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Tutti i metodi per raffreddare il mosto

Il raffreddamento del mosto dopo la bollitura rappresenta da sempre un problema per i produttori casalinghi. Purtroppo è un passaggio obbligato: possono infatti sorgere dei problemi se il lievito viene inoculato prima che il mosto raggiunga una temperatura di 25°C. Unica eccezione sono le fermentazioni con i lieviti Kveik, ma dobbiamo comunque scendere almeno a 40°C. Nella maggior parte dei casi, sarebbe meglio inoculare intorno ai 20°C, mentre per le basse fermentazioni, dove il problema si fa ancora più serio, dobbiamo scendere addirittura nei paraggi dei 10°C. 

Come se non bastasse, il passaggio dalla temperatura di bollitura a quella di inoculo del lievito dovrebbe avvenire in tempi brevi, per diverse ragioni, in primo luogo per scongiurare pericolose contaminazioni. Molti batteri, tra cui quelli lattici (ma non solo) riescono a moltiplicarsi molto velocemente a temperature intorno ai 40°C. Alcune specie, dette termofile, si trovano bene anche a temperature superiori. È lo stesso motivo per cui si consiglia sempre di non ricongelare il cibo scongelato: durante lo scongelamento alcune parti del cibo possono trovarsi per diverse ore a temperature ideali per favorire un velocissimo sviluppo di batteri contaminanti. Nel caso del cibo, possono essere anche pericolosi per la salute; nel caso della birra, meno, ma in ogni caso, anche in brevi lassi di tempo (un’oretta) possono moltiplicarsi velocemente rilasciando aromi e sapori sgradevoli nel mosto. 

C’è da dire che nel mosto non dovrebbero esserci batteri o lieviti in forma vegetativa dopo un’ora di bollitura: quindi, se si mantenesse il pentolone perfettamente chiuso, dovremmo scongiurare la possibilità di contaminazione. Effettivamente è così, ma ci sono anche altre ragioni per impegnarsi a raffreddare velocemente. Se si tiene la pentola coperta quando il mosto è ancora bollente, si rischia di favorire la formazione di DMS, ovvero dimetil-solfuro, un composto volatile che genera aromi di mais in scatola, verdura bollita o legumi. La formazione del DMS avviene fino a quando il mosto non scende sotto la temperatura di 70-60°C. Mentre durante la bollitura il DMS si forma ed evapora grazie ai moti vigorosi, se spegniamo i fornelli e chiudiamo la pentola (per evitare contaminazioni) il DMS potrebbe continuare a formarsi rimanendo intrappolato nel mosto. 

Un’alternativa sarebbe quella di raffreddare velocemente il mosto fino a 60°C e poi chiudere, ma rimarrebbe comunque un altro problema: la ridotta coagulazione delle proteine. Lo shock termico indotto da un raffreddamento veloce spinge le proteine a scontrarsi l’una contro l’altra, formando degli aggregati piuttosto grandi, stabili e pesanti che tendono a precipitare sul fondo della pentola. Questi blocchi di proteine attirano anche i polifenoli, sostanze astringenti contenute nei luppoli e nelle glumelle dei malti. La precipitazione di queste sostanze, che possono decantare sul fondo della pentola di bollitura oppure sul fondo del fermentatore, a seconda del metodo di raffreddamento scelto, si chiama cold break. La sua formazione in questa fase è molto importante per ridurre la possibilità che la birra presenti poi torbidità a freddo una volta imbottigliata o infustata, la cosiddetta chill haze. Il raffreddamento veloce stimola la formazione di questi agglomerati solidi che precipitano velocemente sul fondo, evitando che rimangano in soluzione fino all’imbottigliamento. Maggiore l’efficacia del cold break, minore la necessità di un cold crash (abbattimento di temperatura) prolungato a fine fermentazione e minore la possibilità che si formi chill haze una volta che la birra è stata imbottigliata.

È chiaro che, mentre una eventuale contaminazione andrebbe a rovinare irrimediabilmente la birra, l’effetto di un intorbidimento a freddo potrebbe non essere rilevante per alcuni homebrewer. Per questa ragione, diversi produttori casalinghi utilizzano ancora metodi di raffreddamento lenti con discreti risultati. Andiamo a vedere quali sono i principali metodi di raffreddamento e quali possono essere quelli più facili da riprodurre in casa. 

Koelship

Chiamate anche  in inglese, le koelship sono delle grandi vasche poco profonde in cui il mosto viene trasferito subito dopo la bollitura, quando è ancora bollente. Sebbene siano note principalmente per l’utilizzo da parte di birrifici che producono birre wild/sour, come ad esempio il belga Cantillon, le koelship sono tutt’oggi utilizzate anche da birrifici che producono birre “pulite”. La loro forma, molto ampia ma di profondità ridotta, favorisce un veloce deposito del trub (il cold break già citato), ovvero i coaguli di materiale che si formano in particolare nella prima fase del raffreddamento, quando il mosto è ancora caldo. L’ampia superficie di scambio con l’aria lascia evaporare facilmente l’eventuale DMS che si forma durante questa prima fase del raffreddamento. Il mosto, fino a quando non raggiunge la temperatura di 70°C, è ancora sufficientemente protetto da eventuali contaminazioni. Una volta raggiunti i 70°C, la koelship viene svuotata, il mosto viene passato per lo scambiatore di calore, raffreddato e trasferito nel fermentatore. In questo modo, si scongiurano potenziali contaminazioni beneficiando degli effetti positivi della vasca di raffreddamento. Se l’obiettivo è invece quello di produrre birre a fermentazione spontanea, tendenzialmente anche acide, il mosto caldo viene lasciato in una vasca tutta la notte favorendo la contaminazione ambientale, per poi spostarlo – solitamente in botte – il giorno successivo quando avrà raggiunto la temperatura di fermentazione. In questo secondo caso permangono gli effetti positivi del raffreddamento in vasca, ma ovviamente il mosto sarà molto probabilmente già contaminato quando arriverà nel fermentatore o nella botte. 

Scambiatore a piastre

Si tratta del metodo più efficace in termini di risparmio di acqua e velocità di raffreddamento. Consiste nel far passare il mosto, ancora caldo, all’interno di una serie di piastre strette e larghe. Queste piastre sono intervallate da altre piastre, identiche, in cui passa acqua fredda. L’ampia superficie di scambio favorisce il passaggio istantaneo di calore dal mosto all’acqua. All’ingresso dello scambiatore entrano mosto bollente e acqua fredda; all’uscita, troviamo invece acqua calda e mosto freddo. Come è facile intuire, l’entità della riduzione di temperatura del mosto dipende dalla velocità del flusso e dalla temperatura dell’acqua in ingresso: più l’acqua è fredda, maggiore sarà la riduzione di temperatura del mosto; più lento il flusso (specialmente quando la differenza di temperatura tra mosto e acqua inizia a ridursi), più efficace lo scambio termico.

Raccontata così, sembrerebbe la soluzione a tutti i problemi dell’homebrewer. Senza dubbio è uno dei metodi più efficaci, tant’è che è quello che si trova in ogni birrificio, da quelli artigianali a quelli industriali. A livello casalingo, però, qualche piccolo problema c’è. 

Anzitutto, per far passare il mosto attraverso lo scambiatore in modo efficace, è consigliabile impiegare una pompa. Ci si può riuscire anche per gravità, ma potrebbero verificarsi intasamenti o un rallentamento eccessivo del flusso. Aggiungere una pompa al flusso in uscita dalla pentola di bollitura significa doverla tenere perfettamente pulita e sanitizzata, cosa non semplice e a volte rischiosa. Qualcuno fa circolare mosto bollente all’interno della pompa prima della fine della bollitura, ma il risultato può non essere ottimale se la pompa non è ben pulita. In genere, però, funziona. Altro elemento critico è la sanitizzazione del controflusso, perché l’interno delle piastre non è facile da pulire. Anche nel caso di scambiatori ispezionabili, ovvero smontabili, lo smontaggio non si esegue in genere dopo ogni cotta, perché richiede molto tempo. Per garantire una pulizia ottimale delle parti interne, servono prodotti detergenti efficaci a base di soda caustica o enzimatici e un successivo passaggio di soluzioni sanitizzanti acide come acido peracetico o Starsan. Anche la conservazione non è semplicissima se lo si usa saltuariamente, perché all’interno delle piastre potrebbero formarsi muffe. Alcuni lo tengono sempre riempito con soluzione sanitizzante per poi svuotarlo al momento dell’utilizzo. Insomma, la sanitizzazione di uno scambiatore non è proprio immediata, ma ovviamente con l’abitudine si riesce a gestire senza grandi problemi.  

Infine, un ulteriore elemento critico: la temperatura dell’acqua di ingresso. Per rendere efficace il raffreddamento, molti birrifici utilizzano acqua proveniente da un tank raffreddato. Specialmente in estate, è difficile raffreddare fino ai 20°C con un solo passaggio per lo scambiatore. A volte si è costretti a far ricircolare il mosto in pentola finché non raggiunge una temperatura adeguata all’inoculo del lievito, oppure terminare il raffreddamento in frigorifero. Considerando quanto detto, a livello casalingo, lo scambiatore ha senso quando si producono molti litri: sotto i 20 litri di produzione è probabilmente più comoda una serpentina a immersione, come vedremo a breve. 

Serpentina con controflusso

La dinamica di raffreddamento è molto simile a quella dello scambiatore a piastre. Al posto di scorrere all’interno delle piastre, acqua e mosto scorrono, in senso inverso, dentro due lunghi tubi uno dentro l’altro. Il mosto, in genere, scorre all’interno di un tubo in acciaio inox o rame; l’acqua, invece, in un tubo che può essere anche di semplice gomma. Il tubo in cui scorre il mosto si trova all’interno del tubo in cui scorre l’acqua, favorendo il passaggio del calore dal mosto all’acqua. La lunghezza del controflusso – così come la numerosità delle piastre nel caso dello scambiatore – determina l’efficacia del raffreddamento. Il controflusso presenta più o meno gli stessi svantaggi dello scambiatore: necessità di una pompa per far scorrere il mosto (può funzionare anche a caduta), difficoltà nella sanitizzazione, criticità nella conservazione se utilizzato saltuariamente e forte dipendenza dalla temperatura dell’acqua di raffreddamento. La pulizia e lo scorrimento del mosto all’interno del tubo generano meno criticità rispetto allo scambiatore perché il tubo è più largo delle piastre e tende a bloccarsi meno con i residui solidi trasferiti dalla pentola di bollitura.

serpentina raffreddamento

Serpentina a immersione

Questo è il metodo più utilizzato in assoluto dai produttori casalinghi. La ragione è presto detta: la sanitizzazione e la pulizia della serpentina a immersione sono semplicissimi. Si tratta infatti di tubo in rame o acciaio inox avvolto a spire, immerso nel mosto a fine bollitura. All’interno scorre l’acqua che raccoglie il calore raffreddando il mosto bollente nella pentola. L’interno del tubo della serpentina non ha bisogno di pulizia né sanitizzazione, dato che l’acqua che ci passa viene poi scartata oppure riutilizzata per sciacquare le pentole o annaffiare il prato, senza però venire mai a contatto con il mosto. La pulizia si può fare semplicemente con una pezzetta non ruvida e sapone per piatti. Per la sanitizzazione è sufficiente immergere la serpentina (ben pulita) nel mosto quando mancano 15 minuti alla fine della bollitura. 

L’enorme vantaggio della serpentina è, ovviamente, la praticità: non richiede praticamente manutenzione, se non una veloce pulizia dopo l’utilizzo. L’aspetto negativo è che lo scambio di calore non è particolarmente efficace, specialmente se il mosto nella pentola è fermo. Si potrebbe far ricircolare con una pompa per rendere il tutto più efficiente, ma tornerebbero gli svantaggi di utilizzare una pompa in questa fase. Si può girare a mano, rimettendo però in circolo il deposito che si forma sul fondo della pentola. C’è da dire poi che raramente le serpentine si adattano perfettamente alla pentola: spesso alcune spire escono fuori dal mosto, freddando l’aria anziché il mosto caldo. 

In questo caso, ma anche per i metodi precedenti, una soluzione può essere quella di raffreddare fino a 50-40°C con acqua di rete, quando lo scambio termico è più efficace, per poi utilizzare qualche altro metodo. 

Alcune idee: utilizzare un’altra serpentina per far ricircolare l’acqua in una soluzione frigorifera di acqua sale e ghiaccio prima di arrivare al mosto; finire di freddare nel frigorifero in cui si fermenta, per poi ossigenare e inoculare quando il mosto avrà raggiunto la temperatura di inoculo; utilizzare una soluzione raffreddata di glicole per l’ultima fase del raffreddamento; oppure, ancora, praticare una bollitura concentrata e diluire, verso la fine del raffreddamento, aggiungendo acqua quasi congelata da bottiglie chiuse. 

Personalmente, ho trovato un buon compromesso raffreddando il mosto con serpentina fino a 30-35°C, trasferendolo poi nel fermentatore per finire il raffreddamento in frigorifero già impostato alla minima temperatura raggiungibile. Per raffreddare i miei classici 12-13 litri con una serpentina a immersione inox, impiego in genere 25-30 minuti nel pentolone e qualche ora nel frigorifero per arrivare a 20-15°C. 

Immersione nel ghiaccio

Chi vive al freddo, come ad esempio nel caso di alcuni homebrewer americani del Michigan in inverno, prende banalmente il pentolone e lo immerge all’esterno nella neve. L’equivalente di questo metodo per chi vive a latitudini più miti è di immergere la pentola in una soluzione di acqua e ghiaccio. Provai questo metodo alla mia prima cotta, immergendo la pentola con 20 litri di mosto nella vasca da bagno con alcune bottiglie di acqua ghiacciata. Fu un’odissea che durò diverse ore e che sconsiglio a chiunque di vivere. 

Metodo “no chill” 

Non possiamo chiudere questa rassegna senza citare il metodo cosiddetto no-chill, ovvero senza raffreddamento. Il che non significa che non si raffredda il mosto, ma che lo si lascia raffreddare con calma, tipo il minestrone a fine cottura, nella pentola, da solo, prendendosi il tempo che serve. In questo caso, valgono tutte le controindicazioni del raffreddamento lento esplicitate all’inizio dell’articolo. Io non lo farei e non l’ho mai fatto, ma ci sono homebrewer che giurano di aver prodotto ottime birre lasciando raffreddare il mosto bollente per tutta la notte. Qualcosa di vero ci sarà, considerando che su alcuni siti inglesi vendono contenitori in HDPE (una plastica alimentare resistente al calore) pensati appositamente per riempirli fino all’orlo con il mosto bollente, chiuderli e lasciarli raffreddare a temperatura ambiente. Particolare attenzione va posta al livello di amaro, perché fino a che la temperatura del mosto non scende sotto i 70-60°C, proseguirà l’isomerizzazione degli alfa acidi aumentando le IBU.