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Che bella birra! Quanto conta l’estetica

Quando l’esclamazione del titolo o una di analogo significato viene pronunciata in una conversazione tra appassionati o addetti ai lavori difficilmente l’aggettivo bella sarà inteso nel più comune significato alludente a positive qualità estetiche. È infatti assai più probabile che il referente intenda piuttosto lodare l’equilibrio gustativo, l’eccellenza organolettica e la gradevole fruizione di ciò che ha nel bicchiere.

Anche se ci rivolgiamo alla letteratura e ci gustiamo la meravigliosa descrizione che lo scrittore vittoriano Thomas Hardy dedica, nel suo romanzo The Trumpet Major, a una Strong Ale bevuta all’epoca nella sua terra, il Dorchester (e fu proprio questo passo letterario ad ispirare al birrificio Eldridge Pope la creazione della Thomas Hardy Ale nel 1968 per il quarantesimo anniversario della morte della scrittore), assistiamo a un’elegante sinestesia che fonde le suggestione visive ed estetiche a quelle gustative: 
Era del colore più bello che l’occhio di un artista potesse desiderare per una birra: robusta e forte come un vulcano; piccante, senza essere pungente; luminosa come un tramonto d’autunno; dal sapore uniforme, ma, alla fine, piuttosto inebriante. Il popolo l’adorava, la gente per bene l’amava più del vino”.

Eppure l’esame visivo, per quanto meno impattante rispetto a quello olfattivo e gustativo e a volte per questo sottovalutato o liquidato con eccessiva superficialità, è un elemento imprescindibile di ogni degustazione tecnica e se ben svolto può fornire informazioni decisive sullo stato di salute della nostra birra. Il publican e il consumatore esperto, ad esempio, hanno ormai appreso che una tonalità tra il rosaceo e il grigiastro presenti in una birra chiara sono il sinistro sintomo di un’ossidazione che ha ormai pregiudicato il prodotto. Inoltre l’estetica, pur ricoprendo un ruolo probabilmente minoritario rispetto al piacere (o al dispiacere) donato dalla bevanda al naso e al palato, ha un’indubbia influenza nel determinare il successo o lo scacco di una tipologia o di un stile ed è oltremodo interessante notare come i canoni estetici delle birre, esattamente come quelli relativi alle umane silhouette, ai capi di abbigliamento e agli elementi architettonici, mutino notevolmente a seconda delle latitudini e delle epoche.

Rendere visibili le forze dell’invisibile
Il pittore Paul Klee definì in questo modo l’arte figurativa ma anche la nostra bevanda preferita è stata per lunghi secoli, di fatto, invisibile: tanto le rudimentali tazze di terracotta quanto i più raffinati e decorati boccali di ceramica o peltro, nascondevano infatti alla visita lo spumoso nettare e sia che svolgesse il ruolo di pane liquido e indispensabile integrazione della dieta quotidiana delle classi più povere o che, al contrario, fosse uno dei numerosi ingredienti dei banchetti riservati alla ristretta cerchia degli abbienti, non erano certo colore, trasparenza e schiuma ciò che più interessavano in una birra quanto piuttosto il valore nutritivo e la capacità di alleviare le fatiche quotidiane in un caso, l’eleganza gustativa e il potere inebriante nell’altro.

Un’esperienza analoga a quella quotidianamente vissuta dai nostri antenati può essere esperita nella storica birreria Augustiner Bräu Salzburg Mülln di Salisburgo: l’unica birra disponibile annualmente, una Märzen di stampo bavarese (in Austria generalmente il termine Märzen indica ciò che in Germania viene chiamato Helles, ma Salisburgo è, non solo geograficamente ma anche culturalmente, un angolo di Baviera incuneato in Austria) viene libata in robusti e pesanti boccali di ceramica e non esiste servizio al tavolo.

Ciascun cliente infatti preleva da una mensola il proprio boccale, che utilizzerà per la sua intera permanenza ad uno dei tavoli della gigantesca birreria, e va a rifornirsi dagli addetti alla spillatura, che avviene rigorosamente da botte a caduta: tanto il bicchiere quanto le luci soffuse e crepuscolari della stube sotterranea rendono di fatto impossibile qualunque velleità di esame visivo, a meno di alzarsi in piedi su una panca avvicinandosi così ad uno dei lampadari e provare ad osservare in questo modo il liquido, dopo aver svuotato almeno un terzo del boccale.

La svolta storica verso la visibilità della birra è avvenuta con la maggiore diffusione del vetro grazie all’industrializzazione della sua produzione e alla conseguente riduzione dei costi, che lo hanno reso un bene di uso quotidiano e non più un lusso riservato ai più ricchi o alle occasioni speciali. I principali centri studi da cui si è sviluppata la moderna tecnologia del vetro sono stati entrambi tedeschi: l’officina di Joseph Fraunhofer a Benediktbeuern, nel sud della Baviera, e il laboratorio di tecnologia del vetro fondato nel 1884  da Carl e Roderich Zeiss a Jena, in Turingia, non lontano dal confine boemo. Geografia e cronologia non mentono: il bicchiere di vetro (o del più prezioso cristallo, di cui la Boemia è una tradizionale produttrice) ha infatti avuto un ruolo di primo piano nella costruzione del successo mondiale della Pils, la tipologia che ha rivoluzionato totalmente la storia della birra dopo aver mosso i suoi primi passi a partire dagli anni Quaranta del XIX secolo. Con l’epopea della birra di Plžen per la prima volta nella storia l’estetica è infatti entrata di prepotenza tra i fattori determinanti per il successo di una tipologia birraria e ha avuto un impatto dirompente perché ha impresso nell’immaginario collettivo dell’intera umanità l’archetipo visivo della birra come bevanda chiara, limpida e spumosa.

Se il colore chiaro, connesso all’uso di malti tostati a basse temperature e contraddistinti da profumi e gusti più delicati, ha innescato una preferenza globale e che, al momento, pare irreversibile (il 90% delle birre bevute in ogni istante nel mondo è rappresentato da lager chiare, filtrate e poco alcoliche) il grado di limpidezza e la presenza più o meno abbondante di schiuma sono elementi estetici in cui le differenze culturali e storiche giocano un ruolo piuttosto rilevante.

Il fascino discreto della schiuma
Spesso sono le condizioni oggettive di vita a plasmare le preferenze, anche estetiche, di un popolo: se gli Yupik dell’Alaska occidentale sono in grado di definire novantanove diverse formazioni di ghiaccio e i bambini egiziani emigrati in Inghilterra a inizio Novecento stupivano i loro coetanei inglesi perché definivano “belle giornate” quelle piovose, non possiamo essere troppo sorpresi che, nel mondo birrario, la schiuma piaccia a chi è abituato a vederla fin dall’infanzia. Così se in Germania, Repubblica Ceca e Belgio, terre di birre dalla carbonazione vivace, un bicchiere servito senza la sua spumosa corona viene guardato con sospetto e fa porre subito seri dubbi circa l’abilità dello spillatore, sulle isole britanniche la lunga tradizione di ale dalla bassa frizzantezza ha condotto i bevitori a considerare indesiderabile la schiuma anche dove dovrebbe esserci: così, in ossequio a questa disabitudine al bianco cappello le già non memorabili lager industriali continentali che troppo spesso la fanno da padrone nelle spine e nelle ordinazioni dei pub d’oltremanica relegando le Real Ale servite a pompa nell’angolo degli anziani e dei nostalgici vengono rese ancora più discutibili, sul piano tanto estetico quanto organolettico, perché servite in bicchieri a loro inadatti come pinte e nonic e per giunta un solo di dito di schiuma. 

E in Italia? Malgrado la cultura generale in tema brassicolo si sia indubbiamente evoluta parecchio, capita ancora troppo spesso che il cliente occasionale ponga al coscienzioso publican che ha spillato una Pils, una Weizen o una Tripel con il loro bel cappello di schiuma quesiti come ma non è che mi hai dato poca birra? Mi daresti un cucchiaino per togliere un po’ di schiuma? Devo aspettare che scenda la schiuma prima di bere? Domande che, naturalmente, il bravo gestore deve sempre affrontare con pazienza e gentilezza ma che denotano da un lato il timore costante di essere vittima di una frode commerciale, memoria ancestrale di quando nelle osterie si serviva il vino sfuso al calice e il cliente pretendeva che il bicchiere fosse riempito fino all’orlo anche a costo di doversi cimentare in complicate manovre cervicali e grotteschi risucchi per libare i primi sorsi, dall’altro una scarsa confidenza con la bevanda e con la proprietà fisica del liquido di scivolare sotto la schiuma ed essere così fruibile senza inutili attese. È molto interessante notare come alle nostre latitudini sia il pubblico femminile, più sensibile al fattore estetico e più disponibile ad acquisire informazioni ed abbracciare nuove abitudini, ad apprezzare maggiormente la bellezza di un maestoso cappello di schiuma a coronamento di una birra ben spillata.

Limpida o torbida?
Anche in tema di limpidezza e trasparenza nel bicchiere i grandi Paesi di tradizione birraria rivelano criteri estetici tutt’altro che univoci: nelle isole britanniche, Inghilterra in primis, il bevitore apprezza una birra che sia il più possibile limpida. Si tratta di una convinzione che affonda le sue radici nella tradizione del servizio a caduta da cask: velatura e torbidità erano infatti avvisaglie di come il recipiente di servizio fosse ormai agli sgoccioli e le ultime pinte erano, ovviamente, le meno ambite a causa dell’alterazione gustativa causata dall’ossidazione, nonché dai residui di lievito o di luppolo. Non dimentichiamo, a questo proposito, che la tecnica del dry hopping nasce proprio nel mondo britannico con l’inserimento di fiori di luppolo nei cask. Per questo motivo che solo nel mondo britannico è consolidato fin da epoca preindustriale l’uso di additivi naturali aggiunti alla birra per facilitare la precipitazione delle particelle proteiche, di lievito o luppolo: si tratta dei finings come irish moss o isinglass, quest’ultimo sempre meno diffuso a causa della sua origine ittica che lo rende incompatibile con le diete vegetariana e vegana.

In Belgio, patria di ceppi di lievito poco flocculanti che tendono a lasciare una certa opalescenza nella birra finita, la limpidezza non è invece un fattore a cui il bevitore presti più di tanto occhio mentre gli appassionati di altre nazioni, Italia in primis, tendono a guardare con una certa diffidenza una birra in stile belga che risulti eccessivamente limpida, in particolare se si tratta di una Saison o di una Wit: in quest’ultimo caso, infatti, le proteine del frumento contribuiscono a generarne la tradizionale e desiderabile lattiginosità.

La Germania è la nazione in cui più vediamo una conciliazione degli opposti: la Baviera, o, per essere più precisi, il Bayerischer Wald, la boscosa regione al confine con la Repubblica Ceca, che per questo motivo contende ai bavaresi la paternità dello stile, è infatti la patria delle Weizen, ovvero l’unico stile tradizionale in cui sia ammessa una vera e propria torbidità.  Ma nella stessa Baviera hanno avuto origine le Kristallweizen, le varianti filtrate perfettamente limpide che hanno diffusione e mercato pressoché solo nella loro terra d’origine ove sono gradite in particolar modo per l’aperitivo o in abbinamento a insalate e piatti molto leggeri. La prima è stata prodotta dal mastro birraio Wilhelm Zeitler per il birrificio Farny nel 1924, significativamente nel pieno della rivoluzione iniziata sull’ultimo scorcio del XIX secolo grazie alle Pils e ai bicchieri in vetro. Rimanendo nell’ambito delle alte fermentazioni teutoniche, è opportuno ricordare come a Colonia il disciplinare formulato dal Kölner Brauerei-Verband imponga la filtrazione come uno tra i requisiti necessari per definire una birra Kölsch. Ciò testimonia il gradimento per la limpidezza da parte dei bevitori della città renana e implica non solo che tutte le birre artigianali italiane ispirate a quelle di Colonia abbiano un motivo anche stilistico e non solo giuridico per non poter impiegare il termine Kölsch ma anche che una birra prodotta nella città ma non filtrata debba essere chiamata in altro modo: infatti il termine apposito è Wiess, ovvero “bianca” in dialetto locale. 

Anche in tema di lager assistiamo alla serena accettazione di una “doppia verità”: le birre etichettate come Helles, Pils, Dunkel e Märzen sono infatti, per legge, filtrate e, di conseguenza, il consumatore si aspetta nel bicchiere una perfetta limpidezza e giudica male anche la minima traccia di opalescenza o velatura. Anche al concorso European Beer Star, che si svolgono attualmente a Gräfelfing nella sede della Doemens Akademie, i giudici sono chiamati a valutare con attenzione l’aspetto delle birre iscritte in queste categorie al fine di escludere birre non filtrate eventualmente presenti. Quando però gli stessi stili sono proposti in versione Keller o Zwickl e quindi senza che sia avvenuto il processo di filtrazione viene tollerata anche una velatura abbastanza spinta: a questo proposito è opportuno ricordare la distinzione tradizionale, poco conosciuta in Italia, tra i due termini poc’anzi citati. Keller, che letteralmente significa “cantina”, dovrebbe indicare una lager maturata a lungo (almeno due mesi secondo la tradizione) e che quindi può essersi anche notevole ripulita dai residui di lievito e proteine e apparire abbastanza limpida, Zwickl, termine che indica il rubinetto che viene piantato a colpi di martello nella botte per iniziare la spillatura, designa invece storicamente una birra messa sul mercato appena pronta (in questo senso può essere anche un sinonimo di Ungespundet) e quindi con una maggiore opalescenza.

Le nuove frontiere

Ai tempi pionieristici della birra artigianale si guardava con affetto e anche un certo orgoglio a bottiglie con una o due dita di spessa “fondazza” di lievito depositata sul fondo: era un altro dei tanti tratti che distinguevano le prime microproduzioni rispetto all’asettica perfezione visiva dei grandi marchi industriali. In seguito le conoscenze e competenze dei birrai artigiani si sono man mano affinate e evolute: una migliore e più attenta gestione dei lieviti, dei tempi e delle temperature di maturazione, l’introduzione di ausili tecnologici, sempre però forieri di divisioni manichee tra favorevoli e contrari, come centrifughe, chiarificanti e macrofiltrazioni in grado di rimuovere solo le impurità e non i lieviti ancora attivi, hanno portato anche il consumatore affezionato di birre artigianali ad apprezzare una maggiore pulizia estetica non di rado unita a caratteristiche organolettiche più definite e armoniche rispetto agli anni ruggenti delle abbondati fondazze. Poi, come spesso accade, da quella che sembrava essere una dinamica lineare e irreversibile si sono diramate nuove e inusitate ramificazioni: le NEIPA, caratterizzate da ceppi di lieviti poco flocculanti, dall’utilizzo di cereali più proteici come frumento, segale e avena e da massivi dry hopping hanno istantaneamente portato gli appassionati più sensibili alle novità a innamorarsi di velature e torbidità estreme nonché a masticare come nuovi mantra termini quali juicy, murky, muddy. 

Oggi se si ricercano su Instagram hashtag come #beerporn, #beerpornography o #fruitsour balzano all’occhio non fotografie di boccali, pinte o cantine di lambic, ma piuttosto di lattine e bicchieri, questi ultimi non di rado di forme lontanissime da quelle in uso nella tradizione birraria, ricolmi di bevande da tinte inusitate come viola, rosa, verde e giallo limone, anche in tonalità fluo, con una nulla o ridottissima presenza di schiuma: bevande che un consumatore non avvezzo alle ultime tendenze del mondo craft faticherebbe parecchio a identificare come birre ed è inevitabile collegare il fattore visivo ed estetico alle recensioni di queste specialità che si possono leggere sui principali siti di rating birrario. Spesso, infatti, la locuzione “non sembra nemmeno birra” ha una valenza del tutto positiva o addirittura assurge ad espressione del massimo livello di gradimento da parte del consumatore. Credo che su tale aspetto, sia visivo che gustativo, si debba riflettere con attenzione e non è escluso che il futuro possa portare a un sempre più ampio iato, di consumatori, luoghi e modalità di fruizione e magari pure di prezzo, tra le birre cosiddette “ordinarie” e queste variopinte specialità contraddistinte da ingredienti speciali che portano a caratteristiche organolettiche lontanissime da qualsiasi tipologia storicamente codificata. L’epoca di Instagram potrebbe dunque essere l’alba di un’evoluzione che, per la seconda volta dopo l’avvento dei bicchieri di vetro, prende le mosse dal fattore visivo ed estetico: “staremo a vedere” in questo caso non è una frase fatta ma l’unica modalità per comprendere ciò che il futuro birrario ci riserverà.