La montagna in una pinta: parola di Foglie d’Erba
Abbiamo chiesto a Gino Perissutti, birraio e fondatore del birrificio Foglie d’Erba, di raccontarci il suo rapporto intimo con la natura e il territorio delle Dolomiti friulane che inevitabilmente influenza il suo modo di fare birra. Questo il suo pensiero.
Durante le brevi pause che il lavoro in birrificio concede, tra cotte e cantina, confezionamenti e via andare, mi piace uscire sul terrazzo che si affaccia su un vasto prato contornato dal bosco e, più in alto, dalle creste delle Dolomiti Friulane che ogni giorno regalano una carezza al nostro sguardo. Chiudendo gli occhi, il silenzio ed un respiro profondo mi portano in una dimensione di pace, una sorta di tempo che si ferma nella mente, scandito da inebrianti accenni di resina ed erba rigogliosa nei giorni di sole, terra bagnata ed ozono in quelli di pioggia, aria cristallina profumata di aghi di pino dormiente in inverno, con la neve che scende a coccolare quei contorni. Nelle stagioni di mezzo, le più belle e misteriose quassù in montagna, una brezza sottile e corroborante parla di una vita segreta, quella che si rincorre tra gli alberi e i cespugli, tra i ghiaioni e le radici. Va da sé che a fine giornata, quando, dopo aver cercato di rendere omaggio a questo splendido territorio, mi piace staccare la spina e lasciare che i sensi si godano all’aperto la birra che chiude il lavoro quotidiano. È la birra del mio territorio, nella quale avvertire l’acqua purissima che accarezza il palato, le resine, l’erba e la terra e l’aria che ogni mattina mi danno un’energia in più per affrontare con il sorriso questo magnifico lavoro.
Non è affatto semplice introdurre in ambito produttivo le materie prime della montagna, tanto per la loro peculiarità quanto per l’ovvia necessità di garantirne l’idoneità al consumo umano e la conseguente e necessaria tracciabilità alimentare. Il prodotto che adoro di più e che racchiude lo spirito della montagna è senza dubbio la resina di pino. I miei primi esperimenti li ho fatti raccogliendo personalmente le pigne piene di resina che si formano quando la neve lascia spazio ai caldi raggi del sole tra gli alberi che guardano la vallata. Il procedimento più intuitivo è quello che ci insegna la tradizione delle grappe al pino mugo: si mettono le pigne in un vaso con lo zucchero al sole, così da separare la parte legnosa dalla resina. Un metodo che va benissimo per un distillato, ma se impieghi questa resina in una birra sei obbligato ad inserirla in bollitura, altrimenti il rischio infezioni è dietro l’angolo. Ma così facendo perdi tutta la parte aromatica. Abbiamo provato con gettate a fine bollitura, in whirlpool, fino all’aromatizzazione a freddo simulando una sorta di dry-hopping dopo sterilizzazione a vapore o in infusione alcolica. Niente però compete con la trasformazione della resina in olio essenziale attraverso una distillazione non alcolica, perché riesce a rinchiudere i profumi e a garantire un utilizzo ottimale in produzione. Certo potrei acquistare facilmente un olio essenziale di resina boschiva sul mercato, ma così facendo perderei tutto il collegamento con la mia terra, visto che nessuno in zona li produce. Per questo abbiamo acquistato una macchina per la produzione di olii essenziali che darà vita nel tempo ad una linea dedicata ad esaltare i profumi della mia montagna, come resine, erbe aromatiche autoctone e probabilmente anche frutta. Abbiamo già la certificazione FSC (sistema di certificazione forestale riconosciuto a livello internazionale) che mi permette di raccogliere con tutti i crismi la resina e con la strumentazione in arrivo potrò trasformarla in olio essenziale facendomi certificare il prodotto da dei laboratori competenti.
Nella mia Carnia ho soltanto l’imbarazzo della scelta: vivo in un territorio con la più alta biodiversità di piante officinali al mondo. Un’altra domanda che devo farmi allora è: quale prodotto del bosco è in grado di caratterizzare in maniera armoniosa, equilibrata e piacevole una birra? L’aromatizzazione non deve coprire le altre componenti, né perdersi nella complessità di una ricetta per una sfumatura difficile da cogliere. Tornando alle resine, la parola d’ordine è farne un utilizzo assolutamente omeopatico, visto che stiamo parlando di essenze dal forte impatto. Le resine possono spingere nella direzione di certi luppoli come il simcoe o alcuni nobili tedeschi, anche se la resina da pino è più balsamica, mentolata. Per questo è meglio utilizzarla nelle saison o in una tripel piuttosto che in una luppolata. Se devo scegliere sulla base della mia esperienza preferisco birre dotate di struttura e corpo per reggere l’impatto dell’aromatizzazione. Non scartate le scure, possono dare molto soddisfazioni. Mi ricordo una versione alle resine della Song from the wood davvero interessante con l’incontro tra mentolato e cioccolato a creare un effetto After Eight davvero interessante. Anche le ambrate come le american red ale non si comportano affatto male, con la leggera parte di malto biscottato e melanoidinico, a sposare la nota resinosa. La vera sfida che ci aspetta in birrificio sarà quella di assicurare l’idoneità, la tracciabilità, e al tempo stesso racchiudere il risveglio primaverile del nostro bosco in un bicchiere da condividere con voi!