Audaci alleanze: Ribollita e American Ipa
Questa volta l’idea di accostare elementi sensibilmente distanti, talvolta divergenti nella rispettiva visione: due diverse culture (la Toscana e la statunitense); due modalità d’approccio alla nozione di gusto (il fortemente tradizionale e l’ultramoderno); due appartenenze cronologiche (l’antica e la contemporaneo-avanguardistica); infine due profili sensoriali compatibili (questa la scommessa), ma solo a condizione di tenere sotto controllo possibili esuberanze. Sul ring chiamiamo a salire: nell’angolo della tavola la ribollita (fiorentinissima, ma iscritta ai ricettari tipici di tutta la regione); nell’angolo della bevuta, campionessa delle birre made in Usa di recente generazione, la American Ipa.
E dunque via al corpo a corpo, di cui diamo la cronaca: iniziando da uno sguardo al piatto, alla sua scheda tecnica. Una zuppa, sì, ma che zuppa! Un trionfo della cucina di base: strati sovrapposti di pane raffermo tagliato a fette, irrorato con un corposo minestrone di verdure (verza e cavolo nero, patate e fagioli, pomodori e carote, bietola e sedano, il tutto completato da porri, cipolla, aglio, rosmarino, Extravergine d’oliva, sale e pepe). Il loro abbraccio genera un impasto denso, di sostanza e concentrazione, provocato dalle cotture supplementari, successive alla prima (da cui il nome ribollita).
All’assaggio il boccone è morbido ma non sfuggevole (l’acqua occupa la percentuale prevalente del capitale nutrizionale, con i carboidrati al 12%, i grassi all’8% e le proteine al 6% circa); di alta densità sensoriale (intensità, complessità, persistenza); dalle profumazioni fortemente contadine (vegetali, terrose); dal gusto pronunciato, ma – se la mano di chi cucina ha polso – non per questo eccessivamente sapido. La salatura diventa un fattore chiave in questo rendez vous con le American Ipa che, se pronunciata, potrebbe dar vita a scontri con le fisiologiche amaricature della nostra bevuta a stelle e strisce. Evitato questo corto circuito, tutto potrebbe filare liscio. Motivi? Eccoli. Se il boccone ha corporatura dotata, il secondo gli è fotocopia; se il primo ha spessori lipidici, il sorso ha acidulità, effervescenza e alcol con cui gestirle; se il primo ha vigore e persistenza gustative, il secondo ne ha in pari grado; se il primo ha valenze aromatiche erbaceo-aromatiche, il secondo ne segue la danza (e l’aggiunta, nel bicchiere, dei temi esotico-agrumati, non scompagina, ma arricchisce); se il secondo ha affilatezze bitter, il primo (tenuto il cloruro di sodio alla briglia) non andrà a stuzzicarle.
Anche qualora la proposta spiazzasse, il nostro consiglio è quello di provare, per la scienza, chiaramente. E per il test appena consigliato, ecco i nostri consueti suggerimenti. Dagli stessi Stati Uniti, per la scuderia Rogue (Newport, Oregon), la Brutal da 6.3 gradi alcolici; dall’Inghilterra, sotto le insegne di Thornbridge (Ashford in the Water), la Jaipur da 5.9 gradi; dall’Italia, la HOPfelia by Fogliederba (Forni di Sopra, Udine) e la MADdeké targata Free Lions (Viterbo), rispettivamente da 6,4 e da 6,7 gradi.