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Ordinare al bancone: quando le parole sono importanti

Le parole hanno un peso. Le parole hanno potere. Le parole sono sacre. Difficile non concordare con questa lapidaria triplice sentenza dello scrittore e umorista ebraico newyorkese Shalom Auslander, a cui andrebbe aggiunto, a mo’ di indispensabile corollario, che le parole sanno anche vendicarsi: se vengono usate a sproposito, infatti, sono capaci di diventare cliché e tormentoni che perseguitano per anni e lustri non solo l’incauto utilizzatore inopportuno ma un’intera comunità linguistica, con conseguente sanguinamento delle orecchie per chi ama, anche solo inconsciamente, la semantica e la logica. Esempi? Le bombe d’acqua, locuzione idiota che causa una sincope a un meteorologo ogniqualvolta un giornalista la pronunci, l’orrido neologismo apericena e, in ambito birrario, il tormentone non ancora debellato della birra cruda.

Anche in ambito brassicolo, ovviamente, le parole sono fondamentali e dopo anni di crescita di interesse e consapevolezza verso il prodotto birra e i produttori artigianali da parte di una fetta sempre più vasta della popolazione si assiste oggi a una sovrapposizione tra almeno due diversi livelli di lessici e vocabolari. La nicchia degli appassionati ha infatti un proprio codice linguistico, peraltro in costante evoluzione, focalizzato a ottenere una sempre più efficace prensione su stili e sottostili, nonché a cesellare descrittori sempre più adeguati e ficcanti in tema degustativo. La vasta moltitudine di chi si è avvicinato e si avvicina alle birre di qualità solo occasionalmente o comunque senza alcuna velleità di diventarne un esperto, invece, ha arricchito quello che era il primitivo lessico di quattro parole (bionda, rossa, nera, doppio malto), sufficiente a ordinare una birra in Italia fino a un paio di decenni fa, con termini letti e orecchiati qua e là, tra uno spot televisivo di un marchio crafty, un articolo dedicato al “fenomeno artigianale” sulla stampa generalista e magari, dopo due anni di pandemia, una degustazione on line captata più o meno per caso nei mesi dell’isolamento domestico.

È così che al publican o barista di turno capita sovente di ricevere richieste come la già citata birra cruda oppure di sentire utilizzati termini quali corposa, secca, fruttata, amabile e lo stesso artigianale ad indicare significati completamente diversi rispetto a quanto intendano, con quelle stesse parole, gli esperti e appassionati: l’unica soluzione, in questi casi, è avviare un esercizio di maieutica, un dialogo socratico con il sorriso sulle labbra finalizzato a comprendere cosa il cliente stia davvero desiderando e indirizzarlo così nel più breve tempo possibile verso la soluzione dell’enigma.

Tra i due mondi peraltro, è sovente necessaria una vera opera di mediazione linguistico-culturale: tanto quanto l’esperto volge sconsolato gli occhi al cielo quando sente un neofita utilizzare un termine in modo errato o porre una richiesta, a suo dire, banale, allo stesso modo il consumatore che vuole solo una birra corrispondente alle sue preferenze personali ma un po’ più buona di quella che trova sullo scaffale del supermercato, ride sotto i baffi o mostra segni di noia e insofferenza di fronte a descrizioni troppo complesse, fantasiose e arzigogolate.

Una delle più grandi doti di Michael Jackson era del resto quello di saper descrivere efficacemente una birra con poche parole chiare e comprensibili per tutti: ciò è esattamente anche il compito del bravo publican specializzato in birre artigianali, con buona pace degli esperti senza oneri e impegni commerciali che stigmatizzano la semplificazione esclamando indignati “ma come? Siamo ancora al publican che ti chiede se preferisci una birra dolce o amara?” sottovalutando che questa richiesta, sicuramente di livello basilare ed apparentemente banalotta, è l’inevitabile e a tutt’oggi insostituibile risposta, insieme ad una generica indicazione sul grado alcolico desiderato, per capire se chi chiede una bionda preferisca una Helles, una Pils o una Session IPA, se per rossa si intenda una Vienna, una Dubbel o una American Red Ale, o se per doppio malto si stia pensando a una Tripel o una Double IPA.

Date queste premesse, possiamo sicuramente provare a tracciare un glossario da bancone per provare a facilitare la reciproca comprensione tra addetti ai lavori ed esperti da una parte, e neofiti o semplici (si fa per dire, dal momento che è nelle loro mani e nei loro palati il futuro della birra artigianale) consumatori più esigenti della media.

Amabile
È una richiesta piuttosto rara ma che può capitare: il cliente che utilizza questo termine desidera solitamente una birra non amara o priva di durezze boccali Capita anche che consumatori stranieri chiedano una birra smooth intendendo una lager senza grosse caratterizzazioni aromatiche.

Amara
Ovvero, delle sorprese che sempre riserva la percezione di tale gusto, irriducibile alla stima numerica degli IBU e connesso più di ogni altro sapore alla percezione individuale: l’appassionato che chiede una birra “amara” intende solitamente una APA o American IPA, ma magari rifiuta una Belgian Blond ben luppolata di nuova generazione perché, a causa della maggiore secchezza, la trova “troppo amara”. Non di rado, all’opposto, il consumatore abituato a Lager e Pils rifiuta una NEIPA o semplicemente un’American IPA brassata sulla base della tendenza degli ultimi anni, ovvero più spinta sugli aromi che sull’amarezza, perché percepisce come “dolci” le note tropicali dei luppoli.

Artigianale
L’esistenza di una specifica legge nazionale che definisce cosa sia una birra artigianale è una conoscenza che, ad anni di distanza dall’approvazione della norma, è ancora purtroppo confinata alla ristretta nicchia degli addetti ai lavori e degli appassionati. D’altro canto si deve constatare come in altri Paesi il termine non abbia esatti equivalenti (l’anglosassone craft è il più vicino ma non è semanticamente coincidente) o addirittura, come accade in Belgio e in Germania, il concetto nella sua accezione italiana risulti del tutto estraneo alla cultura di quelle nazioni, ove si distingue più tra birrificio familiare e birrificio di proprietà di un grande gruppo. Per molti consumatori italiani birra artigianale significa semplicemente “prodotta da un piccolo birrificio”, ma per non pochi è ancora sinonimo di “estrema, strana”, da qui le occasionali richieste ma hai solo birre artigianali? Non mi piacciono perché sono… speziate o amare o altro, oppure: dammi una birra che non sappia di artigianale o la meno artigianale che hai. Quasi superfluo aggiungere che quando si fa assaggiare a queste persone una Lager artigianale ben fatta le si vede trasfigurare e pronte ad esplorare tutto un mondo sconosciuto con nuovi occhi.

Bianca
Ovviamente è usato per indicare una birra con frumento ma attenzione: assai più spesso di quanto capitasse in passato, quando il publican comincia con le domande maieutiche scopre che il consumatore conosce, almeno a livello di preferenza personale, la differenza tra Blanche e Weizen e ha sovente una preferenza netta per uno dei due stili e una spiccata antipatia per l’altro. The Times They Are a Changin’ direbbe Bob Dylan.

Bionda
Quasi sempre è sinonimo di Lager chiara, ma non di rado quando si elencano le varie opzioni “chiare” disponibili nella tap list il cliente si indirizza magari verso una IPA o una Belgian Blond con uno sguardo che trasmette la piacevole sorpresa di poter scegliere tra più “bionde”.

Birra
Come per bionda, spesso si sottintende una lager chiara e leggera ma anche in questo caso l’esposizione di diverse opportunità di scelta fa mostrare al cliente il proprio lato gustativamente avventuroso. La riflessione che sorge spontanea è che i clienti al di fuori della cerchia degli appassionati ancora non siano abituati ad avere a che fare con staff competenti che sappiano descrivere le birre disponibili: non è infatti raro ancora oggi, sedendosi in un bar (non in un pub specializzato, ovviamente) con un bel frigo di bottiglie o magari pure qualche interessante spina a disposizione, faticare a trasmettere la propria ordinazione al personale che sgrana gli occhi e comincia a domandare, con panico crescente “quale, scusa? Guarda, io lavoro qui ma proprio non me ne intendo” e succede pure ancora di sentirsi rispondere “boh, vado a chiedere” alla domanda “che birre avete?”.

Classica
Chi effettua questa richiesta desidera solitamente una lager industriale italiana o un marchio estero da multinazionale e il suo desiderio, totalmente insensato per gli appassionati, deriva da brutte esperienze avute con birre artigianali: come già detto sopra, offrirgli una buona lager artigianale renderà tale persona felice, e al settimo cielo sarà anche il publican quando questo cliente tornerà dicendo “sai che non riesco più a bere quelle altre?”

Corposa
La confusione tra corpo e grado alcolico miete ancora vittime anche tra gli addetti ai lavori e gli appassionati di lunga data, quindi il consumatore comune che chiede una birra corposa intendendo il termine come equivalente di ad alto grado alcolico o come sinonimo di doppio malto (v.) va assolutamente scusato. Quando poi si va a spiegare, dopo averlo servito, cosa sia effettivamente il corpo di una birra si scopre non di rado che il cliente è perfettamente in grado di identificarlo a livello boccale.

Cruda
Termine nefasto, insensato e fuorviante che ogni bravo publican desidererebbe veder sparire dalla faccia della terra schioccando le dita. È assai di rado inteso dal consumatore che la richiede come sinonimo di “non pastorizzata”, ovvero l’unico senso che questa parola potrebbe vagamente avere in ambito brassicolo: molto più spesso infatti il cliente comune lo intende come equivalente di “artigianale” con tutta la confusione del caso quando si ha a che fare con le sempre più numerose varianti non pastorizzate di grandi marchi industriali.

Dolce
In misura minore di quanto accada con amaro (v.) anche questo termine riserva a volte sorprese: se è vero che solitamente si soddisfa questa richiesta con una birra dalla prevalenza maltata come una Vienna, una Märzen o una Bock o una con rilevante presenza di esteri come una Blanche, una Weizen o una Dubbel, le NEIPA e in generale le IPA di nuova generazione con ridotta presenza di luppolo da amaro, sono sempre più spesso una risposta creativa a tale domanda.

Doppio malto
Un’autentica leggenda italiana, questa locuzione è per lo più intesa, ovviamente, come sinonimo di forte, alcolica o anche di corposa. L’aspetto più divertente è che quando si ha tempo di spiegare ai clienti come esso sia un termine dalla valenza esclusivamente fiscale e che non ha uso equivalente in nessun altro Paese al mondo le persone lo abbandonano volentieri e senza rimpianti, regalando al publican di turno un barlume di speranza nel futuro.

Fermentata
Capita più spesso di quanto l’appassionato possa pensare di sentirsi chiedere una birra “ma che sia ben fermentata” o, richiesta assai più difficoltosa, “che non sia troppo fermentata”: la genesi va ovviamente ricercata nella iperdiffusione di esperti di nutrizione (non di rado, ahimé, solo sedicenti tali) che infarciscono le teste dei malcapitati pazienti di nozioni confuse e scientificamente abborracciate sui lieviti e il loro lavoro. In questo caso occorre pazientemente chiedere alla persona quale sia la sua intolleranza alimentare (o presunta tale) e provare a consigliarla di conseguenza.

Filtrata
O per meglio dire “non filtrata”, è un termine entrato nel lessico comune a causa delle martellanti campagne pubblicitarie dell’industria che negli ultimi anni ha introdotto massicciamente nei propri portfoli versioni prive di microfiltrazione del lievito. Quasi mai il cliente che la richiede sa cosa significhi esattamente il termine e dove avvenga (o non avvenga) la fantomatica filtrazione, quando il bravo publican lo rassicura circa la presenza di sole birre “non filtrate” nella tap list, però si instaura solitamente un clima di relax e un rapporto di fiducia che può diventare assai proficuo.

Fruttata
Ai nostri giorni ha superato abbondantemente doppio malto come termine che provoca immediatamente palpitazioni e sudorazione fredda nel malcapitato publican: c’è chi infatti con questa leggiadra parola intende una birra con effettiva presenza di frutta, chi allude invece a una radler, chi ha in mente una APA o American IPA contraddistinta dai sentori agrumati e tropicali dei luppoli e chi, infine, desidera una Belgian Ale o magari una Weizen in cui il “fruttato” è dato dagli esteri fermentativi. In ogni caso, occorrerà qualche minuto di consueto dialogo socratico per capire meglio la richiesta, anche se durante le ore di punta del weekend una simile ordinazione può diventare un vero incubo.

Gassata
È statisticamente più frequente la richiesta di una birra “poco o non troppo gassata” rispetto all’opposto ed è sorprendente, per un addetto ai lavori, notare come tra i consumatori comuni sia totalmente sconosciuto il legame di causa ed effetto tra spillatura, quantità di schiuma e carbonazione della birra che hanno nel bicchiere: una volta spiegato e, soprattutto, fatto percepire al palato il cambiamento è però uno degli aspetti che più si fissano nella mente della persona e una potente chiave di fidelizzazione di un cliente.

Ghiacciata
Gli anni non passano invano e per fortuna quest’aggettivo non è più l’indispensabile corollario e pendant del termine “birra” come avveniva fino a qualche lustro fa. Comunque ancora oggi, nei mesi estivi c’è chi lamenta che la corretta temperatura di servizio sia troppo elevata rispetto alle sue abitudini, ma si assiste anche al fenomeno opposto, ovvero ad appassionati che ritengono troppo basse le temperature a cui sono usualmente settate le celle di refrigerazione dei fusti e i motori di raffreddamento da cui passano i “pitoni” impiegati per la spillatura per alcune tipologie quali le birre in stile britannico e le fermentazioni spontanee o miste. Quando però si vede, nel 2022, un birrificio artigianale promettere “birre ghiacciate” nella locandina di un proprio evento si staglia inequivocabilmente davanti agli occhi la sagoma di Giacomo Poretti (nessuna parentela con Angelo) intento ad interpretare l’indimenticabile personaggio di Tafazzi.

Nera
Per lungo tempo è stato, e per ancora un considerevole numero di persone lo è tuttora, sinonimo di Guinness (con il conseguente problema della peculiare forma di autismo che colpisce gli apostoli monoteisti del birrificio di St James’s Gate: nessuna Stout potrà mai eguagliare la loro prediletta e convincerli ad assaggiare altre etichette è tempo perso) ma rispetto a bionda e rossa è il termine cromatico improprio che ha più perso terreno negli anni a vantaggio del maggiormente corretto scura.

Pompa
La handpump è un oggetto che attrae istintivamente curiosità negli avventori e catalizza domande circa il suo funzionamento. C’è però una ristretta nicchia di adepti che vorrebbe servita in questo modo qualunque tipologia birraria e non ascolta ragioni circa l’appropriatezza della pompa inglese per le sole birre in stile britannico o al più per il Lambic piatto. Ricordo ancora con un brivido lungo la schiena un cliente che mi assillò per una buona mezz’ora su quanto avrebbe desiderato una rossa belga servita a pompa: probabilmente uno psicanalista di scuola freudiana gli avrebbe giovato più di un publican.

Rossa
Insieme a fruttata è il termine che probabilmente genera le più lunghe sessioni di maieutica da bancone: il possibile relato liquido di questo apparentemente innocente aggettivo può infatti essere una Lager ambrata più o meno alcolica (da una Dunkel o Vienna fino a una Doppelbock) come una Ale anglosassone, sia a prevalenza dolce come una Red Irish che amara come una Bitter, ma anche, perché no, una potente ma morbida Dubbel belga, così come una graffiante American IPA o Double IPA di vecchia generazione. Se la risposta alla fatidica domanda sulla prevalenza gustativa della birra desiderata è “dolce” capita sovente di soddisfare la richiesta con una Heller Bock spiegando come pur non essendo cromaticamente “rossa” questa tipologia brassicola possieda proprio le caratteristiche gustolfattive volute. Attenzione però, può capitare pure il cliente tignoso che, finito in pochi sorsi il suo boccale, sentenzi “molto buona, ma non era rossa”: in questo caso un impatto traumatico con una Red Flemish Sour Ale sarebbe l’unico metodo per fargli apprendere ciò che le parole non gli hanno potuto comunicare.

Schiuma
Così come la corretta temperatura di servizio, anche la giusta quantità di schiuma è un concetto che si sta gradualmente facendo strada nel bagaglio culturale di un numero sempre maggiore di consumatori che, non di rado, esprimono anche un sincero apprezzamento estetico per un compatto e persistente cappello spumoso che protegge e impreziosisce la propria birra. Cionondimeno, c’è ancora chi chiede una birra con poca schiuma o addirittura senza schiuma: solitamente chi effettua questa richiesta ignora la relazione esistente tra schiuma e livello di carbonazione di ciò che ha nel bicchiere e, nella maggior parte dei casi, accetta di buon grado la novità quando gli si spiega l’effetto negativo della sovracarbonazione sul suo stomaco e sul suo tasso alcolemico.

Scura
Molto spesso è ancora sinonimo di Stout e, malgrado il basso grado alcolico del più noto esemplare dello stile, si tende a ritenere le scure birre impegnative e più adatte alle stagioni fredde che a quelle calde. Ma è incoraggiante notare come il termine sia sempre più diffuso tra i consumatori comuni in luogo dell’impreciso nera.

Zzzzz
Grottesco ultimo lemma di numerosi dizionari della lingua italiana, mentre gli altri si fermano a zuzzurellone o zuzzurullone, è un termine onomatopeico che in ambito birrario si confà tanto alla noia e allo sconforto del nerd a cui cade la fronte sul tavolo all’ennesima citazione di doppio malto quanto alla narcolessia che coglie il cliente basico che ritiene eccessivamente lunghe e complicate le descrizioni, siano esse scritte o orali, di qualche publican troppo zelante e, prima di cadere nelle braccia di Morfeo, fa a tempo a mormorare: ma io volevo solo una birra… A noi addetti ai lavori l’arduo compito di non rinunciare alla precisione ma di maritarla con chiarezza e concisione!