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Di birra artigianale non si muore: il caso Pombe

A ben vedere, l’uomo è un animale alquanto strano. Tra i suoi comportamenti irrazionali e ricorrenti rientra quello di cadere preda di ciclici timori collettivi: l’esigenza insomma di sentirsi periodicamente minacciato di morte. E così, campo libero al millenarismo, alle psicosi, alle minacce cataclismatiche… In questi giorni le cronache (si veda qui un “brillante” esempio), offrendoci un ennesimo caso di cattiva informazione dettata dall’esigenza di titoli “cattura click”, danno ampio spazio a quella che corre il rischio di trasformarsi in paranoia virale: c’è una birra artigianale che uccide! Ora, la vicenda merita di essere ripresa e approfondita, perché contrassegnata da questioni di congruenza (e incongruenza) sia lessicale, sia contenutistica.

Lo spunto è dato dal decesso – a Chitima, in Mozambico (costa est della parte sud del continente africano) – di ben 75 persone, intossicate dopo aver bevuto del pombe, una bevanda alcolica tipica di quelle latitudini: nella fattispecie prodotta con farina di mais che, dopo l’inondazione da parte di acqua piovana dei magazzini in cui era contenuta, si era batterizzata con contaminazione da Burkholderia gladioli.

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Il microorganismo (questa la ricostruzione degli organi inquirenti), durante la fermentazione ha sviluppato forti quantità di tossine, tali appunto da provocare la strage. Peraltro, va detto, che la farina incriminata era inadatta al consumo diretto, e questo era noto al proprietario del deposito; il quale però ha pensato bene di ricavarne del pombe. Ma questo è proprio uno dei punti critici rispetto al modo in cui il fatto, tragico, è stato raccontato: l’appena citato pombe viene infatti presentato come birra artigianale. E allora, corre l’obbligo di precisare.

Primo, le fonti reperibili attestato due ricette: una a base di mais (con eventualmente miglio a integrare), una a base di banana, prevedendo processi di fermentazione spontanea. In entrambi i casi, non si può parlare tecnicamente di birra: perché non può definirsi tale una bevanda ricavata integralmente da mais (o da mais e miglio), né, tantomeno, da banane. E se la fermentazione spontanea non è certo sconosciuta alla filiera brassicola (che anzi ne cotempla fior di tipologie, dai Lambic alle Wild Ales), qui la sia applica comunque a mosti d’orzo e frumento.

Secondo. Le stesse fonti d’altra parte, è vero, definiscono il pombe come birra di (mais o banane); quantomeno come preparato fermentativo simile alla birra. Si tratta però di evidenti semplificazioni atte a dare, di quel prodotto, un’idea forse approssimativa ma meglio comprensibile per chi (come il pubblico occidentale) non abbia familiarità con quelle tradizioni. Anche uno stile brassicolo ben noto si chiama Barley Wine, cioè vino d’orzo: ma è chiara a tutti la natura metaforica dell’espressione; nessuno lo confonderebbe mai con un vino in senso effettivo. Il sidro non viene forse dipinto, talvolta, come vino di mele? Ma anche qui il senso allegorico della formulazione è evidente, inequivocabile. Di più: altre fonti chiamano il pombe come vino di banane; eppure a nessuno – da noi – è venuto in mente di poter indicare, come responsabile della strage mozambicana, un vino casalingo

Terzo. Dai due punti precedenti, discende come l’enunciazione falsa e irresponsabile una birra artigianale uccide 75 persone sia causa ed effetto di fraintendimento, assimilando – nella percezione della notizia da parte di un lettore non perfettamente a conoscenza della materia brassicola – il pombe a tutti quei prodotti che il movimento craft internazionale prepara, giorno dopo giorno, con dedizione e professionalità, nel totale rispetto di norme igieniche e senza timore di contaminazioni nocive (semmai “benefiche”).

Infatti – ed è il quarto punto – è assodato fin dai tempi del già menzionato Lambic come la birra sia in realtà il risultato finale di una catena di lavorazioni che la rendono microbiologicamente affidabile: tanto che è noto come nella storia, proprio per i suoi requisiti in termini di salubrità, la si consumasse in alternativa ad esempio all’acqua (i pozzi non di rado erano inquinati).

Occorre insomma prestare attenzione perché allarmismi, al tempo dei social e dei blog, possono fare ingiustamente male anche ad una categoria, quella artigianale, avvantaggiando l’industria che addirittura potrebbe vantarsi della pastorizzazione, principale causa della morte organolettica della birra, sventolandola come unico baluardo della salute e dell’igiene.