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La sindrome da cantina: l’accumulo seriale di bottiglie

In una puntata dei Simpson, durante una partita di poker, Barney Gumble – l’amico beone di Homer dal rutto facile e il cuore tenero – fa i conti con quanta birra hanno ancora a disposizione e, con il solito tono di voce strascicato e nasale, si produce in un’esclamazione da annoverare nelle citazioni più storiche e popolari della serie: “…sono preoccupato per la scorta di birra. Dopo questa cassa e un’altra cassa, ci è rimasta una sola cassa!!!”. Vorremmo che fosse soltanto una scenetta per riderci su; invece, si adatta bene per una simpatica parodia di uno degli atteggiamenti più comuni del beer geek. Che non è naturalmente il consumo seriale smodato e illimitato, ma un processo più fine, anch’esso compulsivo se vogliamo, legato all’accumulo di birra. D’altra parte, sappiamo che ogni geek (in qualsiasi campo, che sia modellismo, Star Trek o Magic The Gathering) prende le proprie passioni estremamente sul serio, dove l’impegno profuso e la cura rasentano, per non dire sconfinano, nella maniacalità, ma non di quelle caotiche e prive di senso, no. Entra in gioco una lucidità calcolatrice, chirurgica, un rigido zelo comportamentale che caratterizza di solito i geni, gli autistici o gli assassini (o una combinazione a piacere delle tre figure). Nel nostro caso, una delle circostanze ove si manifesta meglio è in quel luogo meglio noto come cantina. Terremo per un’altra edizione della rubrica le modalità e gli accorgimenti su come coltivarla, gestirla, organizzarla, trasformarla in un sacrario degno di culto da parte di intere comunità di appassionati; stavolta ci concentriamo su quali potrebbero essere le sue nefaste conseguenze (e come prevenirle).

Se parliamo la stessa lingua e vi ritenete beer geek a tutti gli effetti, è facile che almeno una volta vi sia venuto in mente di metter su una scorta di bottiglie per i motivi più svariati: occasioni speciali come compleanni, celebrazioni, lauree, matrimoni, invecchiare la birra X per comprendere la sua durata nel tempo, eccetera, eccetera, eccetera. È ora meno facile, ma non impossibile e forse nemmeno così difficile, che tale processo abbia preso nel tempo una piega che non vi sareste aspettati e le bottiglie siano aumentate, e non di poco. I birrifici, d’altro canto, non fanno granché per scoraggiare il fenomeno, a botta di release speciali, batch unici, svariate versioni della stessa identica ricetta (es.: vanilla/chocolate/coffee/marshmallow/coconut), barrel-aged multiple e improbabili. Il quadro viene completato dai web-shop, che non vedono l’ora di accaparrarsi l’importazione di qualche nome di grido dalla reperibilità ardua, per invogliare i propri fedeli acquirenti. Poi, nella malaugurata ipotesi di un limite di vendita non fissato a 1pp (una singola boccia per persona), che fai, non ne prendi qualcun’altra? Una per i tasting del gruppo di amici con cui siete soliti vedervi per bere – i quali, essendo geek come te se non peggio, al 99,99%, avranno fatto la stessa pensata rendendo il vostro acquisto non più così esclusivo –, un’altra per aprirla da soli o con un caro amico, un’altra ancora per scambiarla o rivenderla, anzi, già che ci siamo facciamo due da scambiare, o anche tre, perché no, dai, forse SEI è il numero perfetto. C’è un istante di ripensamento e riflessione, che vi farà balzare in mente il dubbio che forse ne potreste comprare anche meno e stare bene comunque, ma dura un microsecondo. A spazzarlo via arriva il granitico e inossidabile pensiero: e poi male che vada me le posso sempre bere. In uno sperduto angolo sul fondo del cervello sapete benissimo che non andrà così. Sapete che, a meno di ridursi davvero come Barney Gumble, state comprando più birra di quanto riusciate a consumarne, ma si compie quell’opera di autoconvincimento che in comunicazione avanzata si chiama dissonanza cognitiva.

Comunque. Quale che sia la ragione per cui conservare una bottiglia, siamo dinanzi ad un unico denominatore comune: l’attesa. E merita una speciale menzione quella credenza comune secondo cui alcune tipologie di birra, ad es. Barley Wine e Imperial Stout, vadano “fatte riposare”. Spesso si sente dire a riguardo “è troppo giovane/fresca” come se l’invecchiamento fosse un processo migliorativo, in grado di aumentare lo spessore e la complessità di una birra, e non basato sulla sottrazione e il deperimento. Probabilmente, chissà, retaggio della fascinazione esercitata dall’aprire bottiglie vintage pluridecennali di belghe random (magari al Kulminator durante il primo viaggio in Belgio), in barba a qualsivoglia ed evidente ossidazione, eppure per molti è un dogma. Vi siete mai chiesti: è vero? Ne vale la pena? Diversi anni fa, il co-founder di Stone Greg Koch fu interrogato sull’argomento e le dichiarazioni da lui rilasciate erano tutt’altro che a favore. Si riassumevano in poche, semplici parole: se avete una birra, bevetela. Difficilmente migliorerà nel tempo. Non si riferiva alle IPA moderne di cui Stone è stato un antesignano, ovvio. Koch sosteneva che può essere interessante, da un punto di vista didattico, studiare l’evoluzione di una stessa birra ogni sei mesi circa, ma prima di tutto dobbiamo averne l’esperienza della sua massima espressione, cioè fresca: soltanto così saremmo in grado di comprendere appieno il risultato che il birraio si era prefisso di ottenere col suo lavoro.

Alla luce di quanto già affermato sullo scorso numero, le opinioni spesso ossessive sulla freschezza da parte degli addetti al settore, specie i birrai, andrebbero prese con le pinze: più noi bevitori consumiamo in fretta, più loro hanno modo di produrre nuovi lotti e nuove birre. Non per questo le parole di Koch non debbano contenere una validità. Al di là della freschezza, si legano benissimo allo spinoso tema della cellar syndrome. Se non vi è simpatico il personaggio, si può citare il motto di un noto birrificio italiano: la birra va bevuta. In fondo, non è un oggetto da collezione. E per rafforzarne il significato, trovo emblematico raccontare la storia personale di un geek americano trasferitosi da poco in Italia. Il mio amico C. viene da St. Louis, ed è uno di noi. Appassionato di lunga data, ha visto la città in cui viveva trasformarsi in una delle tre migliori destinazioni per il turismo brassicolo negli Stati Uniti. Per intenderci, la capitale del Missouri offre, oltre a decine di beer-bar, nomi del calibro di Schalfly, Urban Chestnut, 4 Hands, Narrow Gauge a poche miglia di distanza, ma in particolare spiccano Perennial e Side Project – nome che associa un hype fortissimo a una qualità altrettanto stellare, particolarmente sulle Imperial Stout (vi ricorda niente la O.W.K., valutata quattromila dollari sul secondary market? Ecco, è roba loro). La vita di un beer geek a St. Louis è senza dubbio tutto fuorché noiosa, ma anche tutto fuorché a buon mercato: C. mi raccontava che alcuni periodi dell’anno sono costellati da un susseguirsi quasi infinito di release e nuove uscite, traducibili in spese per alcune centinaia di dollari a settimana da stanziare solo per esse. Se l’esborso economico non dovesse rappresentare un deterrente, il farsi possedere dall’accumulo compulsivo introduce anche una problematica legata allo spazio. Dove mettere le bottiglie? Conosco matti senza paura che utilizzano gli spazi più freddi della casa, persino nicchie negli armadi dei propri vestiti, ma come fare quando l’ordine di grandezza è cento? Mille?!? Okay, supponiamo di essere fortunati e avere una vera cantina, pure molto spaziosa. Va tutto bene, finché un giorno non è la stessa vita a metterti davanti agli imprevisti. Non si parla di disgrazie, di salute, ma di circostanze. Da un giorno all’altro ricevi un’offerta di lavoro pluriennale dalla tua azienda: alta remunerazione e grande esperienza formativa, una di quelle proposte che capitano di rado nella vita. L’unico, non proprio irrilevante, dettaglio è che prevede il trasferimento in un altro continente. Fai tutte le valutazioni del caso e accetti. Resta giusto un piccolissimo, sconveniente, particolare: e le birre? Portarle dietro è impensabile. Farsele inviare man mano spendendo un’ulteriore marea di soldi, e a che pro? Rischiare di incappare nello stesso dilemma quando sarà il momento di tornare? Assurdo. Lasciarle dove sono? E per quanto tempo? Non è una collezione di fumetti o di lattine vuote. Che senso ha, se il rischio è ritrovarle irrimediabilmente compromesse, “fallen off” come si dice in gergo? Sono le domande che frullavano in testa a C. Alla fine, ha prevalso la razionalità imponendo la decisione più semplice. Mancavano diversi mesi alla partenza. E distese di casse, accatastate l’una sull’altra, erano in attesa della loro sorte. Ebbene, selezionata una manciata di bottiglie da portare in volo, il verdetto inevitabile è stato: aprirle. Tuttavia, ci voleva un’idea per non rovinarsi la salute e il mio buon amico ha propeso per la maniera più simpatica e indolore di esorcizzare il demone della cellar syndrome: invitare gli amici, divertirsi insieme aprendole liberamente, consapevole di star facendo la cosa migliore.

Non dico una volta la settimana, ma è stato un periodo folle, zeppo di serate incredibili… a St. Louis abbiamo una comunità di geek molto forte, e quando decidevo di invitare i buddies ci si ritrovava sempre con una buona dozzina di persone. Un paio di volte ci sono stati persino un paio di amici di amici che erano greci, erano di passaggio, mi hanno chiesto se potessero farli venire e io ho detto: perché no? La birra è fatta per essere condivisa. E macinavamo whale su whale. Immagina ogni dannata release di Perennial o Side Project dalla loro apertura ad oggi: io le avevo. E tranne poche, non mi ero limitato a comprarne una sola bottiglia. Di tanto in tanto continuavo a pensare che fosse un peccato doverle aprire tutte, ma ora ammetto che è stato meglio così. Non è rimasto nulla, niente, tranne una piccola collezione di lambic. Diverse non erano un granché dopo anni, mi hanno deluso. E mi sono reso conto che il vero peccato è stato conservarne troppe e non tenere mai davvero conto di cosa ci fosse o meno. Se dovessi ricominciare, sarei più accorto, accurato. Ma nel frattempo… I learned the lesson. Ascoltare il racconto di C. è stato bello, e la frase con cui lo ha concluso mi ha dato molto da riflettere. Ho imparato la lezione. Mi ci rivedo un po’ in lui, ho molti anni in meno ma praticamente lo stesso vizio. Sebbene abbia una lista di tutto quel che posseggo e la aggiorno di continuo, la settimana scorsa ho ripensato ancora a quelle parole e ho aperto una Mexican Cake Maple Bourbon di Westbrook, imbottigliata ad ottobre 2016. Quando l’ho scambiata, due anni fa, era ricercatissima. Ho visto alcuni pagarla più di cinquecento dollari, e per un periodo il birrificio stesso l’aveva in carta, consumabile giusto in loco, a trecento. Comunque: era molto buona, ma non da capogiro. Ossidazione zero, ancora con una forte scarica di peperoncino e la nota di sciroppo d’acero ben evidente, ma il corpo lievemente esile mi ha lasciato il dubbio che avesse superato il suo optimum. E il rimpianto di non averla aperta prima. O magari era deludente di suo, chi può dirlo? Ma se vi dovessi dire perché l’ho conservata così a lungo, non ho una vera spiegazione. Ne potrei inventare su due piedi, ma la verità è che forse ho soltanto troppe birre.