Marocco chiama Belgio: Tajine e Blond Ale

Si viaggia per sete di conoscere. Si conosce con gli occhi e attraverso le parole, udite e scambiate. Si conosce tramite la pelle che fende di terra in terra arie diverse, polveri di diverso colore, è sbiancata da ghiacci e nebbie, brunita da Soli di altre nature. Si conoscono i popoli dalle parlate, dalle musiche, dagli abiti indossati – alcuni, che sono traviati, conoscono e assorbono culture soprattutto attraverso le cose mangiate e bevute. Per loro, c’è più cultura indiana nel modo di schiacciare un chapati contro le pareti di un forno tandoori in terracotta che nell’alabastro intarsiato del Taj Mahal; più Giappone nella metodica e silenziosa pratica di taglio del salmone controfibra che in un Tori benedetto; più Marocco nel modo di raccogliere coi polpastrelli il couscous contro le pareti del tajine in terracotta, e nel modo di lasciarlo rotolare balzelloni nell’incavo del palmo socchiuso finché in maniera inattesa, anziché cadere in briciole, non si compatta in una sfera, e nel modo in cui infine le vecchie portano col pollice, con discrezione, sospetto e religiosità, il boccone verso le labbra schermandolo col dorso della mano, che di quanto Marocco ci sia nei tetti verdi di Rabat.

Io sono uno di loro: mi ascrivo ai componenti di quest’ultimo partito, per me non c’è viaggio più autentico di quello che si compenetri di comunità del cibo, di agricoltori e produttori, di cucine casalinghe delle quali si possa essere non spettatori ma coprotagonisti. La citazione del Marocco e della sua gente, ossia dei suoi piatti, non è casuale: il Maghreb è terra delle più affascinanti, in ambito naturalistico quanto antropologico e quindi gastronomico, culinario. Vi si respira un’autenticità integrale che si declina, partendo da tempi lontani, in una complessità familiare che ricorda i modi e i colori della Sicilia; rispetto ai quali si percepiscono tanto la provenienza da una radice comune che la biforcazione millenaria dei rami. Secondo una peculiare chiralità, il Mediterraneo è un falso specchio e le terre che vi si affacciano si guardano l’un l’altra, identiche e diverse, separate dalla Storia e dalle religioni in due mondi simmetrici al di là, e al di qua, della superficie semiriflettente. La cucina marocchina mischia gli ingredienti mediterranei più familiari con il latte di capra ed i datteri del deserto, li arricchisce di spezie e ricette della Casa Reale rubate dai popolani; costituisce memoria della tradizione moresca medievale – di prima che sbarcasse a Palermo e Siviglia, e con la Reconquista si contaminasse di elementi haram. La cucina del Marocco è espressione della sua gente, perché anche in Marocco, come in Italia e altrove lungo le sponde di questo nostro mare-lago, si vive il cibo con quel senso permeante di comunità che sembra esistere solo nel bacino del Mediterraneo: ove l’atto della condivisione e del piacere conviviale sono essenziali, ed i pasti i centri di gravità attorno ai quali orbita il giorno. La gente e la cucina del Marocco sono una cosa sola, perché l’elemento culturale e antropico della cucina è tuttora compenetrato negli usi, nei ritmi, nella gestualità delle persone in maniera apparentemente indissolubile: dal rituale del macellaio che sgozza il pollo rivolto alla Mecca alla ricetta segreta dello speziale che compone il suo Ras-el-Hanout, fino al venditore di limoni in conserva che ogni giorno sala agrumi nei grandi barattoli in vetro con perizia d’artigiano.

E non è raro che nelle campagne vi si inviti a colazione in cambio di una mano per la raccolta delle olive, e perché chiunque incontriate per la strada potrà offrirvi un tè alla menta, un khubz appena sfornato, o chiedervi se volete vedere le sue vacche e le sue api. La cucina marocchina non manca di emblemi, e tutti hanno in comune una sostanza vagamente alchemica: dalla delicatezza di contrasti della Pastilla (scrigno di carne di piccione e mandorle tritate, cosparso di zucchero a velo e cannella, racchiuso nella finissima pasta ouarka – che già di per sé sarebbe un miracolo culinario), al cous cous che è mutazione in pietanza straordinaria della semplice semola di grano duro, fino ad arrivare a quello che è probabilmente uno dei più brillanti, originali ed efficaci sistemi/strumenti di cottura esistenti al mondo: il tajine, o tagine, termine che designa tanto la pentola di terracotta con coperchio a camino onnipresente nelle cucine da Essaouira in su, quanto la varietà di piatti che vi vengono preparati. Per questo motivo viaggeremo verso il Marocco raccontando forse il più popolare e conosciuto dei tajine: il djaj m’qalli, composto di pollo, limoni sotto sale e olive bianche. Prima però concentriamoci sullo strumento in sé, sul suo funzionamento e sulla sua manutenzione, elementi essenziali per la buona riuscita della ricetta.

Il tajine. Come sceglierlo
Il tajine è una pentola in terracotta composta di un ampio piatto dai bordi rialzati e da un coperchio conico con pomello, dotato di un piccolo sfiatatoio. Ne esistono varianti in ghisa, ceramica lavorata o acciaio; resta comunque da dire che le versioni originali in terracotta offrono le prestazioni migliori in termini di risultato di cucina. Potrete acquistare un tajine presso un qualsiasi negozio di articoli etnici o di casalinghi, o su internet, tenendo presenti alcune accortezze: se si desidera cucinare col tajine, bisogna evitare i modelli colorati e smaltati, che in cottura potrebbero cedere sostanze nocive agli alimenti. Questi modelli, inoltre, sono spesso destinati esclusivamente al servizio e fabbricati con una terracotta sottile che potrebbe non resistere al passaggio sulla fiamma; crepandosi o spaccandosi. Esistono in commercio tajine professionali prodotte da aziende specializzate in articoli da cucina, come ad esempio Le Creuset, dai costi generalmente esorbitanti: se desiderate cimentarvi con queste preparazioni per le prime volte astenetevi dall’investire in questi articoli, che pur offrendo prestazioni sicuramente eccezionali non giustificano l’esborso.

Il tajine. Come funziona
Il tajine, essendo costituito di terracotta, agevola una diffusione uniforme del calore su tutta la superficie del piatto di cottura e la sua trasmissione lenta ai cibi. A questa forma di cottura conduttiva delicata, si associa la vera forza di questo sistema di preparazione: il camino conico raccoglie l’umidità rilasciata dagli alimenti trasformandosi in una vera e propria “camera di convezione” a vapore, che preserverà l’integrità degli aromi, concentrandoli, e renderà carni e verdure tenerissime.

Il tajine. Come usarlo
Come tutti gli strumenti di cucina più interessanti, il tajine ha una sua ritualità necessaria per massimizzare i risultati e mantenerlo in buono stato di efficienza. Per assicurare il giusto grado di umidità alla terracotta ed evitare danni, per il primo utilizzo (o qualora vi occorresse di utilizzare il tajine dopo molto tempo dall’ultima volta) bisognerà immergere piatto e coperchio in acqua fredda per almeno due ore o, preferibilmente, per tutta una notte. Dopo l’ammollo, asciugheremo delicatamente la superficie e cospargeremo l’interno e l’esterno con olio d’oliva. Successivamente si dovrà inserire la pentola in forno, a 150º C, ad asciugare per almeno due ore; e una volta asciutta attendere che torni a temperatura ambiente gradualmente, lasciandola riposare dentro il forno spento con lo sportello aperto. A questo punto potrà essere utilizzata per cucinare, o nuovamente cosparsa d’olio qualora la doveste riporre. Cosa importante a cui badare è che la terracotta malsopporta la fiamma diretta: quando cucinerete con il tajine sui fornelli, sarà necessario impiegare uno spargifiamma. Dopo l’uso potrete lavare il tajine con acqua e saponi neutri, tenendo ben presente che la porosità della terracotta tende a trattenere gli aromi: andate sul sicuro ed evitate la permanenza di off flavors usando per la pulitura miscele acido/basiche (es. bicarbonato e aceto o succo di limone).

La ricetta. Djaj M’qalli

Innanzitutto, una precisazione: se Djaj significa “pollo”, il termine “m’qalli” (anche traslitterato come mqualli, m’qualli) si può tradurre grossolanamente come “fritto” e viene usato in maniera specifica per designare uno dei quattro stili di cucina classici marocchini; insieme al mhamer (arrosto), mchermel (marinato), qadra (in umido). È importante notare, però, che più che una vera e propria frittura lo stile m’qalli contempli una lunga stufatura della proteina principale, che durante la cottura nel tajine si ammorbidisce e diventa tenera grazie alla cottura al vapore. Alla fine della stufatura, si effettuerà un passaggio di cottura in tajine scoperto durante il quale i liquidi rimanenti evaporeranno lasciando sul fondo solo i grassi: la “frittura” cui si riferisce il termine mqalli è quindi la sorta di rosolatura finale della carne data da questo procedimento. Caratteristica-chiave che decreta la buona riuscita di un piatto mqalli è la presenza di daghmira, ossia della salsa-purea di cipolle e spezie, che a piatto finito dovrà risultare visivamente separata dagli oli.

Ingredienti per quattro persone

  • Un pollo intero tagliato in pezzi (oppure 4 cosce complete di sovracosce)
  • Cipolle, due
  • Aglio, due spicchi
  • Zenzero macinato, un cucchiaino
  • Curcuma macinata, un cucchiaino
  • Cannella, una stecca
  • Zafferano in pistilli
  • Un limone in conserva
  • Olive verdi snocciolate, 140 grammi
  • Prezzemolo e coriandolo tritati q.b.
  • Brodo di pollo, 400 ml.
  • Sale e pepe q.b.
  • Olio extravergine d’oliva q.b.

Nota: i limoni in conserva, o citrons confits, si possono trovare nei negozi di prodotti etnici. In alternativa è possibile prepararli in casa (trovate la ricetta sul web), o usare la scorza di limoni freschi biologici. Far rosolare e imbiondire nel tajine in olio, a fiamma bassa, le cipolle tagliate alla giuliana e gli spicchi d’aglio schiacciati. Aggiungere sale e pepe, lo zenzero, la cannella, la curcuma e mescolare bene. Unire il pollo a pezzi e coprire con il brodo riservandone una tazzina, ove farete sciogliere i pistilli di zafferano. Lasciare cuocere senza scoperchiare per 35 minuti. Tagliare il limone a pezzi eliminando semi, poi aggiungerlo al pollo in cottura insieme alle olive, allo zafferano diluito, al prezzemolo e al coriandolo tritati e far cuocere ancora per 15 minuti. Scoperchiare e far addensare a fiamma media il fondo di cottura finché risulta asciutto, con la daghmira separata dall’olio, quindi far rosolare la carne su tutti i lati per qualche minuto. Servire caldo, chiudere gli occhi, e viaggiare.

Nel bicchiere: Belgian Blond Ale
Se c’è una cosa che in Marocco vi risulterebbe difficile fare, sarebbe abbinare a uno dei piatti di questa straordinaria cucina un’altrettanto straordinaria birra artigianale! Ma qui siamo gastronomi, e siamo in Italia: amiamo piegare i sensi e le conoscenze al servizio della sperimentazione e delle gioie dell’abbinamento! Per il djaj m’qalli servirà una birra in grado di sgrassare la ricchezza lipidica del piatto e della dolcezza del fondo di cipolle, di completare l’acidità del limone, di assecondare la varietà aromatica delle spezie senza obnubilarla: opteremo quindi per una belgian blond ale, rotonda ma non eccessivamente caratterizzante, rinfrescante e secca al punto giusto, badando di selezionarne una che non presenti eccessi di luppolatura in termini aromatici. Benvenuto invece l’amaro, che unitamente alla vivace carbonazione tipica dello stile contribuirà a ripulire il palato dall’untuosità del fondo di cottura del pollo aiutando un migliore godimento dell’esperienza. Apprezzabili anche sottili note fenoliche, che potranno contribuire alle suggestioni del bouquet di spezie arricchendole ulteriormente. Tra le italiane, raccomandate Runa di Montegioco, Blond di Extraomnes, Gassa d’Amante di Birrificio del Forte, San Dalmazzo di Menaresta; in Belgio Rulles Estivale, XX Bitter di De Ranke, Taras Boulba e Zinnebir De La Senne, Westvleteren Blonde.