La birra è un prodotto agricolo?
Ha fatto molto rumore, qualche giorno fa, la notizia di una novità legislativa che configura la birra come prodotto agricolo, ventilando agevolazioni importanti per le aziende agricole che trasformeranno i propri cereali in birra. Ne ha dato notizia la Confagricoltura, e la cosa ha trovato cassa di risonanza in moltissimi organi di stampa, tra cui La Stampa di Torino e Cronache di Birra.
Si tratta di un decreto del Ministro dell’Economia, risalente al 5 agosto 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 122 del 10 settembre 2010, che elenca i prodotti che, “se ottenuti nell’ambito della attività di manipolazione e trasformazione di prodotti agricoli ottenuti prevalentemente dal fondo o dall’allevamento”rientrano in sgravi di natura fiscale. Senza entrare nel merito tecnico del decreto (di cui è possibile leggere nel dettaglio a questa pagina), va però senz’altro detto che si tratta di un passo piuttosto importante, dal punto di vista politico. Riconoscere la birra come un prodotto agricolo significa, in prospettiva, poter aprire molte porte fin qui sbarrate. L’augurio è che questo provvedimento sia significativo di un mutato atteggiamento da parte dello Stato nei confronti della birra, fin qui non esattamente agevolata, per usare un eufemismo… Probabilmente è presto per ipotizzare le reali ricadute che questa novità potrà avere nel mondo produttivo italiano. Se proviamo a pensare ai birrifici che possono ipotizzare, nel breve periodo, di produrre (e di maltare) il 50% dell’orzo utilizzato vengono in mente ben poche strutture, ma non è detto che il futuro non ci possa sorprendere.
Piuttosto questa cosa (e il relativo risalto mediatico che c’è stato) mi ha sollecitato alcune questioni. Ma la birra è un prodotto agricolo? Ha senso, anche qui in Italia, sancire un legame così diretto col territorio come, ad esempio, è per il vino?
Ho sempre pensato che le materie prime siano importantissime, nella produzione della birra. In primis penso all’acqua, spesso sottovalutata, ma le cui caratteristiche influenzano molto le birre (in tutto il mondo); per fare un esempio (al di là dei classici Plzen e Burton) le birre di Montegioco hanno una particolarissima nota minerale, sapida, che guarda a caso si ritrova anche nei vini del territorio, Timorasso in testa. Così come, ovviamente, malto e luppolo sono la vera e propria struttura ossea di tante birre, basta pensare alle Pils ceche, alle Bitter inglesi, o alle IPA americane. Come è ben noto, tuttavia, in Italia rispetto a malto e a luppolo siamo molto in ritardo rispetto ai paesi di grande tradizione birraria. Almeno per ora i nostri microbirrifici utilizzano la quasi totalità di malti stranieri (che diventa totalità se stiamo parlando di malti speciali), mentre il luppolo coltivato in patria è ancora alla fase di sperimentazione e se si escludono alcuni, peraltro interessantissimi, esperimenti (su tutti citerei la straordinaria Ipè Harvest del birrificio San Paolo, con back hopping di Cascade in coni coltivato in Liguria) si può dire che non esista ancora luppolo da birra italiano. È vero però che i birrifici che stanno, direttamente o indirettamente, sperimentando in ambito luppolo sono moltissimi, per cui è lecito aspettarsi, almeno da questo punto di vista, che non si sia così lontani da un futuro più, per così dire, autoctono. Non va certamente dimenticato il lievito, essenziale per tutte le birre, ma fortemente caratterizzante per molte (tra cui senz’altro gli stili belgi e inglesi), sul quale, per molti motivi, dobbiamo registrare un ritardo forse ancora maggiore. Emblematica una frase che mi disse un giudice straniero (Randy Mosher) durante un concorso di birre italiane: “ma in Italia avete solo un lievito?”. In effetti sarebbe interessante fare un censimento di quante birre italiane usano il T58 o l’S04…
Detto tutto ciò, però, personalmente trovo la figura del birraio molto più vicina a quella del cuoco che non a quella dell’agricoltore. Come un grande chef un birraio deve saper scegliere, ma soprattutto dosare le materie prime, come in cucina si deve usare molta attenzione alle temperature e ai tempi; non credo sia un caso che alcuni grandi birrai (su tutti Jurij Ferri del Birrificio Almond ’22) vengano proprio da una cucina di un ristorante e non è un caso che spesso, parlando con i birrai, li si scopra appassionati di cucina, ciascuno con qualche piccolo segreto… Questo non significa che i birrai, esattamente come i ristoratori, non debbano fare attenzione alle materie prime del territorio. Per ora si è trattato soprattutto di cereali (farro, soprattutto) locali, di castagne (attenzione però a non identificare le birre di castagne come uno stile nazionale, non lo sono affatto) o aggiunte aromatizzanti, dalla frutta alle spezie. In futuro, c’è da augurarsi, anche malto, luppolo e lievito. Proprio come i ristoratori i birrai possono fare territorio con le materie prime e con le sinergie tra produttori. L’Italia è un’inesauribile fucina di piccoli tesori gastronomici, diversissimi da territorio a territorio, spesso pressoché dimenticati. I birrai possono (e, a parer mio, dovrebbero) creare sistema con i produttori agricoli, con gli allevatori, con i casari. In questo senso il birrificio è territoriale e in questa direzione credo che la scelta di “regionalizzare” i birrifici fatta dal Salone del Gusto sia stata corretta. Quindi credo che il birraio sia espressione di un territorio, di una cultura, di gusti locali (non credo sia un caso che in Lombardia siano nate le birre molto luppolate, mentre in Piemonte le birre molto alcoliche), mentre francamente mi pare che definere la birra come un prodotto agricolo sia eccessivo. Almeno per ora, qui in Italia.
di Luca Giaccone