Questo rifiuto per il diverso, nel mondo della birra, è avvertito soprattutto per l’amaro. Non siamo un popolo avvezzo a questo gusto. Se poi si considera che l’amaro, nell’evoluzione dei nostri sensi, ha probabilmente giocato il ruolo di segnalatore di pericolo (pensiamo a sostanze dannose per l’organismo come ad esempio i metalli pesanti, alcuni alcaloidi, i polifenoli e gli alcoli superiori) la situazione si complica non poco. E, come se non bastasse, ci si sono messi pure alcuni modi di dire come “la vita è amara”, “riso amaro” o “parole amare”, che non hanno certo giovato alla causa. Dato però che l’uomo del terzo millennio potrebbe finirla di considerare il pasto soltanto come un rifornimento di carburante, anche la lingua (in tutti i sensi) potrebbe essere educata. In effetti, tornando alle birre, la capacità di saper apprezzare questo gusto permetterebbe di valutare una componente fondamentale del prodotto, cogliendo così le sfumature, l’intensità, la complessità di un amaro. Alcuni stili fanno di una luppolatura generosa il loro elemento distintivo: pensiamo alle inglesi IPA, alle bitter o alle APA statunitensi. Esistono birre con IBU (l’unità di misura dell’amaro) stratosferici, ma ugualmente molto apprezzate e ricercate. Per non parlare poi della funzione ripulente e sgrassante svolta dall’amaro stesso, che assicura la “beverinità” di una birra oltre a renderla idonea a molti abbinamenti con il cibo.
E’ proprio il caso di dirlo insomma: speriamo, almeno per una volta, di rimanere con l’amaro in bocca!