I pionieri della birra artigianale italiana: Agostino Arioli del Birrificio Italiano
Vi raccontiamo la storia di un birrificio lombardo, il Birrificio Italiano, e del suo birraio fondatore, Agostino Arioli, partendo dal primo ricordo legato alla produzione di birra del suo mastro birraio Agostino Arioli: quando andavo alla scuola elementare, io e Mike, un mio amico olandese, decidemmo di provare a fare il vino e la birra. Non bevevamo a quei tempi, ma chissà perché ci venne questa ispirazione. Non ricordo la ricetta, certo incompleta e sommaria, ma ogni tanto mi torna nel naso, scuotendomi ben bene nel profondo, il profumo del luppolo in infusione a freddo (un dry hopping primordiale) che avevamo usato. Come birraio e appassionato di birra ancora ricerco, non senza una punta di mania, quel profumo.
Arriva da lontano dunque la passione di Agostino Arioli, una folgorazione che lo porterà adolescente a caccia di birre in una Italia al tempo costellata soltanto da pochissimi e lungimiranti pub in grado di offrire birre differenti dalla solita proposta, come la Birreria 35 di Como, l’Alexander Platz di Barlassina e il Bar Brianza di Saronno che, già al tempo, proponeva una buona quanto sorprendente selezione di birre inglesi. Tra una George Killians in lattina e una Coronator di Arcobrau, il desiderio di produrre la propria birra diventa sempre più forte, ma negli anni ’80 non era così facile dilettarsi con la produzione:
Non avevo niente se non alcuni testi che parlavano di produzione industriale e un libello scarno e un po’ semplicistico su come fare la birra in casa scritto da un pioniere italiano di cui non ricordo il nome. Non esisteva Mr Malt e per quel che ne so, una certa “Enologica Friulana” cominciava a distribuire i kit di fermentazione. Ma tant’è, con quello che avevo mi misi all’opera, maltai in casa dell’orzo biologico toscano prodotto da amici, lavai una damigiana e feci fermentare un mosto dall’aspetto (oggi posso dirlo) inquietante con del lievito per il pane. Risultato indescrivibile e non per la sua eccellenza…
Mancanza di informazioni, assenza di strumentazione per piccole produzioni, difficoltà nel reperire materie prime di qualità, non scoraggiano Agostino che entra in contatto con personaggi del mondo della birra che lo aiuteranno molto, come Gianni Pasa, al tempo birraio della SIB di Aosta, poi all’Amarcord e oggi alla Pedavena, e Lorenzo Pilotto, che lavorava alla Von Wunster di Comun Nuovo. L’87 è l’anno dei viaggi e alla consapevolezza di voler produrre birra si affianca quella di aprire un locale, un brewpub, magari come quello visto a Vancouver, la British Columbia, o a Karlsrue, la Vögel Brau, una delle prime Gasthausbrauerei tedesche. La voglia di diventare birraio spinge Agostino a concludere una laurea, fino ad allora tirata per le lunghe, a tempi record, con una tesi sperimentale molto tecnica sulla birra. Arriva poi il tirocinio alla Von Wunster sotto l’ala dell’amico Lorenzo Pilotto e due brevi stage presso Joh Albrecht di Konstanz e Feierling di Freiburg.
Ormai tutto è maturo per iniziare a trasformare il sogno in realtà e il 23 dicembre 1994 la Camera di Commercio registra una nuova società, il Nuovo Birrificio Italiano srl, formata da ben 11 soci. Capita così che a Lurago Marinone, in un bell’edificio dal sapore antico, viene posizionato un impianto da 200 litri e quattro maturatori da 400 litri, oltre a tre fermentatori aperti, acquistati di seconda mano dalla Poretti (che li usava per gli starter!). Ma è nell’aprile del 1996 che viene prodotta la prima birra, la Tipopils, una birra di bassa fermentazione, un tributo alle pils, che con il tempo diventerà un must a livello mondiale. Il brewpub era accogliente, la birra, anche se ancora lontana dall’eleganza attuale, era discreta, l’unica cosa che mancava erano i clienti:
Il primo anno ricordo che lo abbiamo passato, io e Stefano, a guardarci negli occhi e a sbirciare la strada nella speranza che i fari di passaggio, si arrestassero sotto al locale. Raramente ciò avveniva. In pochi ci conoscevano e inoltre le mie pretese erano forse un po’ troppo per i nostri potenziali clienti: spinare birra torbida, “calda”, “sgasata” e con un “sacco di schiuma” per la quale, tra l’altro, c’era da aspettare quasi dieci minuti, era davvero troppo. Alcuni non aspettavano e se ne andavano senza pagare con la birra ancora a metà riempimento, altri non credevano che producessimo birra perché non vedevano gli enormi serbatoi e gli “alambicchi” che nella fantasia popolare rappresentavano l’unico segno accreditato di una produzione birraria, altri erano convinti che in caldaia di miscela ci facessimo le pizze, ma il più grande fu un anziano del paese che un giorno, con il fare di quello che sa di averti smascherato e sbugiardato ci disse che non avrebbe mai bevuto le nostre birre perché lui sapeva, lo sapeva benissimo, che ci mettevamo l’acqua!
Il ’97 è l’anno in cui Agostino conosce Kuaska, noto degustatore italiano, con il quale inizia una collaborazione fruttuosa. Il suo orizzonte birrario si allarga ulteriormente, grazie anche ai contatti sempre più stretti con altri “pionieri” come Teo Musso del “Le Baladin”, Guido Taraschi (Centrale della Birra) e poi ancora Enrico Borio, (Beba), Stefano Sausa (Vecchio Birrario) e Davide Sangiorgi (Lambrate). Si crea così un gruppo di amici-birrai che di lì a poco avrebbe fondato Unionbirra, subito dopo ribattezzata Unionbirrai.
Nel 2002 il birraio Andrea Bravi, oggi al Birrificio di Como, entra nella squadra e la produzione continua a migliorare, la Rossoscura, la seconda birra prodotta, va in pensione, sostituita da un’altra rossa molto più beverina e elegante: la Bibock. Arrivano poi l’Amber Shock, la Negra, la Prima e infine la Cassissona. Dopo una visita alla birreria di Sohenstetten, Baden-Württemberg, e l’assaggio delle loro Weizen, nasce la VùDù. Nel ‘99 arriva Maurizio Folli, oggi tra i soci, a dar manforte ad una produzione in netta crescita. Il consumo di birra aumenta e nel 2000 il tino di cottura si allarga a 700l per poi lasciare il posto, nel 2005, ad una sala cottura di 20 ettolitri. I cambiamenti danno inizio ad una serie di problemi qualitativi che spingono il Birrificio Italiano ad affrontare l’impegnativa sfida alla stabilità e al controllo costante delle proprie birre, vinta grazie anche all’esperienza maturata da Agostino in alcuni corsi sostenuti negli Stati Uniti e all’acquisto di nuovi strumenti di monitoraggio. E’ il salto definitivo che porta il birrificio ad essere apprezzato in Italia quanto all’estero, dove ottiene prestigiosi riconoscimenti in alcuni concorsi internazionali, come la medaglia d’oro alla Vùdù al World Beer Cup nel 2010 o i due riconoscimenti conquistati all’European Beer Star.
Per scavare ulteriormente nell’anno 0 della birra artigianale, il 1996, abbiamo posto qualche domanda proprio ad Agostino Arioli, birraio e anima del Birrificio Italiano.
Quando apre precisamente il Birrificio Italiano, ovvero quando produce la prima birra destinata alla vendita?
Il birrificio come società apre nel 1994, la prima cotta è dell’aprile del ’96.
Hai una spiegazione sul perché sei birrifici aprirono proprio in quell’anno?
Sicuramente il cambiamento legislativo del ’92 aveva gettato le premesse per aprire un brewpub. Le modifiche del legislatore permettevano ad un piccolo birrificio con annessa mescita, di derogare parte di una normativa ormai vecchia, pensata per la grande industria, che imponeva obblighi a dir poco assurdi per un microbirrificio. Senza dimenticare che negli anni ’80, con la diffusione del pub, si potevano fare emozionanti esperienze, mi riferisco ad alcune birrerie che offrivano la possibilità di conoscere stili sconosciuti e prodotti interessanti che alimentavano la passione per la buona birra.
Quando hai capito che avresti fatto il birraio da grande?
Probabilmente cominciai a crederci nei primi anni ’90, quando ero in Val d’Orcia. Presi poi coraggio ed entusiasmo viaggiando e visitando brewpub che mi lasciarono il segno.
Qual’è la prima birra che hai prodotto?
La prima in assoluto è la Tipopils, naturalmente un tempo meno elegante di quella di adesso. Con il tempo ho cambiato la ricetta e la maturazione. La seconda era la Rossoscura, una lager intensa, dal gusto maltato, meno beverina e pulita della Bibock che nel ’97 a preso il suo posto.
Quale sono stati i momenti più emozionanti in questi 15 anni?
Sicuramente la costruzione dell’impianto e la progettazione del brewpub hanno richiesto un grande impegno e grande lucidità, ma sono stati momenti veramente appaganti. Anche nei primi periodi di difficoltà, quando ancora non eravamo conosciuti e la gente faceva fatica a comprendere la nostra birra, c’era molta preoccupazione ma anche entusiasmo e convinzione. Un altro momento importante il birrificio lo vive nel 2005 con il cambio impianto. I problemi che il cambiamento comporta a livello produttivo ci impongono di ampliare la conoscenza e l’attenzione al controllo della qualità della birra. Personalmente frequentai un corso a Chicago e, inoltre, acquistai lentamente esperienza nella degustazione, importante per valutare le mie birre e la loro evoluzione. Ne sono nate birre meno rozze e certamente più eleganti. Un altro momento che ricordo con estremo piacere è nel ’98, quando al primo salone del gusto incontrai Charlie Papazian, che poi coinvolgemmo a Rimini, a Pianeta Birra, in una degustazione a dir poco memorabile. Un incontro importante quello con Papazian, una persona pacata con prospettive ampie, orizzonti larghi, che mi piacque particolarmente perché aveva questo modo di porsi tutt’altro che altezzoso. Poi ricordo con piacere il grande Michael Jackson, i primi anni di UB a Pianeta Birra a Rimini, dove si respirava un’atmosfera cameratesca indimenticabile. E poi naturalmente i premi, quello della vùdù, molto emozionante perché ero presente alla premiazione, e poi con orgoglio il riconoscimento alla Tipopils, perché è la birra del cuore.
I più bui, che ti hanno fatto dire “mollo tutto”?
Nel 2003/2004 stavo realizzando una partnerschip importante con un nuovo socio, la cosa saltò. Fortunatamente Maurizio e gli altri mi convinsero che ce l’avremmo fatta con le nostre gambe. Il loro entusiasmo fu un toccasana e ripartimmo con le nostre forze, sistemando un’area del birrificio e adattandola ad ospitare la nuova produzione.
Nonostante tu sia tra i pionieri ci sono birrifici che sono cresciuti per dimensione e diffusione più velocemente di te. E’ stata una scelta la vostra?
Certamente. La nostra filosofia è quella dei piccoli passi. E non solo. Io rimango in birrificio, il mio posto non è da altre parti. Piuttosto che ingrandirci ad ogni costo abbiamo preferito dedicare tutte le nostre energie al miglioramento e al controllo della produzione, della catena distributiva e commerciale. Non lo vedo come un limite, ma come una scelta di vita consapevole. Noi cresciamo secondo un modello che non è quello di lavorare 80 ore a settimana, non abbiamo la foga dell’ingrandire, del fare i soldi, per noi il luogo di lavoro deve essere a misura d’uomo. Io devo stare bene, non voglio vivere il lavoro come sofferenza, né voglio che lo viva così chi lavora al birrificio. Oggi posso affermare di godermi il mio lavoro.
Sono passati “solo” 15 anni ma per la birra artigianale sono un secolo. Quali sono i momenti importanti di questa epoca?
Una tappa di rottura la vedo nel 2000 con la crescita esponenziale dei birrifici, l’attenzione dei media al fenomeno birra artigianale e l’instaurazione di contatti con l’estero, importanti per la circolazione delle idee. La qualità della birra artigianale è cresciuta molto in Italia. Ovviamente io mi riferisco ad una ventina di birrifici che fanno eccellenza, il movimento è cresciuto complessivamente in qualità. Credo che arrivati a 500 microbirrifici in Italia, il numero comincerà a stabilizzarsi e avremo un aumento qualitativo imposto dalla concorrenza e da un consumatore sempre più attento e consapevole.
Addirittura, in 15 anni soltanto, si parla di generazioni di birrai: la prima generazione, i pionieri (1996-98), la seconda generazione (2000-2005), e la terza generazione, i nuovi birrai. Trovi delle differenze tra i birrai di un tempo e quelli di oggi?
Gli ultimi birrai sono molto fortunati perché hanno la strada a dir poco spianata, ma hanno il compito di approfondire aspetti e ambiti conoscitivi che noi non abbiamo ancora battuto. Adesso ce ne sono anche di improvvisati , cosa prima non possibile, ma anche di bravi. Lo dico perché come formatore, ho istruito birrai dal futuro roseo come Andrea Bravi oggi in forza al Birrificio di Como, Giovanni Campari del Birrificio del Ducato o i ragazzi del Birrificio Rurale.
Oggi il movimento birra è a dir poco frantumato, avresti mai immaginato da fondatore di UB ad uno scenario di questo tipo? Quali sono le cause che hanno impedito un’azione corale?
In Italia purtroppo impera questa mentalità da bottegai, ognuno pensa al suo orticello e non guarda oltre. All’inizio la birra artigianale era animata da persone che avevano grande entusiasmo e spirito di gruppo, poi qualcosa è cambiato ed è venuto meno lo spirito del confronto e della collaborazione che animava i primi anni. Sono poi entrate persone prive di passione, spinte nelle loro scelte soltanto dal denaro.