Ahi Maria del Birrificio Desmond
Piaccia o non piaccia; ammissibile o meno che lo si consideri, da parte delle ‘Accademie della Crusca’ operanti sulle rispettive sponde, l’esperienza ‘fusion’ in corso tra mondo birraio e mondo vitivinicolo rappresenta un dato, un’evidenza, di cui, in questa fase, occorre forse solo prendere atto. Discutendone, certo: chiedendosi se e come questa strada possa raggiungere approdi interessanti e, al di là del mutevole sguardo dei segnavento, destinati a “scrivere” qualcosa di duraturo. In questo scenario, ponendoci esattamente con tale attitudine cronistica, proseguiamo nel nostro prendere (e porgere, ai lettori) appunti sui vari prodotti che abbiamo modo, via via, di conoscere e assaggiare. Così questa volta puntiamo i riflettori sulla Ahi Maria, ultimogenita di casa Desmond: una creatura che il “padre”, Arrigo De Simone (ideatore e realizzatore di tutte le ricette sfornate da marchio di Spoltore, nei pressi di Pescara), ha battezzato appunto come Eno-Ipa. Wine Ipa, spiega, sarebbe stata una definizione più immediata ed evocativa, ma meno precisa.
Sì, perché in questo caso, a “contaminare” il processo brassicolo, non è un’effettiva aggiunta di vino, ma l’utilizzo di un lievito tipicamente vinicolo: che manifesta “comportamenti” e apporti sensoriali senz’altro in linea con la propria ascendenza; ma che, comunque, non è vino in sé. Andiamo con ordine. La base della “Ahi Maria” è quella di una India Pale Ale all’inglese: miscela secca di malto Pils e Pale, al 50 e 50; luppolatura altrettanto lineare, con Premiant in amaro (per 76 Ibu finali) e Fuggles in aroma (late e dry hopping). Al mosto che ne deriva – eccolo il “punto di divergenza” rispetto a un brassaggio canonico – si applica però un lievito da Montepulciano d’Abruzzo (il rosso principe delle terre aprutine): le cui cellule fermentano molto velocemente (2, massimo 3 giorni); con un’attenuazione ragguardevole (82-85%); e dando luogo a una flocculazione lenta, ma anche a una formazione di deposito molto limitata, in virtù di una riproduzione decisamente contenuta. Dopo la maturazione di rito, al momento della mescita – premettendo che si tratta di un progetto in divenire, cotta per cotta (nella primissima, ad esempio, le Ibu erano state 82) – il risultato presenta comunque diversi spunti d’interesse. La birra – oltre a un bel colore ambrato dalle vive luminosità aragosta, corredato da una schiuma fitta, densa e persistente – esibisce un naso come minimo complesso: vi convivono fiori (rosa bianca) e spezie (chiodo), frutta matura (pesca) e secca (mandorla), resine sottili sottili e curiose suggestioni cannabis, da cui il nome “Ahi Maria” (citazione, con dedica, all’omonimo brano di Rino Gaetano). L’assetto tattile-gustativo è poi sorprendentemente orientato alle “strutture” di una Saison (pur essendone distante negli aromi): bocca asciutta, discreta acidità, finale dry e risoluta chiusura amaricante; con “punte” di spigolosità e di astringenza “vocate” al lasciarsi arrotondare: e qui il tempo, coi suoi processi di micro-ossidazione, può riuscire un ingrediente chiave. Nel retro-olfatto, poi, tornano canapa e temi pinosi, per una bevuta sicuramente non convenzionale, i cui 6 gradi alcolici hanno anche il pregio della sostenibilità.