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Fare la birra in casa: quale metodo scegliere?

Nel mondo della birra artigianale le persone si dividono in due categorie: gli homebrewers e tutti gli altri. Alla stessa maniera i primi possono essere catalogati in altrettante famiglie: i “filo-professionisti”, attrezzati fino al più inutile strumento e con addirittura intere zone della casa dedicate all’alcolico hobby, e i “filo-casalinghi”, ovvero coloro che, magari alle prime armi, si dilettano con attrezzature – pentole, mestoli e fornelli – presenti nelle cucine di mamme e compagne. La seconda categoria si trova spesso costretta a peripezie birrarie proprio per mancanza di spazi da dedicare alla birrificazione, facendo di necessità virtù. Io stesso birrifico oggi in 80 metri quadri con un pavimento “brand new” levigato al quarzo e un impianto in acciaio automatizzato, ma per molti anni le mie strumentazioni sono stati gli attrezzi della zia per fare le conserve, lo spazio era un cortile e, negli anni universitari, un cucinino di due metri per quattro. Proprio quest’ultima esperienza mi ha però dimostrato come non sempre condizioni migliori portano alla produzione di birre migliori. Ovviamente la birrificazione in ambienti risicati induce a utilizzare tecniche alternative, che permettono di lavorare con volumi ridotti e di ottimizzare l’utilizzo degli spazi.

 

Kit

La scelta di un kit amaricato è preferibile perché facile da utilizzare. Di solito contiene in pratica tutti gli ingredienti necessari alla birrificazione, richiedendo al tempo stesso una strumentazione limitata: sono sufficienti una pentola dove sciogliere il preparato, un mestolo e il nostro fermentatore di plastica da neofiti. La caratteristica principale che lo rende adatto all’Apartment Brewing è senz’altro la possibilità di non dover effettuare alcuna bollitura, eliminando il bisogno di grosse pentole e potenti fornelli. L’estratto luppolato si può sciogliere in una quantità di acqua anche relativamente bassa: quella contenuta in una pentola è già sufficiente per diminuirne drasticamente la densità. Eventualmente la si può mettere su di un fornello acceso, in modo che man mano che aggiungiamo l’estratto il contenuto si intiepidisca facilitandone lo scioglimento. Travasato il tutto nel fermentatore si prosegue aggiungendo la restante parte di acqua, avendo cura di tenere separati i depositi sul fondo.

Estratto + Grani

La tecnica che utilizza estratto non luppolato aggiunge un grado di difficoltà maggiore: la bollitura del mosto con il luppolo, che rischia di creare problemi di gestione del nostro birrificio casalingo. Con alcuni piccoli accorgimenti è tuttavia possibile utilizzare in maniera efficiace le poche attrezzature reperibili in cucina, vedi una pentola grossa da pasta, il fornello più potente e un mestolo. L’utilizzo dell’estratto non luppolato richiederebbe per una classica ricetta homebrewer una quantità di mosto di circa 24 litri. Il primo consiglio è di effettuare batch più piccoli, sui 10-15 litri, risolvendo in parte il problema dei volumi. Per adattare le ricette a questi formati è sufficiente diminuire malto e luppolo in maniera proporzionale rispetto ai quantitativi di partenza. Se per un mosto da 24 litri necessito ad esempio di 4 kg di estratto liquido di malto e 20 grammi di luppolo, per 10 litri avrò bisogno di 1,66 kg di estratto e 9 grammi circa di luppolo. La quantità di lievito rimane invece costante – una bustina – perché non ci sono differenze sensibili a livello di prodotto finale, né sarebbe consigliato conservare la parte rimanente per una cotta successiva a causa del rischio di contaminazioni. La prima idea che potremmo sfruttare è utilizzare meno acqua di quella necessaria, producendo un mosto a più alta densità che andremo poi ad allungare in fase di trasferimento nel fermentatore. Nell’esempio precedente potremmo diluire 1,7 kg di malto in 4 litri di acqua, in modo da poter utilizzare una normale pentola da cucina. Al tempo stesso la bollitura potrà avvenire in maniera vigorosa, cosa più difficile al cospetto di volumi maggiori per via della limitata potenza dei fuochi. Possiamo tuttavia migliorare questa procedura applicandone una seconda, un po’ più ragionata. Quanto visto fin’ora non aiuta infatti a produrre birre fedeli alle ricette per due ordini di motivi. Il primo riguarda l’effetto amaricante ceduto in fase di bollitura: i mosti più densi richiedono infatti maggiori quantitativi di luppolo per raggiungere lo stesso livello di amaro. Se andassimo a sciogliere tutto il malto in pochi litri d’acqua (per poi diluirlo nel fermentatore con la parte di liquido rimanente) e lo facessimo bollire con la giusta quantità di luppolo come da ricetta, il risultato sarebbe una birra sensibilmente più dolce al palato e meno profumata. Il secondo motivo riguarda il malto: durante la bollitura nei mosti più concentrati si creano infatti una serie di effetti derivanti dalla ben nota Reazione di Maillard, principalmente una maggiore caramellizzazione dello zucchero che va ad influire sul gusto (con mosti più dolci), sulla resa alcolica (gli zuccheri caramellati non vengono trasformati in alcool) e ancora sull’aspetto visivo (i composti caramellati scuriscono i mosti, che virano sull’ambrato rendendo difficile la produzione di birre chiare). Per ovviare a tutto ciò possiamo adottare una tecnica conosciuta come “Late Extract Addition”, ossia l’aggiunta post-bollitura della quantità di malto rimanente, in modo da portare il mosto alla densità desiderata. Mi spiego meglio. Abbiamo detto che mosti troppo densi producono birre diverse rispetto alla ricetta originale. Riprendendo i dati dell’esempio sopra, 10 litri di birra con l’aggiunta di 1,7 kg di malto producono un mosto da circa 1050 OG: se diluiamo l’estratto in 4 litri la densità iniziale schizza a 1130, pari a quella dei più forti barley wine. La tecnica dell’aggiunta di malto post-bollitura sfrutta il fatto che lo stesso non necessita di bollitura ulteriore: potremo così creare un mini mosto identico a quello finale con densità sui 1050 OG in cui far bollire il luppolo, circa 0,7 kg per 4 litri. Una volta portato ad ebollizione aggiungiamo il luppolo per il tempo necessario: travasato il tutto nel fermentatore potremo – anche nella medesima pentola – aggiungere acqua, facendo sciogliere la quantità restante di malto. Travasata anch’essa andremo ad unire la quantità di acqua residua fino a raggiungere i litri desiderati, mescolando bene e inoculando il lievito.

Partial Mash

Il Partial Mash è una tecnica intermedia tra l’Estratto+Grani e l’All Grain (AG). Consiste nell’effettuare un piccolo ammostamento di una miscela di grani base e grani speciali al pari di una birra All Grain, aggiungendo poi l’estratto di malto necessario a raggiungere la densità desiderata. Il grosso vantaggio consta nel fatto che la procedura richiede quantità e volumi estremamente ridotti rispetto a una classica cotta All Grain, come ridotta è la potenza calorifica necessaria, che rende la produzione adatta ai fornelli da cucina. I vantaggi sono anche qualitativi: le varietà di grani base e speciali a differenza degli estratti sono infatti molto ampie, elemento che permette al birraio di ampliare il profilo aromatico della birra con tutte quelle caratteristiche complesse che solo un mash di grani macinati riesce a evidenziare.

 

No Sparge All Grain

La tecnica dell’All Grain è senz’altro la più interessante e personalizzabile per la produzione casalinga. Come “contro” richiede però spazio, attrezzature e tempo: non è insomma la più adatta per birrificare in appartamento, vuoi per gli ambienti comunque limitati, vuoi per la prolungata occupazione degli stessi (un batch dura anche più di 8 ore, il che significa sequestrare la cucina per una giornata intera). Chi ne ha possibilità opta spesso per mini batch da 10 litri circa: le proporzioni di malto e luppolo si calcolano come descritto nel paragrafo dedicato all’Estratto+Grani. Volumi inferiori aiutano non solo a rendere più rapido il riscaldamento delle masse, ma anche il loro raffreddamento, passaggio un po’ più delicato nella tecnica All Grain. Un aiuto per risparmiare tempo e attrezzature viene dall’utilizzo di un’altra tecnica di ammostamento, che non prevede la fase di sparging. Lo sparging si adotta in genere perché, durante la separazione delle trebbie dal malto, molti zuccheri rimangono “intrappolati” non sciogliendosi nella parte liquida; lavando le trebbie con acqua calda se ne aiuta l’estrazione, aumentando la resa finale del mosto. Par fare ciò il birraio necessita però di ulteriori contenitori e fuochi: per scaldare l’acqua di sparge a 80°C e per poter controllare il flusso di mosto in uscita, con il conseguente dosaggio della corretta quantità di acqua aggiunta (e dunque un’altra ora almeno da dedicare al processo). Va da sé che rinunciando a tale procedimento non recupereremo questi zuccheri residui: uno svantaggio facilmente ovviabile unendo in ricetta una maggiore quantità di malto base pils o pale, o ancora qualche etto di zucchero da cucina.