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Interiormente… birra! Il quinto quarto incontra la birra

Nel mondo della gastronomia, ben pochi sono i cibi che dividono così tanto in due opposte fazioni come le frattaglie. Conosciute anche come “quinto quarto”, termine che indica le interiora e in generale le parti considerate “di scarto” e deriva dall’antica usanza di suddividere gli animali macellati in quarti: il primo, quello più pregiato, spettava ai nobili; il secondo alla Chiesa; il terzo in ordine di qualità alla borghesia; mentre il quarto era destinato ai soldati. Per i più poveri non restavano dunque che le interiora, che assunsero così la definizione quasi ironica di “quinto quarto”. Che si tratti di fegato, trippa, cuore, lingua e chi più ne ha più ne metta, il mondo si divide davvero in “chi li ama e chi li odia”, dove chi li ama ne apprezza il sapore e le consistenze particolari, mentre chi li odia spesso non ne sopporta nemmeno l’odore o la vista, a volte senza nemmeno averli mai assaggiati, come fermati da un freno psicologico. Ma se effettivamente alcuni tagli sono davvero per palati allenati ai sapori forti, come i reni, o rognoni, o la cosiddetta coratella, altre parti possono invece dare vita, debitamente trattate e cucinate, a piatti dal gusto più morbido e popolare, in grado di farsi apprezzare anche da chi generalmente non è un amante delle frattaglie. 

I tagli poveri hanno condiviso con la birra lo status di figli minori della tavola. Dal dopoguerra in poi i piatti a base di questi tagli hanno trovato sempre meno posto nei ristoranti e nell’immaginario comune, soppiantati da carni più costose e più alla moda. Negli ultimi anni però, complice una nuova maniera più ecumenica di approcciarsi al cibo, il quinto quarto ha cominciato a riaffermarsi non solo nei ristoranti tradizionali, ma anche nelle cucine stellate. Recentemente sulle tavole di appassionati e non ha incontrato sempre più spesso la birra, bevanda anch’essa in ascesa nell’indice di gradimento dei consumatori nelle sue numerosissime sfumature. Vediamo ora come può celebrarsi questo matrimonio di sapori. Per le parti più collose, come trippa o lampredotto, ma anche per la coda, ci possiamo orientare su birre luppolate come bitter o pale ale fino ad arrivare a qualche ipa non troppo estrema. Nel caso fossero presenti salse verdi, come spesso accade, consigliamo una saison, magari leggermente brettata.

Se la preparazione acquista complessità come nel caso della trippa alla parmigiana, fatta con pomodoro e Parmigiano Reggiano, allora il nostro consiglio è di abbandonare l’amaro e passare all’acido scegliendo birre come le gueuze. L’amante delle animelle ne apprezza la delicatezza e la leggera tendenza dolce che di solito hanno. Per l’abbinamento consigliamo di evitare il contrasto, e dunque scegliere birre come dunkel non troppo impegnative, ma anche helles se la cottura non  prevede una caramellizzazione. Se invece le animelle sono fritte consigliamo una pils, se fatte con i carciofi, come spesso accade in centro Italia, preferiamo una pale ale di stampo inglese o una saison. E con le animelle al marsala? Perché non provare un po’ di barley wine meglio se con qualche nota di ossidato.

Cuore e fegato sono ricchi di sangue, con una nota dolce sullo sfondo soprattutto per quanto riguarda il secondo. Per chi volesse un abbinamento più morbido consigliamo di seguire la nota dolce e rivolgersi nuovamente verso basse fermentazioni ambrate, delicatamente caramellate, mentre per chi ha anche metaforicamente “cuore e fegato” consigliamo un abbinamento con una alt magari, stile di Düsseldorf, ambrato e decisamente amaro con note erbacee e medicinali. Se invece  la preparazione vede l’aggiunta classica di una buona dose di cipolle, che aumentano la dolcezza del piatto, potrebbe venirci in aiuto una pale ale americana con un amaro contenuto ma presente e un corpo importante. Nel caso di paté di fegato consigliamo un barley wine le cui note ossidate possono ricordare alcuni superalcolici come cognac o sherry e riproporre un abbinamento classico, anche se in chiave più snella.