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I numeri in produzione sono importanti, ma da soli non bastano

Il processo di produzione della birra, che la si faccia in casa o in birrificio, è costituito da una serie molto lunga di passaggi strettamente correlati l’uno all’altro. Si tratta principalmente di portare gli zuccheri dai cereali al mosto e di farli poi fermentare dal lievito per ottenere una bevanda che contiene alcol. Per migliaia di anni questo processo è stato espletato in modo “istintivo”, senza poter valutare quantitativamente quello che stava accadendo. Le uniche misure erano le quantità degli ingredienti utilizzati e quella della birra prodotta. Il resto delle valutazioni rimaneva affidato ai sensi: olfatto, gusto, vista. Oggi molto è cambiato, anche a livello casalingo siamo in grado di misurare molti parametri di produzione. Questo può rendere il processo di produzione quasi straniante, facendoci dimenticare che i nostri sensi dovrebbero rimanere uno strumento essenziale per la valutazione finale della birra. Vediamo quali sono i principali parametri numerici che l’homebrewer si trova a gestire e quanto, spesso, si tenda a dare a questi parametri un significato che trascende quello che invece ci ritroviamo nel bicchiere. 

Colore (EBC o SRM) 

Uno degli aspetti più affascinanti della birra, rispetto ad esempio al vino, è la poliedricità, oltre che del gusto e degli aromi, dei colori con cui si può manifestare nel bicchiere. Il colore rappresenta anche uno dei primi strumenti che si acquisiscono per descrivere una birra quando si approda al bancone: “prendo una rossa media”, “mi piacciono le bionde” o ancora “le birre scure non le gradisco, le trovo troppo pesanti” sono frasi che tutti abbiamo sentito e probabilmente anche detto, sebbene ce ne siamo ormai dimenticati. Del resto, ciò che percepiamo con gli occhi è di fondamentale importanza perché rappresenta l’aspetto della birra che arriva prima al nostro cervello, battendo sul tempo aroma e gusto. Il colore della birra influenza le nostre percezioni, molto più di quanto siamo portati, o addirittura siamo disposti, ad ammettere. Diversi sono gli esperimenti in cui un panel di assaggiatori, spesso anche molto esperti, viene ingannato da un colorante che rende la bevanda che hanno nel bicchiere, che sia vino o birra, di un colore lontano da quello che le percezioni organolettiche dovrebbero veicolare. E così troviamo degustatori che ritrovano la frutta rossa nel vino bianco colorato di rosso, oppure note tostate di caffè in birre Pilsner colorate di marrone. 

bicchieri birra colori

Proprio sul valore numerico del colore si focalizzano spesso gli homebrewer, arrivando a snaturare alcune ricette solo per la soddisfazione, o la mania – chiamatela come volete -, di raggiungere un target numerico. In Europa il colore della birra si misura in EBC, che sta per European Brewing Convention. Viene valutato quantitativamente con uno spettrofotometro attraverso raggi di luce che, una volta sparati nella birra, in parte vengono assorbiti. Le unità di misura vanno, più o meno, da pochi EBC, che indicano un colore molto chiaro tipo giallo paglierino, fino a EBC massimi intorno a 100, che indicano un colore quasi nero. Gli EBC di una birra vengono stimati dal software delle ricette partendo dagli EBC dei singoli malti. Basandosi sulle quantità utilizzate in ricetta, il software stima gli EBC finali della birra che l’homebrewer confronta con quelli target, in genere presi da linee guida ufficiali come ad esempio il BJCP. Il colore di una birra in un determinato stile non è un mondo a sé, ma è intrinsecamente legato al suo profilo organolettico. Una birra scura tendenzialmente avrà aromi di malti tostati, mentre una molto chiara ruoterà attorno alle note di pane e cracker dei malti chiari. Bisognerebbe pensare la ricetta in base al contributo organolettico dei singoli malti, non in base al numero degli EBC che stima il software. Anche perché, appunto, si tratta di una stima, che non sarà comunque misurabile in casa se non grazie al nostro occhio.  Purtroppo, molti homebrewer, anziché concentrarsi sulla ricetta, si concentrano sul colore, cercando di mantenere la birra nelle numeriche visive indicate dal BJCP. Nascono così birre in stile Kölsch con “un tocco di malto Chocolate” per dare un po’ di colore, Imperial Stout di colore marrone chiaro, quasi rosse, per non arrivare a un EBC troppo alto, oppure Belgian Dark Strong Ale di colore ambrato molto chiaro perché gli EBC dello sciroppo di zucchero erano alti e il software ha sballato completamente i calcoli.  Non sto ovviamente dicendo che il colore vada del tutto dimenticato o che i calcoli numerici del software vadano ignorati, ma che è più importante ragionare sul contributo organolettico apportato dai vari malti o zuccheri aggiunti, basandosi sulla propria esperienza o magari, nel caso degli zuccheri, facendo delle prove sciogliendone un campione predefinito in acqua e assaggiando e – soprattutto – guardando il risultato. I nostri sensi ci stupiranno.

Livello di amaro (IBU)

Proprio l’altro giorno stavo ragionando con un amico birraio, ex homebrewer, sulla ricetta di una birra che faremo insieme prossimamente nel suo birrificio. Di nuovo, come era già accaduto in passato in occasione di altre ricette portate in birrificio, non ci siamo trovati d’accordo sul valore numerico dell’amaro. Nella mia versione casalinga della birra mi trovavo con una decina di IBU in più, mentre nell’impianto – e nella ricetta – del birrificio ce ne erano meno. Come mai? Qualcuno di noi sbagliava i calcoli? Be’, sì. Probabilmente entrambi. 

Il livello di amaro di una birra si misura in IBU, le International Bittering Units. L’amaro percepibile al palato va più o meno da 0 fino a 100 IBU. Potrebbe andare oltre, ma il nostro palato sarebbe già saturo e non riuscirebbe a percepirne la differenza. Le IBU rappresentano la concentrazione degli alfa-acidi isomerizzati, ovvero gli alfa-acidi del luppolo che, passando per la bollitura, hanno cambiato struttura geometrica diventando polari e maggiormente solubili. Le IBU si misurano, di nuovo, tramite assorbimento della luce e spettrofotometro. 10 IBU corrispondono a 10 mg/L di alfa-acidi isomerizzati disciolti nella birra. Nella realtà la situazione è un po’ più complessa di così – ci sono spesso altre sostanze amaricanti disciolte nella birra -, ma questa è una approssimazione che può andare bene nella maggior parte dei casi. In casa il livello di IBU non è misurabile, viene solamente stimato. È così anche in molti birrifici, ma a intervalli regolari si manda la birra ad analizzare ricevendo il quantitativo di IBU effettivamente misurato. Birrifici più grandi hanno anche strumenti in grado di misurarlo, ma sono costosi e non applicabili al mondo della produzione casalinga di birra.

Gli homebrewer stimano gli IBU grazie ad alcune formule, le più diffuse sono quella di Rager e quella di Tinseth. Nella maggior parte dei casi, i software per le ricette usano Tinseth. Queste formule hanno dei limiti, perché l’estrazione degli alfa acidi dai luppoli e la loro successiva isomerizzazione durante la bollitura dipende sensibilmente dall’impianto di produzione che si utilizza. Questo parametro, a cui ci si riferisce solitamente come efficienza di estrazione, non può essere calcolato dalle formule per la stima degli IBU ma, anzi, ne costituisce un parametro di input. Un parametro che potrebbe essere determinato, in modo sperimentale, misurando effettivamente le IBU nella birra e confrontandole con quelle stimate dalla formula. Ma questo, per ovvie ragioni, nessun homebrewer si prende la briga di farlo. Il risultato è che una stima di amaro pari a 30 IBU darà risultati sensibilmente diversi da un impianto all’altro. In particolare, in birrificio, dove l’estrazione degli alfa-acidi è probabilmente più efficiente.

E qui torniamo alle riflessioni iniziali. Perché il mio amico birraio mi spingeva a ridurre le IBU nella nostra ricetta? Semplicemente perché conosce il suo impianto, e sa che quel livello di IBU, in una birra prodotta sul suo impianto, produce un certo livello di amaro. Lo sa perché conosce le sue birre, ha un riferimento pratico dell’amaro associato alle IBU che deriva dall’esperienza di assaggio sulle sue birre. Probabilmente avrà anche fatto fare alcune misure in laboratorio, ma il riferimento principale rimane l’assaggio. Anche in questo caso, come nel caso degli EBC, il livello di IBU assoluto conta poco quando si scrivono ricette da produrre in casa. Avremmo sicuramente delle grandi sorprese se facessimo misurare le IBU di una nostra birra in laboratorio e le confrontassimo con quelle stimare dal software. Esistono anche in questo caso diversi esperimenti che portano alla luce questo tipo di incongruenze. Le stime numeriche degli IBU sono quindi inutili? No, assolutamente. L’importante è che le confrontiamo sempre con una scala di intensità che deriva dall’assaggio – il nostro assaggio – di birre prodotte sul nostro impianto. 

Efficienza

Ecco un parametro numerico che assume importanza drasticamente diversa se valutato in casa o in birrificio. Gli homebrewer vanno molto orgogliosi della propria efficienza, ne fanno spesso un punto di merito cercando modi per aumentarla a ogni cotta, come se fosse un indice in qualche modo collegato alla bontà della birra prodotta. Ebbene, non lo è. Si tratta infatti di un parametro complesso, espresso solitamente in percentuale, che indica quanti zuccheri si riescono a estrarre dai cereali che utilizziamo per produrre la nostra birra. In un mondo ideale, senza perdite di processo, l’efficienza sarebbe al 100%. Nella pratica, specialmente in casa, ci si attesta molto spesso su valori più modesti che possono spaziare, per varie ragioni, tra il 60% e l’80%. L’efficienza dipende da molti fattori che influenzano il processo di produzione, riducendo l’estrazione degli zuccheri dai malti o inducendo perdite di mosto zuccherino lungo il percorso di produzione. Con pazienza e attenzione, e spesso anche acquistando apparecchiature costose, si possono notevolmente ridurre le perdite aumentando il valore dell’efficienza. L’attenzione maniacale all’efficienza è la continua ricerca di un miglioramento nella sua percentuale è un approccio tipico dei birrifici, industriali come artigianali. La ragione è presto detta: i cereali costano, più zuccheri si riescono a estrarre a parità di peso dai cereali utilizzati, minori saranno i costi unitari per produrre una birra. Su medi-grandi volumi questo aspetto può fare la differenza nel pricing di una birra in un contesto competitivo saturo di concorrenti in cui si fatica a farsi largo. Un elemento quasi vitale, per un birrificio. 

Tutto questo, tra le pareti casalinghe, non ha una particolare importanza. Non avendo economie di scala di nessun tipo, il risparmio di qualche etto di cereali non influisce in modo significativo sui costi di produzione. Quello che invece è importante in casa è avere una efficienza stabile, ripetibile e prevedibile onde evitare di dover correre dietro alla concentrazione di zuccheri finale (la cosiddetta OG, Original Gravity) ad ogni cotta. Se l’efficienza non è gestita correttamente, ci troveremo ogni volta con una OG diversa da quella prevista, magari anche di parecchi punti, dovendo ricorrere a stratagemmi dell’ultimo minuto per riportarla ai valori desiderati. Queste azioni però non sono a costo zero, sia in termini economici che di qualità del prodotto finito, perché le aggiunte variano la ricetta, alterando i rapporti tra le varie sostanze disciolte nel mosto come proteine, tipologie di zuccheri, unità di amaro, sali disciolti nell’acqua. Questo, sì, può influire sulla qualità finale della birra. Specialmente se l’errore di calcolo è significativo, e l’efficienza effettiva è molto diversa da quella ipotizzata. Su questo aspetto è bene concentrarsi, misurando accuratamente tutte le quantità in gioco durante la cotta per poi fare i calcoli del valore dell’efficienza nel modo corretto. Che poi l’efficienza sia molto alta o piuttosto bassa importa poco, l’importante è avere ben chiaro questo valore, che tra l‘altro può variare significativamente se si sta producendo una birra a bassa o alta densità (in genere con l’aumentare della densità l’efficienza si riduce). 

densimentro

Attenuazione

L’attenuazione misura la variazione della concentrazione zuccherina prima e dopo la fermentazione degli zuccheri da parte del lievito. È uno dei parametri numerici più immediati, uno dei pochi misurabili con relativa semplicità anche in ambito casalingo. Per la misurazione della densità del mosto prima della fermentazione e per quella della birra dopo la fermentazione si utilizza il densimetro o il rifrattometro. Il primo è in genere più preciso, ma richiede un campione di mosto e birra di un centinaio di millilitri. Il secondo, che sfrutta la rifrazione della luce, è più immediato ma spesso porta ad errori se il valore letto non è convertito nel modo opportuno. Entrambi gli strumenti sono facili da utilizzare e alla portata di qualsiasi homebrewer. L’attenuazione, come l’efficienza, è espressa da un numero percentuale: indica la percentuale di zuccheri fermentata dal lievito e convertita in alcol e altri composti durante la fermentazione. Quella che misuriamo in ambito casalingo è l’attenuazione cosiddetta “apparente”, perché l’alcol prodotto durante la fermentazione riduce la densità del liquido falsando la lettura. L’attenuazione misurata è maggiore di quella effettiva, perché una parte della ridotta densità misurata è dovuta all’alcol che diluisce il mosto durante la fermentazione. Non è impossibile quindi ottenere attenuazioni apparenti maggiori del 100%, in quanto se lo zucchero consumasse tutti gli zuccheri presenti nel mosto (producendo una attenuazione “reale” del 100%) produrrebbe anche una significativa quantità di alcol che porterebbe la densità della birra, in questo caso priva di zuccheri residui ma diluita con alcol, sotto al valore della densità dell’acqua. Le misure della densità prendono infatti come riferimento la densità dell’acqua: nel caso citato, la densità finale (Final Gravity, FG) ovvero quella della birra, sarebbe minore di 1,000 (densità dell’acqua presa come riferimento). 

Ma quanto è importante l’attenuazione? Molto, verrebbe da dire, dato che regola la quantità di zuccheri che restano nella birra a fine fermentazione e quindi, di conseguenza, la dolcezza residua e anche il corpo della birra. Questo è vero, da un punto di vista teorico, ma il contributo degli zuccheri complessi – quelli che rimangono a fine fermentazione – alla dolcezza residua e al corpo della birra è meno significativa di quanto si sia portati a pensare. Questo, appunto, perché sono zuccheri complessi, con peso molecolare più alto rispetto agli zuccheri semplici. La dolcezza percepita è decisamente minore di quanto possa essere quella di uno zucchero semplice, come fruttosio, saccarosio o destrosio, che invece vengono sempre consumati al 100% durante la fermentazione. Ma dato che l’attenuazione è uno dei pochi valori facilmente misurabili quando si produce birra in casa, l’homebrewer si fissa sul suo valore al punto da influenzare le proprie percezioni all’assaggio della birra. Ed ecco quindi che una birra con attenuazione magari dell’80% diventa subito molto più dolce all’assaggio della stessa birra dove magari si è registrata una attenuazione del 75%. Ed ecco che anche l’attenuazione, come l’efficienza, diventa una fissazione al rialzo per l’homebrewer. Si trasforma in un parametro di qualità e non di processo: birre più attenuate diventano automaticamente più buone, l’homebrewer diventa automaticamente più “bravo” perché riesce a ottenere alte attenuazioni dai suoi lieviti. Purtroppo la realtà è molto più complicata di così. Il bilanciamento finale della birra, così come il corpo, dipendono da una moltitudine di fattori, e gli zuccheri residui costituiscono una piccolissima componente. Solo il nostro palato, con una attenta valutazione, saprà dirci se il bilanciamento della birra è corretto per lo stile e se incontra le nostre aspettative. L’attenuazione misurata è solo un minimo pezzo del puzzle, non è in alcun modo l’obiettivo finale. Anche in questo caso sono stati fatti esperimenti sul tema, assaggiando birre alla cieca dove man mano venivano aggiunte maltodestrine (zuccheri complessi). È stato rilevato come difficilmente gli assaggiatori riuscissero a percepire una differenza tra le birre prima che l’aumento della densità determinato dall’aggiunta di maltodestrine non superasse la doppia cifra.