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La voglio acida! Come rendere volutamente sour la propria birra

L’acidità è per lo più temuta dagli homebrewer. Quando capita di stappare una bottiglia e percepire quel pizzicore sulla lingua e all’inizio della gola, si drizzano i capelli: la birra è contaminata, tocca buttare tutto! Solo chi fa birra in casa può comprendere appieno cosa significhi svuotare nel lavandino un’intera cotta, dopo aver passato mesi a starci dietro. Devo dire che, sebbene mi sia capitato di produrre birre contaminate in passato – una anche ultimamente, quando ho sperimentato la fermentazione aperta – nelle mie birre non si è mai sviluppata acidità tale da essere percepibile al palato. Questo perché i batteri che possono proliferare nella birra finita impiegano tempi lunghi per acidificare in modo significativo. Esistono scorciatoie per produrre acidità in tempi brevi, ma bisogna pensarci già in fase di stesura della ricetta. Proprio di questo parleremo, per capire quale sia l’approccio migliore per produrre birre acide in poco tempo. Con qualche caveat, che vedremo alla fine.

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Aggiunta di acido alimentare
Esiste un metodo banale per acidificare la birra: aggiungere acido fino a raggiungere il pH desiderato. Può sembrare una scorciatoia poco sensata, ma è una pratica più diffusa di quanto si possa pensare. L’aspetto negativo più evidente è il rischio di produrre una birra dall’acidità monodimensionale. Qualsiasi batterio o lievito, durante la fermentazione degli zuccheri, oltre a produrre diverse tipologie di acidi – sebbene generalmente l’acido lattico sia quello prodotto in quantità maggiore – rilascia nel mosto molte sostanze che contribuiscono a conferire complessità organolettica al profilo della birra. Aggiungere un singolo acido, come ad esempio l’acido lattico dosato a valle della fermentazione fino a raggiungere il pH desiderato, tende a rendere la birra poco interessante e piuttosto monotona. Una soluzione a questo problema può essere quella di dosare diverse tipologie di acidi per dare una maggiore profondità al prodotto finito.
Questo tipo di acidificazione funziona piuttosto bene con birre che prevedono qualche tipo di ingrediente supplementare: ad esempio nelle Gose, la cui ricetta prevede l’aggiunta di coriandolo e sale. Anche le birre alla frutta, già acidificate parzialmente dagli acidi presenti nella frutta, possono beneficiare di un’ulteriore aggiunta di acido per rendere il profilo organolettico più incisivo. Raramente si utilizza acido fosforico per questo tipo di acidificazione, specialmente nelle birre alla frutta. È più indicata in questo caso una miscela di acidi già parzialmente presenti nella frutta, come il citrico, il malico o l’acido tartarico. Si tratta di acidi piuttosto deboli, non pericolosi da maneggiare, facilmente reperibili nel formato alimentare. Anche l’acido lattico è indicato per aggiunte post fermentazione, dato che si tratta dell’acido maggiormente presente nelle birre acide fermentate con batteri come Pediococchi o Lattobacilli.
Il dosaggio può essere facilmente sperimentato su un campione di birra, misurando il pH man mano che si aggiunge l’acido o il mix di acidi e assaggiando la birra per valutarne il contributo a livello organolettico. Si possono anche provare diverse miscele di acidi in diversi campioni di birra per valutarne le caratteristiche gusto-olfattive – magari alla cieca. I vantaggi di questo approccio sono chiaramente la semplicità e l’immediatezza. Da non sottovalutare anche il fatto che non si rischia di contaminare l’attrezzatura dato che non si utilizzano microrganismi contaminanti di alcun tipo. Difficilmente si riuscirà a ottenere quella complessità che solitamente viene prodotta da una vera fermentazione lattica, ma i risultati possono stupire, specialmente se applicati, come già detto, a birre che prevedono aggiunta di frutta, pensate per essere rinfrescanti e piacevoli da bere piuttosto che estremamente complesse.

Kettle souring
Questo metodo, chiamato a volte anche sour wort o sour mashing, consiste essenzialmente nell’acidificare il mosto prima dell’inoculo del lievito che porterà a termine la fermentazione. Alcune fonti fanno distinzione tra i diversi appellativi che vengono attribuiti a questo metodo, ma sono dettagli che interessano fino a un certo punto. L’importante è capire quello di cui si sta parlando.
In modo del tutto generico, anche la semplice aggiunta di acido prima dell’inoculo del lievito potrebbe essere definita kettle souring. Tuttavia, se l’aggiunta viene fatta direttamente da una confezione di acido – o vari tipi di acidi – non ha molto senso gestirla prima della fermentazione. La maggior parte dei lieviti non lavorano nelle migliori condizioni quando devono fermentare in ambiente acido, meglio a questo punto procedere all’acidificazione a valle della fermentazione, come già descritto. In questo caso, non si parla ovviamente né di sour mashing, né di kettle souring.
Il kettle souring, ormai ampiamente diffuso sia tra i birrifici artigianali che tra gli homebrewer, è un metodo di acidificazione che riprende un approccio vecchio di secoli, tipico ad esempio di stili come le Berliner Weisse. Si dice (ma siamo sul livello aneddotico) che lo stile prenda origine proprio dall’acidificazione del mosto che avveniva durante l’ammostamento. Questo, infatti, poteva prolungarsi per diverse ore favorendo l’azione dei batteri lattici presenti naturalmente sulle glumelle dei malti, che nel giro di diverse ore acidificavano il mosto. Se il mosto poi non veniva bollito, pratica molto comune prima dell’arrivo dei pentoloni in rame o in acciaio, l’acidificazione proseguiva anche nel corso della fermentazione, che veniva aiutata dal mix di lieviti e batteri presenti nel contenitore in cui veniva trasferito il mosto già in parte acidificato durante l’ammostamento. C’è da dire che questo approccio non era probabilmente caratteristico delle sole Berliner Weisse (ammesso che lo sia stato), dato che prevede passaggi produttivi piuttosto diffusi un tempo. Tuttavia, questo stile, riportato in auge dal movimento craft qualche decade addietro, ha focalizzato l’attenzione su un metodo di produzione che è stato poi applicato ai tempi moderni. Il kettle souring, appunto.
Questo metodo consiste nell’acidificazione del mosto prima dell’inoculo del lievito. Avviene generalmente grazie all’inoculo di batteri lattici: di solito vengono utilizzati ceppi di Lattobacilli, come il L. Casei, i L. Brevis o il più diffuso L. Plantarum, poiché riescono a produrre significative quantità di acido lattico in breve tempo, consumando solo una ridotta quantità degli zuccheri del mosto. A volte, un mix di diversi batteri lattici viene utilizzato per rendere il profilo lattico maggiormente complesso. Tipicamente, il mosto viene bollito per una decina di minuti dopo la filtrazione e prima dell’aggiunta dei batteri lattici, per essere sicuri di aver eliminato i microrganismi presenti naturalmente sulle glumelle dei malti. Alcuni di questi, chiamati microrganismi termofili, possono infatti sopravvivere alle temperature tipiche dello sparge e interferire con il processo di acidificazione. Dopo la veloce bollitura, si raffredda il mosto intorno ai 40°C e si aggiungono i batteri lattici. Mantenendo stabile la temperatura a 40°C, nel giro di 24-48 ore i batteri lattici porteranno il pH intorno a 3.2-3.3, rendendo il mosto acido. A questo punto si fa bollire nuovamente il mosto per una quindicina di minuti, in modo da uccidere i microrganismi responsabili dell’acidificazione. Durante questa veloce bollitura si può aggiungere anche un ridotto quantitativo di luppolo, ma in genere le quantità sono estremamente basse perché amaro e acidità non vanno molto d’accordo. Si raffredda quindi il mosto, si inocula un lievito neutro e si porta a termine la fermentazione.
I vantaggi di questa tecnica sono evidenti: velocità e praticità nell’esecuzione – il tutto si svolge nel giro di una notte nello stesso pentolone di bollitura – e, soprattutto, rischio molto basso di contaminazione, dato che il mosto che passerà per lo scambiatore di calore e successivamente nel fermentatore non contiene microrganismi contaminanti, uccisi con la veloce bollitura. C’è un minimo rischio di contaminazione incrociata dalla pentola in cui si conduce l’acidificazione (in genere la medesima pentola di bollitura) e all’ambiente circostante, ma l’utilizzo di batteri lattici come il L. Plantarum, non resistenti al luppolo, riduce praticamente a zero le possibilità che questi possano acidificare una qualsiasi altra birra prodotta in casa o in birrificio. Sono infatti sufficienti una decina di IBU per arrestare l’azione della maggior parte dei Lattobacilli e in particolare del L. Plantarum.
Il kettle souring, se non ben gestito, può generare difetti nella birra. A volte si sviluppano composti dello zolfo come il DMS (aroma di mais bollito o verdure cotte), che può essere dovuto sia alla bollitura ridotta che ai batteri stessi, che oltre al DMS possono produrre vari composti dello zolfo. Oppure acetaldeide o addirittura acido acetico, se si utilizzano ceppi eterofermentativi e si lasciano lavorare a eccessivo contatto con l’aria. L’azione dei batteri può intaccare la stabilità strutturale della schiuma, a causa di alcune proteine che vengono modificate dai batteri durante il processo di acidificazione. Utilizzando alcuni accorgimenti, come ad esempio tenere la parte vuota della pentola sotto anidride carbonica o azoto e acidificando leggermente il mosto con acido prima di inoculare i batteri nel mosto, questi difetti si possono contenere. Anche la scelta di un ceppo “sicuro” e semplice da usare come il L. Plantarum aiuta a scongiurare l’insorgere di difetti. Ma certo non si può pretendere che produca una eccessiva complessità a livello organolettico.
Il profilo di acidità che si ottiene con il kettle souring, indipendentemente dal mix di microrganismi utilizzati per acidificare, non può avere la complessità di tipiche birre acide come Lambic e Gueuze, dove il processo di acidificazione è contestuale ad altri processi fermentativi condotti da decine di microrganismi diversi durante mesi o anni di maturazione. Tuttavia, l’acidità è sicuramente più complessa e profonda della semplice aggiunta di acido lattico. Utilizzando un mix di Lattobacilli diversi si può rendere il profilo organolettico ancora più complesso. In particolare con ceppi cosiddetti eterofermentativi, come il L. Brevis, in grado di produrre altre sostanze oltre a grandi quantità di acido lattico.
Per aumentare la complessità organolettica, qualcuno utilizza il mix di batteri e lieviti presenti sui grani per acidificare. Sulle glumelle dei cereali sono infatti presenti naturalmente batteri lattici, di diversi ceppi, insieme a tanti altri microrganismi. Si possono sfruttare per acidificare il mash, ma occorre fare attenzione a non stimolare l’azione di batteri indesiderati, altrimenti possono comparire difetti pesanti come composti dello zolfo ma anche acidi grassi dagli aromi piuttosto sgradevoli. Un metodo per selezionare i batteri “buoni” è quello di usare i grani per fare un piccolo starter in un mosto pre-acidificato a pH di 4-4.5, in modo da inibire la crescita di una buona parte dei microrganismi indesiderati, soprattutto quelli patogeni. Poi si annusa e si assaggia lo starter: se il profilo è convincente, lo si utilizza per acidificare l’intero mash, altrimenti no.

Lieviti lattacidi
Negli ultimi tempi sono state introdotte diverse innovazioni nel mondo dei lieviti utilizzabili per produrre birre. Una di queste sono i lieviti della famiglia Lachancea, detti anche lieviti lattacidi. Il nome rispecchia la capacità che hanno questi lieviti di fermentare la birra producendo contestualmente elevate quantità di acido lattico.
Questo permette di produrre una birra acida senza ricorrere all’utilizzo di batteri. La fermentazione avviene normalmente nel fermentatore senza rischio di contaminazione, dato che i lattacidi sono lieviti (come lo sono gli altri che normalmente si usano in birrificio) e non pongono rischio di contaminazione incrociata. Si eliminano con la normale sanitizzazione, ma soprattutto non sono in grado di competere con un lievito standard: anche se un mosto venisse contaminato per sbaglio con un lievito lattacido, quest’ultimo non riuscirebbe a produrre acidità perché verrebbe battuto sul tempo dal lievito primario.
C’è da dire che, almeno per quanto riguarda i diversi ceppi lattacidi rilasciati ad oggi sul mercato, la situazione non è proprio idilliaca. La fermentazione con questi ceppi è piuttosto lenta e spesso non riesce ad andare a buon fine. L’acidità viene prodotta nella prima parte della fermentazione consumando principalmente zuccheri molto semplici; solo successivamente il lievito cambia il metabolismo ed inizia a fermentare il mosto come un lievito “standard”, consumando gli zuccheri complessi come il maltosio. Spesso impiega tempi molto lunghi, a volte non ce la fa. Per ovviare a questi problemi, si inocula spesso un altro lievito quando il mosto ha raggiunto l’acidità desiderata. Con questo approccio, la fermentazione viene portata a termine dal secondo lievito velocizzando il processo e scongiurando potenziali blocchi della fermentazione.
Per aumentare la produzione di acido lattico si può aggiungere saccarosio o destrosio al mosto, per stimolare il metabolismo lattacido del lievito. Ma non sempre si riesce a raggiungere il pH desiderato. Insomma, un approccio promettente e piuttosto interessante per diversi aspetti, ma ancora lontano dal consolidamento.

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Le temps ne respecte pas ce qui se fait sans lui
Il tempo non rispetta ciò che è fatto senza di lui. Questa è la frase che troneggia all’interno del birrificio belga Cantillon, che di birre acide ne sa qualcosa. Il senso è piuttosto chiaro e riassume quanto scritto fino ad ora: l’acidità si può ottenere in diversi modi, ma non tutte le birre acide sono uguali.
Le scorciatoie che abbiamo elencato, dall’aggiunta di acido all’utilizzo di batteri o lieviti lattacidi, rappresentano sicuramente degli approcci validi e utili, ma non sono metodi con cui si può ottenere un profilo organolettico da Lambic, prodotto già in ammostamento con una tecnica differente, ovvero attraverso il turbid mash. Questo è piuttosto evidente: l’acidità è solo uno degli aspetti dei Lambic e delle Gueuze, al loro profilo organolettico concorrono decine di altri composti che interagiscono come i musicisti di un’enorme orchestra. Per raggiungere l’equilibrio tra le varie componenti serve un direttore d’orchestra competente che possa dirigere il tutto, ma servono anche tempi di fermentazione lunghi: raramente si scende sotto l’anno, molto spesso si va ben oltre prima di raggiungere l’acidità e il profilo organolettico desiderati.
Questo non significa che birre prodotte con acidificazioni veloci non possano essere piacevoli o che non meritino un posto di tutto rispetto nel mondo delle birre artigianali. Sono metodi che permettono a qualsiasi birrificio o homebrewer di produrre una birra acida in poco tempo, senza troppe preoccupazioni. Sperimentare con l’acidità è comunque interessante e i risultati possono anche sorprendere, a volte. La mano del birraio si vede comunque, perché le variabili in gioco sono molte e anche nel kettle souring si riconosce una produzione eseguita con attenzione e dedizione rispetto a un’altra gestita senza competenze, in fretta e furia.