Il duro lavoro del publican al tempo del covid
Proviamo a pensare agli aggettivi e alle espressioni che i clienti usano per descrivere il loro pub preferito. Mettendo per un attimo tra parentesi la qualità dell’offerta birraria e i tecnicismi circa la maestria dello staff nella spillatura, è assai probabile che abbiano un’elevata frequenza frasi come “c’è una bellissima atmosfera, ci si sente come a casa”, “si condividono i tavoloni e ci si trova in men che non si dica a parlare con dei perfetti sconosciuti”, “ho fatto amicizia al bancone con un tizio simpaticissimo”, “all’apertura del cask di Real Ale appena arrivato dallo Yorkshire c’era così tanta gente che è finito in mezz’ora”, “alla serata con il birraio nel locale non entrava più nemmeno uno spillo”. La mente logorata da mesi di lockdown totali, parziali o presunti e riplasmata dall’imperativo del distanziamento interpersonale ha un improvviso sussulto e si genera una scarica di adrenalina simile a quella che usualmente scuote le membra alla visione di immagine fortemente trasgressive?
Giusto che sia così perché la vita da pub (o da Bierstube o da bruin café) come l’abbiamo sempre conosciuta è uno degli aspetti più duramente colpiti dalla pandemia in atto: il Covid19 ha sferrato un micidiale attacco alle radici della millenaria istituzione delle tabernae perché le indispensabili e ineludibili norme finalizzate a ridurre la diffusione del contagio sono agli esatti antipodi della spinta alla socialità che, di norma, porta un essere umano a frequentare una public house, una casa in cui ci si rilassa, si calano le maschere che la vita lavorativa e la socialità formale costringono ad indossare e si allentano i freni inibitori. Proprio come se si fosse nella propria abitazione, ma qui, al contrario che tra le mure domestiche, si ha l’opportunità di incontrare numerosi simili nella stessa condizione psicologicamente rilassata che può agilmente condurre a una minore attenzione verso norme e protocolli, compresi, ahimè, quelli sanitari. Il senso di smarrimento che ha pervaso molti publican la scorsa primavera e che ancora emerge, nei momenti più difficili di ogni giornata, è dovuto proprio all’urgente necessità di dover ribaltare completamente le più consolidate buone prassi della propria professione e i valori di accoglienza, prossimità e calore umano su cui è sempre stata fondata.
D’improvviso il bravo publican non è più stato colui che accoglie i propri clienti con un abbraccio e un sorriso ma il più solerte a imbracciare termometro a infrarossi e registro delle prenotazioni, nel mentre il pungente sentore clorato della candeggina ha preso il posto dell’antiquario afrore di legno impregnato da gocce di birra sfuggita dai boccali come indice di un locale in cui si sta bene, i divisori in plexiglas da inquietante complemento d’arredo di stampo carcerario sono diventati un anelato accessorio tranquillizzante e anche le incisioni sul ligneo dorso di tavoli e panche si sono trasformate da preziose testimonianze storico-artistiche a pericolosi potenziali raccoglitori di droplet.
Last but not least, il cliente più amato e apprezzato è diventato colui che si affaccia alla soglia con aria circospetta e chiede sommessamente: c’è posto?, mentre il simpatico caciarone che infila la porta con il piglio di un masnadiero medievale, saluta tutti a voce a alta e si parcheggia al bancone elargendo battute spiritose più o meno divertenti, ha visto la sua reputazione mutare da prezioso intrattenitore che crea atmosfera a costo zero a soggetto problematico da gestire.
Un locale sicuro, di questi tempi, non è più un locale in cui sicuramente ci si diverte ma uno che rispetta e fa rispettare le norme di distanziamento interpersonale; da casa pubblica in cui si entra in contatto con persone finora sconosciute o comunque al di fuori della propria cerchia di familiari, il pub che voglia continuare a lavorare deve ora essere una sorta di momentanea traslazione in luogo pubblico della casa privata e trasformare ciascun tavolo in una nicchia, perfettamente igienizzata ad ogni passaggio, in cui i clienti siano garantiti di essere a contatto solo con persone conviventi o appartenenti alla stessa bolla sociale.
Senza voler drammatizzare troppo, per i pub e i loro gestori l’alternativa che si è posta negli ultimi mesi è stata cambiare o morire, intendendo il secondo termine come una sorta di ibernazione o messa in sonno, ovvero la rinuncia ad agire in modalità differenti dall’usuale, preferendo fermarsi del tutto in attesa di tempi migliori: scelta che è stata adottata da molti pub nel Regno Unito e in Irlanda (in particolare i cosiddetti wet pub, in cui non si serve cibo) ma anche da qualche collega italiano.
Ma quali sono le possibili modalità d’azione alternative concesse dall’attuale situazione sanitaria? Un primo grosso discrimine è costituito dalla possibilità o meno di effettuare il servizio di somministrazione, come è avvenuto la scorsa estate senza grosse limitazioni in termini di orari o come accaduto invece solo nelle ore diurne nelle regioni italiane classificate a livello di emergenza “gialla”. L’opportunità di servire sul posto birra ed eventualmente cibo ha infatti un’importanza cruciale sul piano economico perché assicura al locale una marginalità superiore alla vendita da asporto e a domicilio che, è sempre bene ricordarlo, sono soggette ad IVA al 22% mentre per la somministrazione è al 10%.
Le norme sul distanziamento interpersonale hanno costretto tutti i locali a ridurre il numero di coperti a disposizione e ciò ha portato ad introdurre massicciamente il sistema della prenotazione anche in realtà come i pub per i quali, a differenza dei ristoranti, specie quelli di fascia più alta, questa modalità di lavoro era sempre stata più l’eccezione che la regola. Il lavoro su prenotazione ha permesso di ridurre notevolmente il rischio di sovraffollamento o assembramento nei mesi di apertura che abbiamo vissuto tra l’estate e l’autunno ma è per certi versi in antitesi con l’essenza profonda della public house, che dovrebbe idealmente aprire le proprie porte a tutti gli avventori bisognosi di una birra e del conforto che solo un bravo oste sa dare.
Per ovviare alla riduzione dei posti un’altra soluzione adottata da alcuni publican è stata l’allargamento dell’orario anche a fasce mattutine e pomeridiane, stratagemma divenuto praticamente un’imposizione nel tardo autunno ed inverno per i locali posti nelle cosiddette regioni “gialle” nelle quali la somministrazione in loco deve essere fermata alle ore 18. Indurre una rivoluzione culturale dei bevitori italiani avvicinandoli ai costumi degli abitanti delle grandi nazioni birrarie, ove è usuale e non sintomo di alcolismo degno dell’attenzione di un S.E.R.T ordinare una pinta o un boccale a metà mattina e, al contrario, non è affatto cool uscire di casa rigorosamente passata la mezzanotte per presentarsi sulla soglia dei locali a ridosso dell’ora di chiusura lamentandosi magari che il personale sia stanco o anche un po’ scocciato, è un antico sogno dei publican di tutta la Penisola ma si scontra con alcune difficoltà di ordine pratico.
In primo luogo, le abitudini hanno tempi di cambiamento e sedimentazione medio-lunghi e quindi non basta un DPCM per stravolgerle, secondariamente operare nelle ore diurne e puntare magari sul pranzo, come qualche pub dotato di cucina sta logicamente facendo, va a collocare i locali birrari in una fascia oraria già occupata da ristoranti, trattorie e tavole calde e peraltro duramente colpita dalla massiccia diffusione dello smart working: nei quartieri delle grandi città ad alta concentrazione di uffici si è già assistito, in conseguenza al primo lockdown, a un’autentica moria dei classici bar-tavola calda da panini alla piastra o primi piatti surgelati scaldati al microonde mentre numerosi ristoranti hanno scelto di abbandonare il, già precedentemente non molto redditizio, servizio dei “pranzi di lavoro” a prezzo fisso (basso).
Il servizio da asporto o a domicilio sono stati altri temi caldi, sin dal primo lockdown: se la vendita da asporto, che trasforma il publican in negoziante, non ha suscitato particolari dibattiti perché è il surrogato più naturale e meno doloroso del servizio ordinario, pur tagliando recisamente tutto il valore aggiunto dato dall’atmosfera di un locale che però viene, il delivery è stato oggetto di numerosi e anche vivaci scambi di opinione tra gli addetti ai lavori. I piani concettuali su cui sviluppare una riflessione a riguardo sono, infatti molteplici: il più aulico e “filosofico”, se vogliamo chiamarlo così, è che il pub è un’esperienza assai più che la somma dei suoi prodotti e servizi e un’esperienza, per definizione, non la si può recapitare a casa con un six pack di birre o un contenitore termico con il piatto preferito ben caldo all’interno.
Un’immediata correlazione logica, vagamente tinta di cinismo, a questa considerazione è che abituare il cliente ad avere a disposizione tutti i giorni ottima birra pur facendo a meno di quella che è la dimensione più importante del servizio di un pub non sembrerebbe, sul piano freddamente razionale, una scelta molto saggia. Ma il fattore umano in questo caso cambia un po’ le carte in tavola, come vedremo a breve. Un corollario assai più pratico e prosaico della riflessione sull’irriproducibilità del pub a domicilio riguarda la qualità del servizio, specie per le birre spillate in bottiglie, lattine e growler prima di essere recapitate a casa del cliente. Sui social si è assistito fin dalla scorsa primavera a un caleidoscopio di posizioni che hanno dato vita anche a qualche scintilla.
Da una parte, infatti, i futurologi o simpatizzanti della cosiddetta shut-in economy, fondata proprio sulla consegna a domicilio, fantasticavano su nuove gerarchie di pub e publican basate sulla migliore spillatura ritarata sul growler o sulla migliore cottura per una pizza o un hamburger destinati ad essere trasportati e consumati dopo un lasso di tempo anche considerevole. I puristi della spillatura perfetta scongiuravano di non rovinare ottime birre (e, di conseguenza, la reputazione di birrifici e birrai) inserendole a forza con i più svariati e ingegnosi stratagemmi in contenitori nati per altri liquidi per poi trasportarle in motorino in giro per le città sottoponendole a sbalzi termici e a scossoni dovuti al fondo stradale. I realisti infine si limitavano a far notare come di fronte al concreto pericolo di fallimento e chiusura diventava lecito qualunque escamotage di spillatura permettesse quantomeno di limitare lo spreco di prodotto, contribuire a pagare le spese fisse e rimanere a galla. Oltre a constatare come nello schieramento dei futurologi non ci fosse, significativamente, alcun publican, proprio la posizione dei realisti, che era, all’opposto, ovviamente parecchio diffusa tra titolari e gestori di locali, ci riconduce al tema della spartizione della torta già sorvolato in precedenza a proposito delle aperture diurne: in sostanza, se tutti si mettono a consegnare a domicilio è matematico che le porzioni di mercato e i margini si assottiglino per tutti, anche perché ci si va a sommare a chi già per impostazione originaria vive di questo come i siti di e-commerce o, nel campo del cibo, le pizzerie da asporto, le gastronomie, i take away etnici e compagnia.
I guadagni sempre più assottigliati hanno inoltre suscitato non poche questioni di legittimità tra gli operatori del settore: dal lato dei publican si è guardato non di rado con qualche fastidio a birrifici e distributori che si recavano, per la prima volta in modo massiccio, direttamente dal cliente finale, il quale aveva facilmente conosciuto quella birra o quel birrificio proprio grazie a un pub. I birrifici replicavano di norma che senza la loro sopravvivenza non ci sarebbe più stata birra artigianale da servire nei pub alla fine dell’emergenza e i distributori erano preda della preoccupazione che l’utente ultimo potesse non comprendere il loro indispensabile ruolo di raccordo nel settore e li vedesse al contrario come un superfluo terzo incomodo. Ciò che è cristallino a qualunque addetto ai lavori è che nessun birrificio, distributore o pub può vivere solo di bottiglie e lattine consegnate a domicilio prescindendo dall’economia del fusto e dalle diverse marginalità connesse al servizio di mescita.
Abbiamo poc’anzi detto che la pura logica consiglierebbe di non abituare i clienti a fare a meno della parte più importante della propria offerta, se ne deduce quindi che per un pub non sarebbe saggio ricorrere alla consegna a domicilio. Però gli esseri umani non sono meccanismi razionali perfetti e il forzato isolamento domiciliare conduce inevitabilmente ad anelare qualunque occasione di contatto: come i publican hanno bisogno di clienti, anche i clienti hanno bisogno dei loro publican di fiducia e negli ultimi mesi lo hanno spesso dimostrato in modi quasi commoventi. Messaggi, telefonate, offerte di pagamenti anticipati per libagioni da consumare alla riapertura, ordini di bottiglie e lattine anche se la cantina è ancora mezza o del tutto piena: il delivery si è rivelato non di rado un semplice mezzo per un fine più alto e nobile: tenere saldo il legame tra i clienti e il loro locale di fiducia. Si tratta insomma più di veicolare parole ed emozioni che merce, prova ne è anche il grandissimo successo riscontrato dalle dirette via social messe in campo da alcuni publican, sia che si trattasse di degustazioni a distanza che di mini seminari tematici o ancora interviste a protagonisti del settore.
Dando per un attimo per scontato che si stia parlando solo di persone che offrano un servizio qualitativamente valido e siano commercialmente onesti con la propria clientela: perché un proprietario di locale che abbia portato una cassa di birre all’habitué che risiede a 30 chilometri di distanza o che si sia reinventato conduttore radiofonico per tenere compagnia ai suoi clienti e non solo ha riscosso e sta riscuotendo maggiore consenso rispetto a un collega che abbia deciso di fermarsi del tutto attendendo gli aiuti governativi? Non solo per l’istintiva simpatia suscitata dalla tenacia e dalla creatività rispetto all’inazione, ma anche perché ha sopperito a un profondo bisogno di vicinanza, comunicazione e contatto, sia pur virtuale o a un metro di distanza e dietro una mascherina.
Una risposta alle domande quotidiane che gli operatori sono costretti a porsi (“delivery sì o o no?” oppure “solo per le birre o anche per l’eventuale cucina?”) e una ricetta valida per tutti non esiste perché troppo ampio è lo spettro delle differenze tra un locale e l’altro: posizione, tipologia di offerta, organizzazione delle risorse umane e costi fissi sono fattori che giocano un ruolo prioritario nella determinazione della risposta migliore per ciascuno.
L’esperienza di questi lunghi, difficilissimi mesi pare insegnare che gli unici punti di riferimento che un pub deve tenere presente per cercare di attraversare il tunnel siano proprio in primo luogo la necessità di non interrompere mai il contatto, umano più ancora che commerciale, con i clienti più affezionati mettendo magari in campo una strategia comunicativa che consenta di arrivare anche a persone non ancora conosciute o fidelizzate e, secondariamente, valorizzare il proprio fattore di unicità, che è diverso per ciascun locale. In altre parole, ci si deve chiedere: perché un cliente viene nel mio pub e non va in quello di fronte?, e rispondersi con estrema sincerità, facendo molto attentamente la tara da ciò che si vorrebbe essere ma non si è o non si è ancora. È la scelta di birre di una determinata tipologia, ispirazione o provenienza geografica? È l’incessante sperimentazione nel proporre birrifici nuovi? È il cestino di sfiziosità fritte? O la maestosa pizza a lunga lievitazione? O ancora la sapienza dello staff nel consigliare la birra giusta per i gusti di ciascuno? Quale che sia la risposta, lì risiede, molto probabilmente, la speranza di sopravvivenza del proprio locale alla tempesta pandemica.