Il fantastico mondo di Fantôme
Allumez vos phares – accendete i vostri fari – sta scritto su un cartello lungo l’unica strada che da Hotton va a Soy, in piena Vallonia meridionale: perché mentre la percorrete, all’improvviso, gli alberi cominceranno a unirsi, fitti, verso il cielo e oscurando la visibilità, con un fare cinematografico, quasi una dissolvenza, a metà tra un paesaggio rubato a Il signore degli Anelli e il tunnel che Eddie Valiant, l’investigatore protagonista di Chi ha incastrato Roger Rabbit, imbocca per ritornare alla variopinta ed esuberante Cartoonia. Certo all’uscita dalla cornice alberata non troverete il sole nascente a darvi il benvenuto con un sorriso, né cori di buffi animaletti che salutano, ma, spingetevi giusto un po’ più avanti di neanche un paio di chilometri e forse, alla Brasserie Fantôme, capitando nei giorni giusti, avrete la possibilità di incontrare una persona che niente ha da invidiare alla città animata. Dany Prignon, fondatore e birraio, potrebbe benissimo essere il personaggio di un cartone – per esempio il dirimpettaio di Bugs Bunny o Daffy Duck. La sua seconda casa, il birrificio, un vecchio edificio colonico, è in tutto e per tutto un capolavoro dell’animazione di una volta, senza computer-grafica, a partire dall’esterno, con l’insegna mezza spezzata che recita uno strozzato Brasserie Artisa— e l’iconico fantasmino ormai noto al mondo intero. Essere ricevuti da Dany inizia con un rituale ben preciso, che consiste nell’attenderlo e non sapere mai da dove sbucherà. Anni fa, restai lì davanti un quarto d’ora. Avevo quasi perso le speranze, ero pronto a ricalcare l’aneddotica delle leggende metropolitane che si tramandavano fra gli addetti ai lavori: chi non l’aveva trovato a dispetto di appuntamenti presi, chi era venuto per ritirare un carico di birra ed era tornato a mani vuote. Ti chiedo per favore di scrivermi anche il giorno prima di arrivare, scusa… è che potrei dimenticarmi, mi aveva detto. Un biglietto da visita che già la dice lunga, eppure, nonostante avessi rispettato l’avviso di mandargli un promemoria, non c’era nessuno, tutto chiuso, la sala vuota attraverso le vetrate sporche, finché da dietro la porta non si materializzò il suo volto che guardava fuori con circospezione. Stavolta è stato diverso: dopo una decina di minuti, sotto un caldo da record a quelle latitudini, è arrivato a gran velocità a bordo della sua inseparabile Renault Clio anni Novanta, anch’essa presa direttamente da un mondo animato. Entrando ti accorgi che il tempo non scalfisce neanche per sogno l’interno dell’edificio, visitato anni prima, a cominciare dal pavimento irregolare, le cataste di casse color arancione impilate, botti e fusti sparpagliati alla rinfusa, e la celeberrima sala di cottura che farebbe tremare i polsi persino a “Doc” Emmett Brown di Ritorno al Futuro.
Ho degli ospiti di recente… ouff! – e con un piccolo calcio, degno di una scena della Warner Bros, sposta ciò che sembra sulle prime un accumulo di polvere e che invece si rivelano essere delle piume. Vedi, me li sono ritrovati… – indica il sottotetto, dove si scorge un nido di rondini – so che non è una bella cosa dove faccio birra, però non danno fastidio, poi se è il caso… ed emette un suono sordo facendo schioccare le labbra, ipotizzando soluzioni drastiche, cui segue una risatina. Le frasi mozze che spesso terminano con un’onomatopea o gesti sono un marchio di fabbrica di Dany. Il suo linguaggio fuori da ogni schema è una pura e spontanea invenzione e inversione di forma, Magritte ci avrebbe scritto un trattato o realizzato una serie di dipinti per descriverlo, data la difficoltà di inquadrarlo: un uomo dispari, imparentato alla lontana con Jack Sparrow, per l’armoniosa mimica svuotata dalla spavalderia, e Gianfranco Marziano, per la leggerezza nel non sapersi prendere sul serio e l’assurdo del quotidiano senza però il nichilismo corrosivo. Non somiglia comunque né all’uno né all’altro. La sua timidezza è quella dei bambini e così anche la curiosità e l’entusiasmo nelle piccole cose. Oh, vedete chi c’è, qualche settimana fa è venuto qui e adesso ho compagnia! – facciamo per andare nella sala dove fa accomodare (al momento solo il sabato pomeriggio) la gente che viene per comprare birra o berla alla spina, e ci viene incontro un gatto. Dany si avvicina al frigorifero, tira fuori una birra e poi una boccetta con del latte per versarla in una ciotola da dare al micio. L’etichetta della bottiglia (dall’assurdo nome “another F’tôme BRICK for Didier”) che ci offre è tutta un programma: il fantasmino del logo è triste, mentre da un muro incompiuto cade un mattone che centra in pieno, sulla testa, con tanto di bernoccolo, un uomo dolorante. Didier è un mio amico… qualche tempo fa gli è caduto un mattone in testa, per fortuna non si è fatto tanto male, così gli ho detto: facciamo una birra, no? Una saison da sette gradi e mezzo che sembrano quattro; pulitissima, una beva scorrevole e pericolosa, taglio secco e netto dovuto ad un imprecisato dry-hopping. Domandare a Dany gli ingredienti di una ricetta è come rivolgersi alla Sfinge, la risposta sarà enigmatica, sfuggente, e per lo più conterrà il refrain non mi ricordo, accompagnata però da un sorriso sincero e dalle solite mani che gesticolano. La verità è che davvero non ha memoria di tutto ciò che fa e, anche se le sue produzioni più importanti (es.: la classica Saison, flagship beer da sempre, e le quattro stagionali) sono ben fisse nella sua testa, non manca mai quell’elemento di casualità, aleatorio. Fra qualche giorno devo cogliere i fiori per una nuova cotta, vediamo cosa trovo qui dietro nel campo, e intanto spilla due bicchieri di Vertignasse, blanche saison agli spinaci. Anche questa molto buona, speziata, ricca e rinfrescante, dal caratteristico colore verde – così come la Magic Ghost, fatta invece con il the e concepita ben prima che Instagram venisse invaso dalle variopinte Berliner/Gose americane e i loro sgargianti colori.
Ma la fama, la notorietà, sono elementi che a Dany suscitano scarso interesse, anzi. È vero che su Facebook, spesso, ha piacere di condividere i post di gente che beve le sue birre dall’altro capo del mondo, ma finisce lì. Quando fui da lui la prima volta, di lì a un mese ci sarebbe stata la sua prima partecipazione al Villaggio della Birra. Era un evento in ogni senso, perché mai, fino ad allora, si era recato ad un festival in vita sua che non fosse qualcosa di raccolto e circoscritto ai paesini del Luxembourg. Sono un po’ preoccupato… sai, non mi sono mai allontanato così tanto da qui. Non mi piacciono i posti dove c’è troppa gente. La gente che chiede, fa domande, io… (mette le mani avanti per stabilire una distanza) …dimmi, c’è tanta gente lì? Gli dissi di no, che gli sarebbe piaciuto l’ambiente, l’atmosfera bucolica, cercai di rassicurarlo. Non si convinse molto, ma al Villaggio lo vidi di nuovo ed era contentissimo, in pratica un bimbo alla sua prima esperienza con le giostre. Tant’è che volle tornare per quasi tutte le edizioni successive. Per ovvie ragioni, quest’anno il festival non si terrà e adesso è addirittura dispiaciuto. Il COVID non ha fatto sconti nemmeno al suo lavoro. Ho un pallet bloccato ad Anversa da due mesi, deve andare in America… dall’Inghilterra hanno fermato gli ordini, pensa che adesso sto facendo birra solo una o due volte al mese, e così… unisce le mani, incrocia le dita, e comincia a far girare i pollici velocemente, ridendo. La capacità di Dany nel saper reagire in modo così spensierato, sdrammatizzando pure sulle avversità più forti, dà l’idea che non deve aver avuto una vita proprio facile, ma che alla fine ha scavalcato, andando oltre fino a trovare la grazia di un equilibrio perfetto. Non si sa molto del suo passato, nonostante l’affabilità è tanto riservato quanto timido, ed è il motivo per cui non ho chiesto e non gli chiederò mai un’intervista. Preferisco che le informazioni vengano fuori in modo naturale, alcune delle quali ben note: ha aperto il birrificio insieme al padre, alla fine degli anni Ottanta, dopo essersi formato alla Brasserie d’Achouffe – quando era ancora indipendente. In seguito, Dany non prese bene l’acquisizione da parte di Duvel-Mortgaat. Sai… dopo aver comprato il birrificio, nel giro di sei mesi licenziarono tutti. E li sostituirono con gente loro, fiamminghi o di altri paesi. Quelli che lavoravano erano persone del posto, di qui, li conoscevo. Non è stato bello. La riappropriazione di un modo di far birra che fosse genuinamente locale, infatti, è stata una delle ragioni che l’ha spinto a creare Fantôme. Nel frattempo ci ha stappato anche una Pissenlit, la saison al tarassaco, questa più impegnativa delle altre. Ci viene un po’ di fame ed è come se ci avesse letto nel pensiero: andiamo a mangiare, che dite? Ad Hotton c’è un ristorante tranquillo… si mangia bene, e poi se arriviamo presto non troviamo tanta gente, poi altrimenti diventa affollato. Capiamo dopo le dimensioni del suo concetto di folla, quando si lascia il ristorante e ci fa: vedete, comincia ad arrivare gente. Sì e no, otto persone in croce, in un ampio spazio all’aperto. Ma è a tavola che emerge una delle sue peculiarità più singolari. Al birrificio, aveva riempito i bicchieri solo per noi, qui invece ordina una Westmalle Tripel. È l’unica birra che beve. Durante un altro pranzo assieme, io presi un’Orval fresca di due mesi. Vedendola, mi disse che la trovava troppo frizzante – con una smorfia, ovviamente, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa.
E le altre birre belghe? – gli chiesi. Troppo dolci. E le IPA? Troppo amare. E il lambic? Troppo acido. Ogni tanto si concede una Rochefort 10, ma giusto ogni tanto perché è… (indovinate?) troppo forte. Torniamo al birrificio e ci mettiamo all’aperto, sotto un ombrellone per ripararci dal sole devastante. Lui, si versa della coca-cola. A noi apre una collaborazione, dice che forse è l’ultima bottiglia rimasta, non ricorda bene di dove sono le persone con cui l’ha fatta, americani, forse della California? Controllo su Untappd e gli dico di sì, stanno a Chino, il paese di Sierra Nevada. Annuisce. Non ho il cuore di dirgli che la ricerca ha dato anche il gelido messaggio No Longer In Business per il birrificio Polymath. E mi viene un pensiero triste: guardo Dany, la sua espressione serena, la dolcezza dei lineamenti gentili, un’età indecifrabile – potrebbe avere cinquantacinque anni come settanta –, e penso a cosa mai succederà quando non avrà più la voglia o la forza di mandare avanti Fantôme da solo. Si sa che ha un figlio, comunque non interessato al lavoro. Una volta glielo chiesi a bruciapelo: cosa farai in futuro? Ah, non ci ho mai pensato. Andrò in pensione e… boh, forse venderò, qualcuno verrà a comprare tutto, o forse no. Ci farò un museo magari, chi lo sa? Mi piacerebbe andare in Giappone. Oppure in Toscana, so che è molto bella (fu prima che frequentasse il Villaggio). Gert di Oud Beersel mi dirà dopo qualche giorno che, nell’ambiente, molti sono preoccupati per il destino del birrificio. Perché un pezzo di Belgio, di quelli unici più che rari, rischia di scomparire in maniera insostituibile, irrimediabilmente. Giro fra le mani la bottiglia che ho davanti, ripenso a chi sostiene che certe birre andrebbero bevute solo sul posto, per la sacralità dei luoghi, la geografia, eccetera, e quindi esportarle – delocalizzandole – significherebbe violarle e perdere il loro significato più intimo. Questa teoria è a mio avviso morbosa. Kuaska, in una delle sue massime dal maggior successo, sostiene che la birra è l’estensione della personalità del birraio; e mai frase più azzeccata si potrebbe applicare al caso specifico. L’estrosità nello scegliere gli ingredienti, il suo impianto estemporaneo, ogni piccolo dettaglio di Fantôme va a imprimersi nel bicchiere assieme alla birra versata. Ma se accettiamo la teoria dell’estensione, allora dobbiamo essere grati di avere la possibilità di accedere alle birre anche trovandoci a migliaia di chilometri di distanza da Soy, senza vergognarsi che sia un’esperienza monca, insensata, e la Brasserie dovrebbe essere un punto d’arrivo invece che l’unica possibilità. A Dany, comunque, non importerebbe. O forse sì? Una volta mi disse: come vedi, sono solo un piccolo birrificio. Ribattei: no, hai messo su qualcosa di grande. Per un attimo solo il suo sguardo cambiò, non più rivolto verso di me, serio, sembrava fissare davanti a sé un oggetto astratto, inesistente, la voce divenne solenne: ogni tanto, forse… ogni tanto.