CSI, sulla scena del crimine (birrario)
Garrett Oliver, mastrobirraio americano di Brooklyn Brewery famoso per il suo libro “The Brewmaster Table”, ha recentemente creato un certo scompiglio con il suo articolo sui “crimini contro la birra”. Vorrei discuterne i cinque punti principali aggiungendo alcune mie considerazioni in proposito.
Il birrificio
Viene naturale pensare che nel luogo di produzione ci si prenda cura dei propri prodotti. In generale ciò è vero ma non sempre è così, e alcuni esempi chiariranno meglio la mia affermazione. Certi birrifici, nello sforzo di imitarne altri, utilizzano bottiglie trasparenti che portano quasi automaticamente al cosiddetto “light struck” (colpo di luce o effetto luce), con il serio rischio di mettere a repentaglio la qualità del prodotto finale. Una situazione che, almeno in parte, migliora con il ricorso a bottiglie di vetro scuro, in genere verdi. Un altro “delitto” riguarda il confezionamento, che alcuni birrifici tarano sulle esigenze dei mercati stranieri anche quando la birra non è prodotta per quegli stessi mercati. Una Belgian Ale è ad esempio pensata per essere servita con CO2, non per essere infustata come cask conditioned o con l’azoto, procedure che finiscono con l’influenzare negativamente sia i profumi che il gusto tipici della tipologia. Altro aspetto: l’igiene deve essere l’imperativo, e uno scarafaggio morto non dovrebbe mai trovarsi a galleggiare nella mia birra (esempio di vita vissuta). Altro “crimine”: in molti Paesi non è obbligatorio riportare alcune informazioni in etichetta, che sono invece utili per il consumatore. Prendiamo ad esempio gli USA. Fino a poco tempo fa (ed è ancora così in alcuni Stati) non era permesso riportare il grado alcolico, un dato fondamentale per poter “capire” una birra. Sempre negli States la frase “Da consumarsi preferibilmente entro” (la data di scadenza) dev’essere riportata sulla confezione, ma non c’è l’obbligo di stamparla sulle singole bottiglie, cosa che rende facile vendere birre vecchie e ormai “stanche”.
Il trasporto
Per i birrifici industriali questo non rappresenta un problema poiché tutto viene pastorizzato, ma nel caso delle produzioni artigianali le cose si complicano, lasciando sempre tracce dietro sé. In origine tali birrifici erano di piccoli dimensioni e rifornivano solo le comunità locali. Gradualmente però, soprattutto a partire dal XX secolo, nuovi e più efficienti mezzi di trasporto (la ferrovia prima, i camion poi) hanno portato le birre ad essere distribuite sempre più lontano. Ma il lievito è un organismo vivente e necessita di un ambiente specifico e abbastanza stabile per sopravvivere. Il trasporto normalmente avviene per mezzo di camion non refrigerati, e più a lungo stanno sulla strada, più aumentano le possibilità che si compia un vero e proprio crimine. I rilevamenti fatti da alcuni amici birrai belgi hanno dimostrato che le temperature, in certi viaggi attraverso gli USA, variano dai -2° ai 50°: è superfluo dire che questo ha effetti deleteri sul lievito, che morendo darà origine a spiacevoli sensazioni di ossidato nella birra. Allo stesso modo le alte temperature influiranno anche sui luppoli. Benché non sia provato scientificamente al 100%, molti autorevoli personaggi del settore indicano proprio le alte temperature e la loro forte oscillazione come causa di quello sgradevole sapore di formaggio che spesso sentiamo nelle birre americane che si trovano in Europa.
Grossisti e negozi al dettaglio
Molta birra viene venduta nei negozi, ed è facile che il crimine si compia proprio in questi posti, magari a causa della temperatura dei locali. Se la birra è conservata in ambienti che hanno escursioni di 20°-30° nell’arco di una giornata (per esempio a causa dell’insolazione diretta del tetto) la stessa sarà inevitabilmente uccisa.
Bisogna considerare inoltre che la luce gioca un ruolo molto importante. Se la birra è conservata in un frigo illuminato costantemente da luci UV, o illuminato direttamente dal sole, il “colpo di luce” di cui sopra si verificherà di sicuro. Se una certa marca non vende bene può inoltre succedere che una bottiglia resti sullo scaffale per secoli: inutile sottolineare come una birra vecchia avrà perso la sua frizzantezza e sarà caratterizzata da un odore di ossidato e di cartone. Altro grosso problema, primo punto giustamente sottolineato da Garrett Oliver, è la totale mancanza di cultura birraria di molti venditori, che conoscono magari bene il mondo del vino, a volte del whisky, ma sanno poco o nulla delle birre che vendono. Spesso queste persone si giustificano dicendo che è difficile reperire notizie sulle birre, motivazione abbastanza ridicola visto che ogni birrificio ha le proprie informazioni pronte e facili da consultare, molte volte semplicemente collegandosi via internet.
Pub e ristoranti
Quanto detto appena sopra vale anche qui. Possono essere compiuti ancora più crimini di quelli già visti, molti legati al modo in cui la birra è servita. Non solo numerosi soggetti che lavorano in pub e ristoranti non hanno alcuna conoscenza del settore, ma non hanno neanche idea di come una birra debba essere servita. Stili differenti richiedono accorgimenti diversi: una lager può essere versata in una sola volta, ma una birra rifermentata in bottiglia richiede un servizio più lento e accorto, che lasci il sedimento all’interno della bottiglia, e sia la birra che la stessa bottiglia vanno portate al cliente. Una birra belga in fusto deve essere spillata in una volta sola, ma una birra tedesca deve essere versata in più volte, cosa che richiede alcuni minuti, e via dicendo. Un altro delitto può essere compiuto grazie a un bicchiere sbagliato. I birrai solitamente forniscono bicchieri specifici per altrettanto specifiche tipologie di birra. Alcuni sostengono che sia solo marketing, ma c’è senza dubbio differenza. Vi consiglio di fare questa prova con una Westmalle Tripel: mettetela nel suo bicchiere ufficiale, in un calice da vino e in una pinta. Sentirete la differenza nell’odore e nel gusto, resterete stupiti. A ogni birra dunque il suo bicchiere, e per favore salvateci da quelli che servono una Orval in un calice di Leffe.
I bicchieri sporchi sono causa di altrettanto deprecabili “crimini birrari”. Ciascun bicchiere dev’essere “pulito da birra”, che vuol dire più pulito del pulito semplicemente alla vista. Ogni residuo (ad esempio rossetto o grasso) farà decadere troppo velocemente la schiuma, che non è solo parte della presentazione visiva di una birra, ma regala una diversa espressione di consistenza e gusto.
Non c’è poi insulto maggiore che raffreddare il bicchiere. La birra dovrebbe essere sempre servita alla giusta temperatura, se si raffredda anche il bicchiere diventa troppo ‘ghiaccia’, uccidendo molti dei suoi profumi ed aromi. Motivo per cui i gestori più accorti hanno frigoriferi impostati a temperature diverse. Un altro delitto si compie nel momento in cui non ci viene portato quello che si ordina: se chiedi una trappista non dovresti ricevere una birra d’abbazia, se chiedi una De Koninck non ti dovrebbero dare una Palm o un’altra Spécial Belge. Motivo per cui è sempre meglio chiedere di avere anche la bottiglia oltre al bicchiere. Un corpo estraneo che non dovremmo mai trovare è quello di un insetto nella nostra birra. Possiamo parlare di “mosche da bar” (inteso come persone che lo frequentano regolarmente), ma ci si aspetta che le mosche non volino in un bar, e soprattutto nel nostro bicchiere. Un bar è una zona con divieto di volo: le mosche sono insetti che si trovano sui cadaveri d’interesse dei detective della omicidi, non dei beer-tasters.
I Media
In generale c’è una certa mancanza di stampa dedicata. Il pubblico è sempre più interessato alla birra e cerca sempre qualcosa da leggere sull’argomento, preferibilmente qualcosa di oggettivo. Tuttavia ci sono pochi buoni libri facilmente reperibili e comprensibili ai più. Inoltre, fino a pochi anni (o mesi) fa, i media raramente dedicavano un servizio alla birra. Ogni quotidiano ha una rubrica dedicata al vino, al whisky o ai sigari, ma quasi nessuno ne ha una dedicata alla birra. Fortunatamente le cose stanno lentamente cambiando.
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Articolo tratto da Fermento Birra Magazine n. 6