Authentic italian trappist: visita all’Abbazia delle Tre Fontane
È un dato di fatto: si avverte – nell’aria che si respira nel mondo della birra – una certa diffidenza, di fronte all’allargamento, alquanto rapido negli ultimissimi anni, del numero dei birrifici abbaziali ammessi ufficialmente nella schiera dei marchi trappisti. Vedere accolti in questo gotha, a partire dal 2012, un nome austriaco (Engelharts), un secondo olandese (Zundert) nonché, un americano (Spencer), ha destato inevitabilmente sorpresa, suscitando qualche domanda sui meccanismi all’origine di tale accelerazione, sia qualche curiosità in ordine al profili dei prodotti che ciascuna new entry ha cominciato a creare. Ebbene, con le une e con le altre (domande e curiosità), abbiamo bussato alla porta proprio dell’indirizzo ultimo arrivato, l’undicesimo accolto in questa élite brassicolo-monastica: quello di Roma, corrispondente all’Abbazia delle Tre Fontane, nel cuore della capitale. Una premessa: le ore, pur limitate, trascorse in questo spazio (in pieno ambito urbano, ma da esso isolato e sospeso come in una bolla temporale a sé stante), hanno rappresentato – grazie anche alla disponibilità e alla brillantezza della guida che ci ha accolti – davvero un viaggio, nella storia del monastero, certo; ma anche in quella del suo progetto birrario, il cui punto di partenza risale a un quattro anni fa. Iniziamo dal contesto generale: quello della comunità trappista, dei suoi antecedenti, della sua origine, del suo presente.
L’area in cui ci troviamo è, lungo l’antica via Laurentina, quella che la tradizione indica come il teatro del martirio di San Paolo (il 29 giugno del 67 dopo Cristo); e, per questo, luogo di culto fin dalla metà iniziale del primo millennio. La prima Comunità monastica (fondata da religiosi greci) si insediò alla fine del VI secolo; in seguito, il sito venne affidato prima ai Cluniacensi, poi, nel 1140 ai Cistercensi. La Comunità cresce e si sviluppa, conducendo tra l’altro, giorno per giorno, una tenace lotta contro la malaria, che qui imperversa. E’ una battaglia dura, che, pur a malincuore, si dichiara persa nel corso dell’Ottocento, quando – complici anche le soppressioni religiose e i sequestri del periodo napoleonico – il complesso viene abbandonato, restando in balia della propria solitudine per una cinquantina d’anni, fino a quanto cioè la sua vicenda giunge a un vero e proprio punto di svolta. Le autorità pontificie maturano infatti l’idea di affidarne le “chiavi” ai monaci trappisti, in quanto abili nella realizzazione di opere idrauliche e di bonifica. L’operazione va a buon fine, aiutata da una massiccia messa a dimora di piante di eucalipto: tra i nuovi residenti infatti, un belga, reduce da una permanenza in Australia, si era convinto delle virtù dell’Eucalipto come essenza arborea efficace nel contrasto al morbo. In realtà la pianta, voracemente incline a pompare acqua dal suolo per il proprio nutrimento, si “limita” a drenare umidità, eliminando le condizioni ideali di sviluppo della zanzara. L’eucalipto divenne così il simbolo dell’abbazia; e l’ingrediente cardine del liquore che, qui, dalla fine dell’Ottocento, si ottiene per infusione delle sue foglie: è l’Eucalittino, uno dei vanti dei monaci capitolini. Nei primi decenni del secolo scorso la struttura prospera come azienda agricola, diventando la prima del Paese; poi inizia la catena degli espropri (prima per la costruzione del quartiere Eur, poi quelli connessi all’urbanizzazione postbellica). La realtà odierna è quella di una collettività composta da una decina di fratelli che, fedeli al principio benedettino “Ora et labora”, oltre a pregare svolgono attività di vario genere, gestendo, in prima persona, produzione di miele, olio, liquori e, ora anche birra.
Ecco, la birra. Il fulcro del nostro racconto. E’ la più recente tra le vocazioni (non spirituali) dell’abbazia. O almeno, lo è in apparenza. Perché se è vero che le sperimentazioni che hanno preceduto il traguardo dell’uscita sul mercato con il logo “Authentic Trappist Product” sono iniziate, come accennato, quattro anni fa, lo è anche che le indicazioni relative a una ricetta contenente infuso di foglie d’Eucalipto sarebbero state rinvenute tra le carte storiche. E allora è lecito sperare, spinti dall’entusiasmo, di essere davanti ad una trappista provvista di radici antiche. Il progetto è stato portato avanti nel rispetto dei tempi, un quadrienno di attività propedeutica non è un periodo insignificante; è stato, anzi, un intervallo che ha permesso alla “creatura” dei religiosi romani di compiere il suo debutto sul mercato (etichettata come “Abbazia Tre Fontane – Birra dei monaci”), compiendo dunque ben più che un sondaggio del terreno. E il terreno si è rivelato pronto; così come lo standard dell’impianto e dello staff preposto alla sua gestione: facente capo (secondo la formula collegiale, adottata in modo rigoroso), “alla Comunità”, senza specificare ruoli singoli, neanche quello del brewmaster! A garantire il livello di adeguatezza di processo e prodotto sono state le periodiche ispezioni dell’Ita, L’International Trappist Association, le cui visite sono state un’altra di quelle “cosette” sbrigate nel volgere dei mesi trascorsi dalla consegna della domanda d’ammissione fino all’accoglimento nel circuito trappista. Così oggi, finalmente, etichette e materiali di confezionamento esibiscono, con logica e legittima soddisfazione, l’ambito sigillo esagonale: che sancisce, con tutti i crismi d’autenticità, la parentela fra la “Tre Fontane” e le altre roccheforti “della Stretta Osservanza” (brassicola), da Orval a Rochefort, da Westmalle a Westvleteren e via dicendo.
Ma torniamo alla birra per approfondire alcuni aspetti. Primo punto, le motivazioni. Alla domanda sulle ragioni per cui si sia pensato di avviare un’esperienza di brassaggio, la risposta che riceviamo è semplice e cristallina: perché in un momento così complicato della propria vita, la comunità ha ritenuto che questa strada rappresentasse un’opportunità da praticare. Naturalmente, con le ricadute, in termini materiali, stabilite in base a quelle logiche, tutte particolari, che regolano una collettività religiosa; e di fronte alle quali un business manager finirebbe per uscire pazzo. Ad esempio, il dimensionamento dell’impianto. Al momento è tarato su una potenzialità di circa mille ettolitri l’anno: poco? Sicuramente l’offerta sarà ridotta per il mercato, se si tiene conto dell’interesse che susciterà la prima birra trappista italiana, ma adeguata per le esigenze della Comunità, visto che il termine “esigenze” va inteso in senso strettamente monacale (qui l’accumulo di ricchezza e l’aumentare del traffico dei corrieri, ad esempio, destano problematiche non soddisfazione). Quanto ad altri aspetti organizzativi e di processo, l’acqua utilizzata è quella della rete idrica urbana (trattata, ma giusto un minimo, per alleggerirne il contenuto in calcare), malti e luppoli vengono acquistati sul normale mercato internazionale, i lieviti secchi provengono sia da canali tradizionali che dal circuito trappista. D’altra parte, ciò che contraddistingue la Tre Fontane (di base una Tripel da 8,5° alc.) è l’impiego delle foglie di Eucalipto: croce e delizia (realmente), che ha imposto e impone tutt’ora un accurato approfondimento sulle sue modalità di fruizione. Si tratta infatti di un “attore” niente affatto facile, incline a contributi organolettici (eufemisticamente) esuberanti: un’aromaticità pervasiva e prevaricante, un contenuto amaricante massivo e perentorio, oltre ad apporti anche di possibile astringenza e acidità. Tutte questioni che hanno orientato verso la scelta di utilizzarlo conferendone un oculato quantitativo di foglie essiccate (il collaudo delle bacche ha dato riscontri non positivi), in corrispondenza della fase finale della bollitura del mosto: ne viene preparato un mix, avvalendosi cioè non di una soltanto, ma di diverse tra le varie specie di Eucalipto presenti nei terreni abbaziali. Riservate (ovviamente) le informazioni sia sul peso della gettata, sia sulla sua composizione. Di certo si sa che la variazione anche minima dei parametri di esercizio determina uno spostamento sensibile del baricentro sensoriale del prodotto; e che quindi, di cotta in cotta, si è provveduto a testare incessantemente, applicando protocolli differenti che hanno portato ad altrettanto differenti risultati organolettici. Di ciò siamo stati testimoni diretti, avendo avuto l’impagabile possibilità di assaggiare alcune tra le appena menzionate diverse partite di sperimentazione, restando sorpresi di fronte, appunto, alla divergenza degli esiti via via conseguiti. In una delle versioni precedenti l’attuale, estremamente secca e vibrante, le note di Eucalipto risultavano quasi marginali, rispetto a un’architettura (più o meno) classica da Tripel; in una versione “futuribile” le abbiamo trovate incastonate in un bouquet di più articolata e complessa evocazione erboristica. Nella ricetta corrente, come riportiamo nella scheda descrittiva, il timbro balsamico raggiunge il suo probabile Zenit.
Usciamo dall’abbazia soddisfatti, non solo per l’esperienza e gli assaggi, ma anche per quella sicurezza di avere finalmente trovato la risposta al quesito “ma un trappista italiana ha davvero senso?”.
L’eucalipto e le Tre Fontane: un incontro scritto nel destino
Quello tra la comunità delle Tre Fontane e la pianta dell’Eucalipto era evidentemente un incontro predestinato. A titolo anche di semplice di curiosità, si noti l’identità di forme (quadrilobate) tra i rosoni che decorano l’abside della chiesa abbaziale (consacrata nel 1221 e dedicata ai santi Anastasio e Vincenzo) e le incisioni presenti sulla parte superiore di alcune bacche di Eucalipto. Bacche il cui profilo laterale – per chiudere il cerchio – servirà da modello per sagomare il bicchiere speciale destinato alla mescita della trappista romana.