Matrimoni natalizi: birra e cotechino con lenticchie
A Natale, recita un adagio, siamo tutti più buoni. Soprattutto con noi stessi, ci permetterete di aggiungere. Un poco più indulgenti in specie a tavola. Complici le circostanze per cui, da un lato, l’estate è lontana (e con essa i pensieri per il girovita); dall’altro, l’inverno fa freddo, per cui “si brucia di più” (sì: credici, vai!). Ebbene, questa speciale indulgenza va a premiare le ricette caratterizzate da un contributo in calorie che, già a gennaio, superata la boa temporale e psicologica dell’epifania, ci farà rabbrividire, inducendoci a propositi di pentimento stile Opus Dei, con tanto di cilicio nutrizionale e conversioni folgoranti alle teorie del digiuno terapeutico. Ma in questi giorni, time out! E dato che si può insanire, beh, a quel punto vale la pena farlo bene. Insomma, tutto ’sto preambolo come captatio benevolentiae per dire che, la nostra rubrica sugli abbinamenti, questa volta si concede una licenza stagionale di quelle come si deve: sotto i riflettori, c’è Re Cotechino, in ovvia compagnia della regina consorte, lady Lenticchia.
Cominciamo con un po’ di storia. Le fonti consultate – tra le molte a disposizione – ci raccontano che il cotechino, ormai piatto nazionale, avrebbe però radici che puntano a nord-est, per l’esattezza verso il Friuli Venezia Giulia. Qui, oggi, la variante egemone è quella del musetto: così chiamato in virtù del fatto che, trattandosi sempre e comunque di un insaccato a base di carni di maiale meno pregiate, nel caso di specie, si ricorre esclusivamente a parti, appunto, del muso dell’animale. La versione diciamo generica, invece, a partire dalle terra del Montasio, ha colonizzato un po’ tutto il Settentrione, spingendosi addirittura al confine con il tacco della penisola. Oltre infatti alla qualifica Igp (Indicazione geografica protetta) a tutela del cotechino di Modena, abbiamo altre quattro regioni che hanno inserito la nostra “pietanza del mese” negli elenchi delle rispettive specialità tipiche. Si tratta della Lombardia (che ne ha diverse declinazioni, tra cui cremonese, bergamasca, mantovana, pavese) e del Veneto (con simmetrica ricchezza di interpretazioni: padovana, basso vicentina e altre); del Trentino; e infine del Molise, la specificità del cui cotechino risiede nelle nella pezzatura, che qui ha le proporzioni di una salsiccia (in peso, qualche etto), minori dunque rispetto alle taglie dei parenti padani, assimilabili a grossi salami (da un chilo e più).
Quelli che ricorrono, comunque, quale denominatori comuni a tutte le differenti ricette territoriali, sono anzitutto la natura del prodotto: un insaccato (consumato cotto) a base di carni di maiale, tra le quali immancabili sono le cotenne, da cui trae il proprio nome; e poi le regole d’ingaggio, in termini sia di preparazione che di presentazione in tavola. Quanto alla lavorazione, il budello viene riempito con tagli suini “non nobili” (spalla, guanciale e così via), sale e spezie (pepe, noce moscata…); quindi bucato in più punti (per spurgare grassi); e posto in bollitura. Quanto alla “confezione”, il cotechino, effettuata la prima cottura, ne affronta, in base alla consuetudine più diffusa, una seconda: accompagnandosi in teglia alle sue compagne di vita (ironia della sorte, si usa però dire siano “la morte sua”), ovvero le lenticchie; e viene sacrificato sugli altari dei banchetti di capodanno in quanto portatore – il merito è principalmente del legume partner – di buoni auspici per i 12 mesi seguenti. Talvolta, poi, il menage si fa a trois, con la cooptazione delle patate, in purea o arrosto.
Leccornia da categoria pesi medio-massimi, spara un 330 calorie per porzione da 100 grammi, articolati, questi ultimi, in 37 circa d’acqua, 26 di carboidrati, 18 di grassi e 16 di proteine. In sintesi, venendo al nocciolo della nostra chiacchierata, si ha a che fare con una portata di grande consistenza materiale e lipidica; oltre che di forte densità sensoriale, espressa in forze sui fronti della dolcezza, della sapidità e della speziatura.
Ma vediamo dunque alcuni abbinamenti possibili, in campo brassicolo. La componente grassa chiama detergenza: effervescenza, alcol, acidulità. E insieme alla robustezza proteica, chiede alla birra struttura, corporeità. Se la mano del cuoco calca poi le spolverate di sale, meglio un bicchiere privo o scarso di toni amaricanti. A cosa viene da pensare? A più soluzioni. Ovviamente a una Weizenbock: la superclassica Aventinus di Schneider, anche in edizione Eis, concentrata a 12 gradi (dagli 8.3 normali); la scura e morbida Weisse Bock di Mahrs Bräu; la notevole (anche in eleganza), per quanto non tedesca, AB 14 di BrewDog (10 la taglia etilica). Però, si può osare anche qualcosa d’altro, al di là dello steccato del frumento. Ad esempio, confidando nell’attenuazione dei sapidi operata dagli stessi lipidi del cotechino, si possono rischiare lievi amaricature nella birra: pensiamo a due Saison come la Wallonie di Extraomnes e la Temporis di Croce di Malto). Oppure, rinunciando all’acidulo spiccato e puntando sull’attitudine solvente dell’alcol, si ha facoltà di spaziare nel belgian, anche a tinte chiare: da una madrelingua come Westmalle Triple (inconfondibilmente dry), a un’etichetta in stile, seppure nata in Italia, come la Mancina del Birrificio del Forte.
E non è tutto. Perché la lenticchia, a veder bene, introduce – al netto delle differenze tra le molte varietà – un connotato rustico, terroso e vagamente piccante. Andando dietro al quale (e introducendo magari l’ulteriore neutralizzazione di una purea di patate, a tenere a bada la reciproca acrimonia tra sapidità e bitterness), è ammissibile cercare sponde d’abbinamento nel tema “terroso” di qualche ambrata d’ascendenza britannica. India Pale Ales ad esempio, quali quelle firmate da Samuel Smith, Fuller’s (con la Bengal Lancer in specie) o Meantime (belli i suoi 7 gradi e mezzo); ma anche mostri one shot, come la paradossale M.I.L.D. Imperial Mild, collaborazione a otto mani targata Brewfist, De Molen, Toccalmatto e Ducato. Infine, cercando ancor più il richiamo con il rustico spicy della lenticchia, azzardiamo un paio di Rye Ipa, auto-ammorbidite dal proprio alcol: l’americana Ruthless di Sierra Nevada (6.6% all’etilometro) e soprattutto la norvegese Reserve Rye di Lervig, la cui lancetta sale a 8.5%.