottoconsumo ostentativo – tutti i beer savants vogliono essere più savant degli altri – traggono nuovo impulso e nuovo Hype.

Hype

Sacro Graal di tutti i birrai che sognano, un giorno, di poter annunciare il lancio di una nuova birra e di mandarla sold out in pochi secondi; l’hype è una forma di frenesia che si scatena intorno a birrifici che vengono generalmente reputati di grande qualità, particolarmente fichi, e capaci di riflettere queste qualità su chi ne consumi i prodotti. Se di queste tre caratteristiche le prime due possono effettivamente essere vere o meno, la terza non è invece che una pia illusione di certi bevitori.

Quando un birrificio hype fa un annuncio, indipendentemente da cosa stia annunciando, tutti vanno in visibilio: “il Maestro ha fatto la cacca”, scrivono sui social, e tutti subito “GENIO!” e “ISO” (si veda il lemma: Trade). Un birrificio dotato di hype può immettere sul mercato qualsiasi birra fallata, produrre una sola hazy IPA e venderla con 10 etichette diverse come se si trattasse di release sempre nuove, aggiungere cipolla fritta, guava e churros a una Imperial Stout, stuzzicare il mercato secondario con bottiglie rare che viaggiano a suon di bigliettoni. Macchiarsi insomma di qualsiasi nefandezza birraria e farla sempre, impunemente franca – mentre schiere di fanboy diventano pian piano adepti, e chiunque osi muovere una critica, anche costruttiva, inevitabilmente nient’altro che un hater. L’hype è lo strumento che ti permette di fare quello che vuoi eliminando il rischio di essere messo all’indice se commetti un passo falso, ecco perché è così ricercato e così difficile da conseguire. Ed ecco perché, al di là di rari casi, è spesso anche effimero e volatile. Un birrificio hype che perde l’hype è come Icaro dopo la caduta, sembra che d’improvviso si atomizzi, che non esista più. Ci sono birrifici o birre hype che sopravvivono a questo genere di dinamica? Sì, quelli legati alle grandi tradizioni brassicole anziché alle mode del momento, come la Lager.

Lager

Letteralmente il termine significa magazzino, e designa collettivamente le birre a bassa fermentazione maturate a freddo.
La categoria riunisce inevitabilmente sotto lo stesso ombrello una serie di anime contrastanti e inconciliabili: “ama le lager” il bevitore di macro industriali, le ama chi contempla solo birre misconosciute dei villaggi di Franconia, le amano il normie che va a passare l’addio al celibato a Monaco di Baviera e il crispyboi del New England (vedi lemma), perso nel sogno della Italian Pilsner perfetta.

bamberga botticella lager

Se infatti la categoria è già ampissima per il numero di sottostili che include, bisogna considerare i diversi modi in cui essa viene percepita in base alla provenienza geografica dei bevitori: mentre è vero che i dettami del craft mondiale vengono propulsi dal mercato USA, nei Paesi del Vecchio Continente che gravitano più vicini all’orbita della tradizione tedesca e ceca e degli adattamenti craft di queste, l’immaginario dei bevitori spazia già spontaneamente dall’Oktoberfest alla piazza di Schammelsdorf, da U Fleku alla Tipopils senza bisogno della mediazione americana (che però attinge a questo bacino rendendolo universalmente più attraente e degno di essere untappato). Questo è naturalmente valido non solo per le basse fermentazioni, ma anche per le produzioni classiche britanniche e per quell’insieme chimerico di birre e birrifici conosciuto come Grande Belgio.

Grande Belgio

La locuzione idiomatica indica una sorta di terra promessa in cui saison, red flemish, lambic, tripel e quad, sono sempre al massimo della forma, solenni, rustiche, genuine, consumate all’ombra di monasteri o in locali polverosi che accumulano cantine vecchie decenni. Per esteso, il termine indica anche una scuola birraria belga tradizionale e mitica, un insieme di suggestioni nostalgiche che non è mai esistito se non nella memoria dorata, o forse nell’immaginazione, di chi si apprestava a esplorare da pioniere un mondo della birra artigianale ancora in larghissima parte oscuro, privo di dati certi e ricco di sorprese. Chi è convinto di averlo visto, un po’ come fosse il mostro di Loch Ness, chi racconta nelle serate fumose in taverna di esserci stato, ne è certo: il Grande Belgio tornerà. In aperta contraddizione a questa Shangri-La ma di Anversa, ancora una volta, arriva a smantellare il sogno il pragmatismo americano: parliamo degli AmLam.

birra belgio

AmLam

Am-Lam sta per American Lambic, che è come dire French Parmigiano Reggiano, Chinese Champagne o Kenyan Barolo: una stronzata. Quando alcuni birrifici USA hanno cominciato a produrre birre a fermentazione spontanea etichettandole come “lambic”, alcuni altri birrifici che producevano lambic – ma sulla sponda giusta dell’Atlantico, e in una regione fortemente circoscritta chiamata Pajottenland – l’hanno giustamente presa poco bene. Ne è seguito un mitologico incontro tra produttori belgi e americani: nessuno o quasi sa cosa sia successo in quei giorni o quali stracci siano volati, fatto sta che nella terra dei caubòi hanno smesso di scrivere lambic e gueuze optando per i ben più morigerati “spontaneously fermented” o “wild ale”. E se queste due famiglie di beni, simili ma molto diverse, fluiscono ininterrottamente tra appassionati di craft beer americani e europei, insieme a hazy IPA freschissime, IS rare e chicche di ogni genere, il merito è del Trade.

Trade

La traduzione letterale del termine inglese, cioè “vendita” o “scambio”, non fa che scalfire il significato di questa parola. Se in termini fattuali il trade è in effetti la vendita o lo scambio di birre su scala intra- o intercontinentale, dal punto di vista sociologico (e quindi lessicale) il lemma connota una vera e propria subcultura interna alla nicchia dei bevitori craft: il trade è appannaggio dei geek più dediti al collezionismo, votati a cancellare compulsivamente più voci possibile dalla propria lista di bottiglie da conquistare.

scambio birra bottiglie

Poco importa poi se una lattina da 40cl verrà condivisa in 8: nella propria distorta percezione da appiccicatore di figurine, il trader quella birra rara proveniente dalla Nuova Guinea l’ha bevuta, la vota cinque pallini su Untappd, si abbandona a commenti estatici nel valutarla. In quanto autentica nicchia nella nicchia, il mondo del trade ha a sua volta un vocabolario specifico fatto di ISO e FT (“In Search Of” e “For Trade”), di mules e proxies, soprattutto di whales (così si chiamano le release più rare, le mitologiche Moby Dick di cui i novelli Achab del beerverse vanno instancabilmente a caccia). Ma questa è un’altra storia. Curioso infine che il termine trade, tornando alla dimensione della singola parola, possa essere tradotto anche come professione o mestiere: in effetti, anche in ambito birrario, controllare tutti i post di compravendita, seguire le trattative, il ritiro dei pacchi, i bottle share e le spedizioni può diventare a tutti gli effetti un “lavoro” a tempo pieno, come per gli Hypebros.

Hypebro/Hazebro/Crispyboi

Protagonisti del trade sono in genere gli Hypebros: maschi alfa del mondo birrario, spesso beta, gamma o delta in real life, cercano spasmodicamente la luce riflessa dei birrifici più cool, delle birre più rare ed estreme, cavalcano le autostrade dell’hype non rendendosi conto che, più che a Peter Fonda, dall’esterno somigliano a vacche da mungere o limoni da strizzare. Li vedi aggirarsi per festival e fiere armati di cesto frigo ripieno di chicche – con lo sguardo che commisera la plebe birraria accalcata alle spine. Se non tradano barrel aged Imperial Stouts, barley wine d’annata o cuvée acide a tiratura limitata, ma solo succhi di mango in lattina spacciati per IPA, allora fanno parte di una sottocategoria specifica; quella degli hazebros – casinisti, superficiali e goliardici al limite del cameratismo, l’equivalente birrario di una confraternita universitaria.

Ugualmente vittime dell’hype, ma in un certo senso in maniera opposta agli hazebros, sono i crispyboi: i bevitori ossessionati con le lager, ma solo da quando sono diventate trendy. I crispyboi ostentano una preferenza per birre semplici e dalla beva immediata, vestono capi in canapa o cotone naturale con un twist street o abbigliamento tecnico da trekking/pesca, e non possono smettere di raccontarti di quella volta che sono stati a Plzen. Amano fumare l’erba e spesso sono gli stessi birrai che poi producono le IPA consumate dagli hazebros, birre che a loro dire detestano, ma che, ammettono, mandano avanti la baracca. Sarebbero innumerevoli a questo punto i termini da affrontare: dai descrittori sensoriali – come ad esempio il dank, il puzzo di marijuana che connota le classiche West Coast IPA – alle espressioni-meme nate ed esplose sui social tipo Lambic is Life/Barleywine is Life; che si trascinano dietro innumerevoli strati di ironia ed interi mondi fatti di inside jokes.

Si dovrebbe analizzare il gergo di comunità di geek locali da cui sono fiorite espressioni diffusesi poi in tutta la comunità birraria italiana, come nel caso del Toppeira (talvolta Brasileira). O si potrebbe studiare la storia di alcune denominazioni di formato, come ad esempio quella della famigerata Pinta Romana, passata dall’essere originariamente una locuzione denigratoria che alludeva al tentativo di alcuni birrivendoli della Capitale di far pagare un bicchiere da 0,3 quanto uno 0,4; a divenire oggetto di appropriazione lessicale da parte di una multinazionale, che ha registrato il marchio come formato proprietario. Si potrebbe inferire infine che ogni termine, qualsiasi parola, se impiegata all’interno di una specifica comunità abbia un valore diverso da quello che avrebbe se usata in un altro contesto. Ma questo è un magazine, non un saggio di semiotica, e lo spazio della trattazione è tiranno. A noi birrofili, geek, trader, bevitori occasionali, normie, memer non resta che brindare – e parlare, parlare, parlare.