Attrazione fatale: quando il difetto di una birra ci seduce
Mi piace l’odore del diacetile al mattino. Se il colonnello Kilgore di Apocalypse Now fosse vissuto in Repubblica Ceca e si fosse adeguato ai costumi locali concedendosi un boccale di Světlŷ Ležák o Tmavé ben prima dell’ora di pranzo, la sua più celebre frase avrebbe potuto assumere questa veste assai più pacifica e godereccia dell’originale.
Ma il diacetile non è un difetto? Certo che lo è e pur ricordando sempre che i difetti, essendo manifestazioni percepibili ai nostri sensi della presenza nella bevanda di ben precisi elementi o composti chimici, sono fattori oggettivi, ovvero o sono presenti in un bicchiere o non lo sono. Uno dei fattori che rende la pratica degustativa complicata, ma anche estremamente affascinante, è che, a volte, anche di fronte a un elemento come un difetto che è considerato generalmente negativo, la soggettività rientra dalla finestra e permette di apprezzare o addirittura amare alcune lievi imperfezioni che possono rendere più sincero, godibile ed entusiasmante l’insieme, esattamente come avviene per la bellezza di un volto umano o di un’opera d’arte.
Del resto, la degustazione è, per il momento, una delle poche attività che il genere umano non possa delegare all’intelligenza artificiale e da ciò che ne consegue che una certa quota di soggettività sia ineliminabile e ineludibile. Le chiavi per provare a comprendere quando un difetto possa trasformarsi in un piacevole compagno di assaggio sono essenzialmente tre:
- la misura: per rientrare nello spettro della piacevolezza la quantità di difetto presente deve, com’è ovvio, essere sempre estremamente modica.
- il tipo di difetto: a parte per pochissime persone, riguardo le quali si può tranquillamente parlare di parafilia, i mercaptani, che possono dare sentori di scarico fognario o di frazione umida dei rifiuti, difficilmente possono attrarre
- la connessione con lo stile: se note funky molto spinte o addirittura uno spunto acetico possono essere gradevoli e dare un tocco di maggior complessità a una birra a fermentazione spontanea, o a una farmhouse ale fermentata con Brettanomyces e affinata in botte, sono decisamente fuori luogo anche in esigua quantità in una bassa fermentazione o in un’American IPA.
Prendiamo le mosse proprio dal diacetile con cui abbiamo aperto l’articolo. I manuali ci dicono che è tollerabile in modica quantità nelle lager di origine boema, siano essere chiare, ambrate o scure e in svariati stili britannici, con l’eccezione di Porter, Stout e English IPA. Chiediamoci però: una Pils o Tmavé boeme o una Bitter inglese sono più godibili senza diacetile? La risposta è sì, quindi in questo caso l’eventuale lieve presenza del difetto è una caratteristica che può essere accettata, può fornire singolarità e tipicità a un determinata birra ma non è di per sé mai desiderabile; diverso è il discorso per tipologie come Irish Red Ale e Scotch Ale in cui una lieve nota di butterscotch fornita dal diacetile può, in casi fortunati, andare a legarsi armonicamente alle note toffee e di frolla burrosa presenti nella ricca struttura maltata donando ulteriore rotondità e maggiore complessità.
Restando in tema di lager ma cambiando territorio, nelle chiare a bassa fermentazione di ispirazione germanica il diacetile è severamente vietato, ma è invece tollerata una lieve nota sulfurea: l’accenno di solforosa che è il marcatore inequivocabile della Augustiner Hell e che si trova anche non di rado nelle keller franconi e nelle loro interpretazioni italiane ne è un paradigmatico esempio. Il sentore dev’essere molto fresco, senza mai degenerare in ricordi di capocchia fiammifero o di uovo sodo, e risultare ovviamente meno intenso rispetto ai fragranti sentori di cereale e panificato chiaro, ma in modica quantità può apparire come una piccola pennellata d’imperfezione che definisce la freschezza e rusticità di una birra.
Il più vasto panorama delle imperfezioni che affascinano lo si rimira però quando si entra nel territorio delle fermentazioni spontanee e miste e degli affinamenti in botte: per un curioso parallelismo, probabilmente un vero e proprio soffio dello spirito del tempo, il crescente trend dei vini ancestrali e naturali ha fatto sì che anche il mondo vinicolo, tradizionalmente meno tollerante del nostro verso le deviazioni dai canoni, stia avviando profonde riflessioni sul tema. A livello didattico può essere utile partire da un potenziale “elefante nella stanza” come l’acido acetico: la sua caratteristica pungenza avvertibile ben prima dell’assaggio lo rende già di partenza un pessimo giocatore di nascondino, inoltre la sua lunga e ampia diffusione nella nostra cultura alimentare fa in modo che anche i nasi e palati meno esperti sappiano riconoscerne in modo inequivocabile la presenza. L’intensità e la potenziale invadenza che gli sono innate ne fanno poi un inevitabile fattore di divisione: la platea si frattura in modo piuttosto netto tra amanti e detrattori, con pochi compromessi o zone grigie. Tradizionalmente è considerato un difetto nei Lambic e derivati, anche se in modica quantità, specie nelle versioni arricchite da frutti a bacca, può contribuire a dare complessità e freschezza. La sua presenza è invece ricercata nelle Red Flemish Sour Ale e nelle Oud Bruin ove andrebbe però bilanciato, specie nella seconda tipologia, da una percepibile dolcezza maltata creando un suggestivo e fragrante equilibrio agro-dolce. Di pari passo alla maggiore incidenza della componente dolce riscontrabile nelle etichette storiche come Liefmans e Rodenbach, da tempo passate sotto il controllo di grandi aziende birrarie, si assiste in questi anni nel mondo craft, sia in Belgio che oltreoceano, alla genesi di esemplari, come ad esempio la Oud Bruin Cherry di Verzet, veramente molto spinti sul versante acetico e con profili gustolfattivi definibili senza ombra di dubbio come estremi e non alla portata di tutti i palati.
Cuoio, pellame e la proverbiale coperta del cavallo sono invece descrittori classici impiegati per tradurre in parole i sentori animali presenti in birre rifermentate con i brett come l’immortale Orval, che ha proprio in questa sua componente aromatica, peraltro destinata a crescere proporzionalmente all’età della bottiglia, un tratto che la rende, in età matura, ostica a quella ristretta fascia di bevitori che non la amano o la apprezzano solo da giovane, generalmente sotto i sei mesi, quando il profilo gustativo è ancora dominato dai malti e dai luppoli. Una maggiore intensità animale può condurre in territori quali la pelle di salame, il cotechino o lo zampone crudi, il pelo di capra o il pollaio. Sensazioni sconvolgenti quando per la prima volta colpiscono le narici di un neofita, ma che hanno la loro cerchia di ammiratori e possono anche guidare, seguendo il solido e ben fondato teorema del “ponte gustativo”, verso gioiosi abbinamenti gastronomici. Qualche esempio? Un sentore di pelle di salame o sanguinaccio, note spesso peraltro associate a echi ematici o ferrosi, ci suggeriscono di accostare la nostra Farmhouse Ale o Gueuze o Kriek ad un salume o insaccato, crudo o cotto, che esibisca analoghi profumi, così come un ricordo caseario, fresco o stagionato, di stalla ovina o di crosta fiorita ci veicoleranno opportunamente ad accompagnare la bevuta a quel formaggio che più mostri assonanze e complicità aromatiche con la bottiglia scelta.
Tra i sentori più legati alla dimensione della cantina possiamo ricordare le ormai proverbiali carte da gioco vecchie codificate da Kuaska per le Gueuze, sentori di muffa, di assi di legno vecchie e infradiciate, di muschio, ricordi di cassetto o armadio chiuso con tanto di palline di naftalina accluse. Se il famigerato tricloroanisolo, responsabile dell’universalmente noto sentore di tappo ma non necessariamente legato alla presenza di un tappo in sughero dal momento che è generato da un fungo che può contaminare anche botti di legno o ambienti di fermentazione, risulta indigesto a chiunque, non mancano invece gli amanti delle nuance di cantina anche spinte fino ad evocare ricordi di angoli polverosi o di ragnatele. Possiamo far rientrare in questo novero, sia per analogia nella genesi che per una almeno lontana affinità aromatica, anche i sentori di polvere da sparo non rari da reperire nelle Gueuze invecchiate. Ormai un paio di lustri fa Luigi “Schigi” D’Amelio strappò molte risate in una degustazione all’Abbazia di Sherwood di Caprino Bergamasco dissertando se l’aroma sprigionato da quella magnifica bottiglia di Oude Geuze di 3 Fonteinen, con una dozzina d’anni di cantina sulle spalle, fosse più affine ai petardi di marca Raudo o Pirat.
Non occorre spendere troppe parole circa l’ossidazione: vulnus mortale quando ingrigisce con note perlacee, tutt’altro che preziose, birre chiare e leggere, e seppellisce sotto una coltre di cartone e francobolli la fragranza di una lager, o ancora, ammanta di marmellata d’agrumi e crosta di parmigiano l’esuberanza luppolata di una APA o American IPA, per poi diventare un’elegante e salottiera signora dagli evocativi effluvi di mandorla, amaretti, uva sultanina e budino alla vaniglia, quando prende sottobraccio Barley Wine, Old Ale, Imperial Stout, Eisbock o Quadrupel.
Sono forse più sottovalutati e meno decantati i rarissimi, sia ben chiaro, doni positivi dell’autolisi: non parliamo ovviamente dei sentori di zampone cotto, brodo di carne o dado da cucina che mai sono benvenuti in un bicchiere da birra quanto a quell’inequivocabile nota sapida e umami da salsa di soia che in un’Imperial Stout adeguatamente invecchiata può dare ricchezza e complessità e contribuire a bilanciare la dolcezza offrendo una stampella all’amaro, la cui intensità inevitabilmente cala con il passare del tempo.
Un’ultima nota che merita di essere inserita riguarda la vicinanza chimica tra l’acido butirrico, ben noto ai degustatori e analisti sensoriali per l’intenso e sgradevole fetore che ricorda il rigurgito di un lattante o la crosta di un formaggio pecorino dimenticato in frigo per parecchio tempo, e il butirrato di etile, che può generarsi da una reazione tra etanolo (ovvero alcol etilico) e acido butirrico, e che presenta un caratteristico quanto gradevole profumo di ananas: il butirrato è ovviamente presente in questo frutto così come, in misura minore, nella banana, nel kiwi, nel fico e nella mela e la sua molecola sintetizzata viene spesso usata come aromatizzante per caramelle e dolciumi, nonché per medicinali pediatrici. Nella mia esperienza di publican e docente in corsi di degustazione mi è capitato di notare come le birre con aggiunta di ananas, spesso Berliner Weisse, Gose o Fruit Sour prodotte con il metodo del sour mash, risultino regolarmente molto divisive perché una certa percentuale di persone, probabilmente più sensibili della media al butirrato di etile per ragioni genetiche, finisce per percepire in esse uno sgradevole sentore di vomito anziché la piacevole fragranza del frutto tropicale; all’opposto mi è capitato di trovare persone che individuassero un buon profumo di ananas in birre a fermentazione spontanea o mista in cui la maggioranza della platea percepiva i sentori acri e urtanti del butirrico.