Kuaska’s Corner. Storie di birra vissuta
Quando, a inizio anni Novanta, cominciai a condurre in Italia le prime serate, i primi laboratori di degustazione nonché i primi corsi di cultura birraria, non adottai alcun metodo prestabilito. Mi venne naturale e spontaneo divulgare secondo la mia indole di poeta e scrittore d’avanguardia, che poi era e tuttora dovrebbe essere la mia professione, trasformando ogni evento in una sorta di happening coinvolgente per un pubblico che stava diventando sempre più eterogeneo. Mi accorsi ben presto come uno degli aspetti che maggiormente colpiva e stupiva l’audience fosse quello di non attenermi strettamente a nozioni tecniche, ma soprattutto il raccontare aneddoti a profusione sia da esperienze personali sia sulla personalità del birraio, sulla sua famiglia, sul suo ambiente e sul suo territorio. Ricordo di aver colto un legittimo commento di un ragazzo che diceva “ma perché ci parla del cane della madre del birraio? Cosa c’entra con il tema della serata?”. Invece quel cane era molto importante per conoscere l’intransigenza della dura madre fiamminga del birraio in questione, qualità da lui poi trasmessa alle sue birre: dure, fiamminghe e intransigenti. D’altronde a quell’epoca non si conosceva ancora il mio postulato “la birra artigianale è il prolungamento della personalità del birraio”. Oggi invece tutti mi chiedono continuamente di attingere alla mia inesauribile riserva di aneddoti, ed è quello che farò da questo numero per i lettori di Fermento Birra Magazine. Non seguirò un filo conduttore specifico ma ve ne sparerò a raffica, per questa prima volta scelti tra quelli personali legati alle birre, seduto davanti all’Ipad con una kriek di fianco, così come mi vengono in mente, tra i più curiosi e spero divertenti.
Quando andai per la prima volta nella birreria Den Hopperd a Westmeerbek, dopo aver assaggiato diversi lotti delle birre ufficiali (più una segreta alla maria) chiesi, incrociando le gambe, al caro amico e birraio Bart Desaeger dove fosse il bagno: ebbi come risposta “no toilet here”. “E dove la faccio?” gli chiesi allarmato. “In my house of course”, fu la risposta immediata. Entrai a casa sua, adiacente (almeno quello) alla birreria, salutai la sorridente moglie che a sua volta mi fece salutare, disturbandoli, i due bambini impegnati in una furibonda sfida alla play station. Bart lavora alla Duvel durante la settimana e apre il suo piccolo locale degustazione solo la domenica pomeriggio ma, data l’amicizia e la reciproca stima, vorrebbe che inserissi una visita del mio gruppo nell’itinerario che preparo per i viaggi in Belgio: finora non ho avuto il coraggio di accontentarlo proprio perché non riesco ad immaginare quaranta persone che vadano a mingere o defecare nel bagno di casa sua..
Fra le prime serate di degustazione cui accennavo all’inizio, principalmente sulle birre belghe in questo caso, ricordo quelle al pub Mulligans di Milano, gestito alla grande dai fratelli bergamaschi Beppe e Alverio Bertoni che trasformarono la storica trattoria con campo di bocce dei genitori, ‘La Candela”, in un autentico Irish Pub con arredi originali e, soprattutto, con pinte di Guinness servite a regola d’arte e una selezione di whiskies a dir poco strepitosa. Alverio aveva una moglie belga e di tanto in tanto il suocero veniva da Liegi a trovarla portando una montagna di bottiglie di birre di tutti i tipi acquistate in un beershop locale che stoccava oltre mille etichette. Non si intendeva molto di birre, preferiva i vini (anche in Belgio può succedere…) e quindi caricava la macchina senza preoccuparsi di operare una selezione qualitativa. Alverio mi sottoponeva ogni carico ricevuto per chiedermi di separare il buono dal cattivo, in quanto poteva capitare di trovare nello stesso pacco una tripel rarissima di Steedje e una invereconda Jupiler analcolica. Una sera, dopo una lezione tenuta nella sala inferiore riservata, Alverio mi disse che tra le birre ricevute ce n’era una che non aveva mai visto e voleva il mio parere.
Fu allora che i corsisti, istigati da Andrea Reina, oggi buon conoscitore, mi chiesero di sottopormi ad un gioco: avrei dovuto indovinare alla cieca quale birra fosse. Dissi loro che, oltre al fatto che lì tutti stessero fumando sigarette e sigari, il Maestro Michael Jackson vietava ai degustatori di farlo ma, dietro le loro reiterate insistenze, cedetti e mi feci bendare avvisandoli che sarebbe stato difficile se non impossibile in quelle condizioni riconoscere una birra che avrebbe potuto essere stata creata solo quella volta per un matrimonio o per celebrare una ricorrenza, pratica molto seguita all’epoca specie nella parte francofona del Belgio. Annusai e colsi chiari sentori da rifermentazione con zucchero candito bruno e un pronunciato calore da alcool che mi fecero propendere per una trappista o una delle innumerevoli birre cosiddette d’Abbazia. Passai allora in rassegna le trappiste scure ma non trovai corrispondenze decisive, mentre colsi una vaga vicinanza alla Konigshoeven Schaapskooi dubbel: non essendo belga, ma olandese, dissi ai ragazzi “ve l’avevo detto che sarebbe stato quasi impossibile.. se devo dire un nome dico Konigshoeven Schaapskooi dubbel, ma non è belga”. “Infatti non è quella” mi dissero subito. Ma quando, tolta la benda, scoprii la bottiglia essere La Trappe Dubbel, rivelai a tutti come, per sopperire ad un nome impronunciabile, i trappisti olandesi la commercializzassero con quello in francese, più semplice e diretto. Fui portato in trionfo tipo Bearzot dopo la leggendaria finale Italia-Germania del Campionato del Mondo di calcio del 1982. Il giorno dopo tornai al Mulligans per definire le birre delle serate successive. Era presente l’Ingegner Trombini, un vecchio amico soprannominato così perché non trombava mai, noto per la sua tirchieria. Mi chiese un parere sulla Gauloise Blonde (non la sigaretta..) che aveva appena acquistato e versato nell’apposito bicchiere. Io l’annusai e ne assaggiai un goccio per poi affermare convinto “vai tranquillo, è giovane e fresca”. Il retro-etichetta però crudelmente rivelava come fosse vicinissima alla scadenza e che quindi avevo preso una cantonata! Nonostante l’ammissione molti non credettero al mio errore, ma ad un refuso sulla data stampata!
Conoscevo e apprezzavo la birreria scozzese Harviestoun, mi innamorai della Bitter & Twisted cask conditioned già alla prima sorsata in una remota edizione del GBBF. Potete quindi immaginare la gioia e l’emozione nel sapere che il birraio Stuart Cail mi aveva invitato a valutare le sue birre a Dollar. Dopo avermi abbracciato spillò una pinta di Bitter & Twisted da un tubicino di gomma che sporgeva da un buco nel muro del retro. L’annusai, l’assaggiai e comunicai a Stuart il mio parere che fu il seguente: “mi spiace ma sa di merda”. Stuart trasecolò ma poi, vedendo come io stessi ridendo, rise pure lui perché si rese conto di avermi fatto fare l’assaggio a pochi metri da una stalla piena di vacche locali dal pelo riccio di color grigio scuro che sguazzavano in un lago di escrementi. Mi portò subito in auto, a poche miglia, nel posto dove avrebbe da lì a poco trasferito la birreria (ricordo le varie parti dell’impalcatura di legno appoggiate in attesa di essere montate). Lì, lontana dalle vacche, la birra si confermò fantastica, tanto che poi vinse il titolo di Champion Beer of Britain.
Mechelen, 3 luglio 2005. Sono in auto con Schigi e un suo collega di allora e stiamo disperatamente cercando il luogo dove si stava tenendo il festival locale organizzato dai Beer Brothers. Non esisteva il navigatore e le cartine non ci svelavano dove fosse quel benedetto cortile. Non sapendo più come fare e con una sete ormai insopportabile decidiamo di chiedere a qualche passante, ammesso che se ne potesse trovare uno. Finalmente passa una signora che spinge il passeggino con dentro un bimbo. Schigi si sporge e mentre sta per chiederle dove fosse quell’indirizzo, lei guarda dentro l’auto ed esclama: “Lorenzo!”. Potete immaginare che impulso ebbe la mia già “mitologica” figura