Anche l’occhio vuole la sua parte: perché osservare una birra?
Andiamo a guardarci due birrette stasera? Nessun amico, a meno di volersi candidare a un T.S.O, vi rivolgerà mai questo invito. Sorridiamo, ma non troppo: l’esame visivo è una componente fondamentale della degustazione che viene troppo spesso sottovalutata. La vista, nella nostra società, è sicuramente il più sollecitato e abusato dei cinque sensi: oltre ad essere bombardati da immagini digitali siamo stati abituati fin da piccoli al motto “l’occhio vuole la sua parte” e negli ultimi tempi l’estetica ha prepotentemente invaso anche la cultura gastronomica, tanto da rendere l’impiattamento una sorta di religione laica. Questa ipertrofia dell’occhio non ha però contagiato il mondo birrario: il consumatore medio italiano continua infatti a ordinare bionde, rosse e nere senza curandosi di valutare la trasparenza o meno di una birra o la tenuta della schiuma. Cosa ci può dunque raccontare la nostra birra se abbiamo la pazienza di sottoporla a uno screening visivo accurato? Molto, sia di se stessa, dei suoi ingredienti e della sua età, che della conservazione e del servizio, ovvero di come sia stata coccolata o maltrattata. L’esame visivo è il primo step della degustazione di una birra leggiamo spesso in dispense e manuali: ne siamo sicuri? Il grande Michael Jackson ci ha infatti insegnato che, quando riceviamo l’agognato bicchiere nelle nostre mani, è opportuno portarlo subito al naso al fine di effettuare una veloce ricognizione olfattiva: ci sono infatti aromi volatili che spariscono in pochi secondi, mentre il colore della nostra birra difficilmente cambierà nella pinta!
Per le medesime ragioni di brevità della vita, è invece buona norma, quando si approccia l’esame visivo, occuparsi in primo luogo della schiuma. Tanta è sempre un bene? La risposta è “no”: se ci arrivano un Barley Wine o una Bitter per metà pieni di schiuma è lecito farsi delle domande esattamente come di fronte a una Pils o a una Hefeweizen senza il loro candido cappello. Tutti noi abbiamo poi incontrato il fenomeno del gushing, ovvero la fuoriuscita violenta di schiuma da una bottiglia appena stappata, con conseguenti grosse perdite di contenuto. A cosa è dovuto il gushing? A volte alla rifermentazione e al dosaggio del relativo lievito, altre a una contaminazione batterica o alla presenza di ossalato di calcio derivato dal frumento maltato; altre possibili cause sono l’infestazione del malto da parte di una muffa chiamata Fusarium e, nelle birre industriali, la presenza di ioni di ferro dovuta ai coadiuvanti di filtrazione. Una buona schiuma, inoltre, non ha solo l’abbondanza come parametro: occorre valutarne la finezza, ovvero la dimensione delle bolle, la compattezza, l’aderenza al bicchiere e la persistenza. Quante volte abbiamo visto cappelli di schiuma apparentemente molto belli ma che sparivano nello spazio di un brindisi oppure che, visti da vicino, si rivelavano costituiti da bolle grossolane o mostravano cumuli in alcuni punti della corona e imbarazzanti crateri in altre? E non dà molta più soddisfazione una schiuma che lasci degli eleganti merletti di Bruxelles sul bicchiere rispetto a una che galleggi in mezzo al liquido come un minaccioso iceberg? Il segreto di una buona schiuma risiede negli ingredienti della birra, ma non è facile dominarlo: la soffice e densa coltre che ricopre un boccale ben spillato è dovuta soprattutto ai polipeptidi ad alto peso molecolare, proteine derivate dal malto e che sono più presenti nelle varietà primaverili di orzo rispetto alle invernali. Altre sostanze amiche della schiuma sono gli α e i ß-glucani, carboidrati originati dal malto, e gli α-acidi dei luppoli, che hanno un effetto stabilizzante. Le birre molto luppolate, infatti, se servite a dovere, hanno spesso delle splendide schiume. Ma non è tutto così semplice perché le sostanze schiuma-positive sono a volte negative per la qualità e trasparenza della birra: i malti più dotati di polipeptidi ad alto peso spesso sono meno efficienti in sala cottura e danno problemi di filtrazione, mentre nelle birre di frumento si opera uno step di ammostamento chiamato ß-glucanasi proprio per evitare un eccesso di queste sostanze nel prodotto finito. Il birraio dovrà quindi ponderare con saggezza le variabili per ottenere sia una buona birra che una bella schiuma.
Un boccale con una schiuma inadeguata è quindi un capo d’accusa per il birraio? Non necessariamente, perché il problema può derivare anche dalla conservazione: un deposito caldo in cantina può peggiorare la schiuma a causa della diminuzione dei polipeptidi. La spillatura, poi, è una pratica assolutamente decisiva e in grado di rovinare ottime birre se non gestita con competenza. Una forte concentrazione di CO2 nel bicchiere causa infatti un rilascio troppo veloce di bolle enormi, grossolane (come quelle dell’acqua frizzante o di una bibita) e che spariscono in fretta lasciando calva e indifesa la birra. Per questo motivo la conseguenza della classica spillatura da festa paesana, con il beccuccio dello spinone orrendamente immerso nel bicchiere per evitare la formazione di schiuma, è una birra sovrasatura di CO2 che stanca al secondo sorso e provoca sgradevoli gonfiori gastrici. Negli ultimi tempi è però nata in Italia un’altra, opposta, tendenza nefasta: quella del publican che spilla birre di qualunque stile “a caduta”, che, secondo una sua personale interpretazione, significa posizionare il bicchiere due metri sotto la spina. Rompendone tutta la naturale carbonazione, alcune birre come le American IPA giungeranno ai vostri sensi con tanta schiuma, ma totalmente piatte e ridotte a succhi di frutta o té alla pesca. Da ultimo, la scarsa tenuta della schiuma può essere dovuta a una carente sgrassatura del bicchiere: se questo è stato solo lavato in lavastoviglie (magari assieme a piatti della pizza o coppe da dessert) o solo passato nello spulboy, non sarà pronto ad accogliere una buona birra perché i residui di grasso non permetteranno alle componenti della schiuma di aderire bene al bicchiere e avremo, ancora una volta, bolle grossolane e una schiuma affetta da alopecia. Solo una sequenza completa lavastoviglie-raffreddamento in acqua corrente-sgrassaggio-risciacquo consente di rispettare appieno il lavoro del birraio.
Il colore è invece l’unico elemento visivo che possiamo definire sopravvalutato, tanto da condurre molte persone a classificare le birre in base a questo parametro come se tutte le “bionde” fossero accomunate dagli stessi aromi e sapori e così tutte le “rosse” e le “scure”. E’ un quotidiano compito di noi publican spiegare al cliente come il colore anticipi poco o nulla di ciò che si troverà in una birra. Il colore può generare inoltre il cosiddetto “errore di aspettativa”: mi è capitato di sentire bevitori esperti esclamare con sicurezza appena messa sotto il naso una birra ambrata: caramello! Anche se di sentori di caramello, in quel bicchiere, non ve n’erano proprio. La valutazione cromatica, indispensabile nei concorsi per determinare l’appartenenza o meno a una categoria di riferimento, può essere fuorviata anche dallo spessore del vetro: normalmente le birre più chiare vanno servite in bicchieri più fini proprio per evitare questa distorsione.
Un parametro importante e sottovalutato è invece la brillantezza, che è altro dalla trasparenza: provate ad affiancare due campioni della stessa birra, una fresca e una vicina alla data di scadenza o oltre, la differenza sarà lampante. I fenomeni ossidativi tendono infatti a scurire e rendere più spento il colore della bevanda; un’altra caratteristica visiva molto affascinante sono i riflessi verdognoli che si possono ammirare in birre molto luppolate, in particolare le Pils artigianali con una massiccia iniezione di “oro verde”.
La trasparenza è uno dei fattori più eloquenti sulla nostra birra e il suo servizio: tutti ormai sappiamo che opalescenza, velatura e torbidità (in ordine crescente) di una birra dipendono dalla presenza di residui di lievito o di luppolo da dry hopping oppure ancora da particelle proteiche non coagulate durante il whirlpool e quindi non eliminate con il trub caldo. Magari non tutti sanno però che i canoni di bellezza in quest’ambito stanno cambiando. Ad esempio nella East Coast statunitense guadagnano consensi le cosiddette New England IPA o Juicy IPA, birre in cui i sentori luppolati di frutta tropicale e a polpa gialla sono ancora più spinti che nelle IPA californiane e in cui questa aromaticità è accompagnata dalla non filtrazione e dalla presenza di fiocchi di avena o frumento che donano una texture più morbida in bocca. Il loro aspetto è sovente simile a un succo di frutta e decisamente spiazzante: sarà una moda passeggera o un nuovo stile codificato nei concorsi? Staremo a vedere, ciò che ci interessa sottolineare è che la velatura o torbidità di una birra non deriva necessariamente dagli ingredienti ma può nascere, ancora una volta, da una temperatura scorretta di servizio o da problemi di igiene nell’impianto di spillatura. Il fenomeno del chill haze, ovvero la torbidità dovuta a proteine che alcune birre mostrano a freddo, è ben noto: anche se le linee guida di alcuni stili specie quelli inglesi, non ammettono in alcun caso il chill haze, la sua presenza denuncia in generale un servizio a temperatura glaciale e quindi non adeguata alla degustazione.
Parlando invece di igiene, un bravo birraio mi ha raccontato di aver un giorno ordinato una sua birra in un pub all’orario di apertura ed esser rimasto basito per l’opalescenza del liquido nel suo bicchiere. Mentre si interrogava su possibili problemi del fusto, vide un secondo e un terzo cliente chiedere la medesima birra e ottenere liquidi via via più limpidi: l’addetto alle spine non aveva spurgato la birra rimasta nei tubi la sera precedente, ciò che i bavaresi chiamano “il guardiano di notte”. Per quanto il calore e l’ossidazione rovinino la bevanda, una permanenza di una sola notte non avrebbe però potuto rendere opalescente una birra solitamente limpida, evidentemente la linea di spillatura non era nemmeno adeguatamente pulita e sanificata e aveva quindi donato al liquido i caratteristici residui acidi dovuti alle sostanze amaricanti del luppolo e i depositi alcalini (il cosiddetto “sasso di birra”) costituiti da sali minerali che allignano nelle tubature in cui non si svolgano cicli almeno bisettimanali di sanificazione e risciacquo. Guardate sempre la vostra birra, vi potrebbe rilevare molti segreti!