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Eurhop 2017: il festival in dieci birre

Non c’era bisogno di aspettare la sua quinta edizione per far sì che Eurhop diventasse – d’altro canto: nomen omen – uno degli eventi più importanti dell’anno in Europa, ma quella del 2017 è stata finora di sicuro la più bella, entusiasmante e, concedetemi il termine non elegantissimo, cazzuta per la selezione offerta. Si è andati anche oltre il suo battesimo, nel 2013, quando non solo la presenza di un numero così massiccio di birre (250 divise tra 40 birrifici, recuperando l’informazione dalla rete) era qualcosa di mai visto prima in Italia, ma, per dire, colpì parecchio la presenza di Prairie forse per la prima volta fuori dai confini statunitensi, all’epoca astro nascente e oggi affermato e solido nome della scena americana.

Nonostante alcune defezioni dell’ultim’ora (o settimana, o mese), intoppi che ahimè a volte capitano, le 542 birre dei 76 birrifici presenti hanno fatto dimenticare qualsiasi rimpianto — e pure il resto dei ricordi per chi è andato troppo in là con gli assaggi. Non ho ancora i dati ufficiali, ma l’affluenza ad occhio superava di parecchio l’edizione dell’anno scorso; non rammento una tale calca di venerdì sera, per non parlare del sabato: già dalle 18.00 ci si doveva far largo quasi a forza sugli scalini tra i due livelli di stand, e persino la predetta scaletta dei fusti più rari è stata ben poco rispettata per venire incontro alla folla di bevitori. Assalti che manco in un film di Romero. Anche a mente fredda, dando un’occhiata alla lista di birre bevute, è difficile snocciolare una top 10, forse si dovrebbe parlare di top 20 come una classifica musicale, ma ci proverò lo stesso. Ecco allora a voi le dieci migliori birre (per me) presenti ad Eurhop 2017 — rigorosamente in ordine sparso.

THE VEIL – SINGLE ORIGIN HORNSWOGGLER (Richmond VA – USA / Milk Stout – Alc. 7,0% vol)

La fortunata milk stout di The Veil ha previsto nell’anno una serie di varianti, dalle più basate sul gimmick (lett. “trucco”) come Oreo – che ho bevuto: meravigliosa – e burro d’arachidi a quelle canoniche. Per la Single Origin è stato utilizzato il caffè della Blanchard’s Coffee Roasting Co. di Richmond che, come mi spiegava il proprietario di The Veil, presente ad Eurhop, è stato scelto dai birrai annusando i chicchi direttamente all’apertura del sacco. Il risultato è una pura delizia per il palato e non solo: un caffè che ti prende dal naso fin nella gola, amalgamandosi alla complessa cremosità della stout. Per soli sette gradi si gode più di birre che ne hanno dieci e oltre. Senza stancarsi bicchiere dopo bicchiere.

OTHER HALF – DDH ALL CITRA EVERYTHING (Brooklyn, NY – USA / DIPA – Alc. 8,5% vol.)

Non siamo nuovi in Italia ad Other Half — presente nel 2015 in più di un’occasione, e stavolta più in forma che mai. La qualità media delle loro birre era decisamente alta, e per freschezza e per bontà. Diverse facevano uso di lattosio (croce e delizia della corrente NE IPA più spinta), altre un semplice double dry hopping. Sono rimasto parecchio impressionato dalla versione DDH della All Citra Everything, che già dal nome suona come un’esperienza travolgente: una scarica di sentori luppolati ti sballotta di continuo, prima di averti illuso con una deliziosa componente sostenuta di lytchee e frutto della passione. Amara da amare.

JESTER KING – ATRIAL RUBICITE (Austin, TX – USA / Sour Ale con lamponi – Alc. 5,8% vol.)

Per molti che hanno commentato Eurhop sui social network, Jester King ha vinto per distacco sul resto dei presenti grazie a una batteria di sour ales tutte (o quasi) di grandissimo livello. La Atrial è la loro birra più vecchia, intesa come la prima ad utilizzare frutta dopo aver “convertito” l’impianto all’esclusiva produzione di sour/farmhouse. Mi era già capitato di berla in bottiglia e ne ero stato conquistato — i frutti di bosco sono d’altra parte un mio pallino. Stupisce la forza del lampone, pulita, intensa, decisa e di lunghissima durata. Aspra e rustica, va ben oltre l’esercizio di stile.

EXTRAOMNES – STRAFF (Marnate, Varese – Italia / Winter Saison – Alc. 9,5% vol.)

Sebbene esista da nemmeno cinque o sei anni, la Straff ci ha messo poco a diventare un grande classico della birra artigianale italiana. La forma sfoggiata ad Eurhop era smagliante: l’ingresso di melone, pesca e stone fruits in generale denota una profondità ammirevole, come baciare direttamente il frutto. È un quadro che poggia su un background morbido, dove il lievito gioca e disegna forme delicate, piacevoli, degne della migliore arte belga, finale secco compreso. Sontuosa.

CANTILLON – ST. LAMVINUS GRAND CRU (Bruxelles – Belgio / Fruit Lambic – Alc. 5.5% vol.)

Come il nome suggerisce, una specie di St. Lamvinus enhanced: nella fattispecie, la birra è stata concepita come blend tra due botti di lambic di tre anni con uve Merlot e una botte di lambic di un anno. Pensate alla migliore versione di St. Lamvinus che avete bevuto e moltiplicatela per tre nel suo insieme, poiché in questa versione si genera un corpo con una struttura a livelli: massiccia, elegante e acida. A mio avviso, nella selezione portata da Cantillon ad Eurhop, anche il campione dell’hype Carignan (una bottiglia è valutata oltre 900 dollari sul black market) arriva secondo, di poco ma sempre secondo, rispetto alla GC.

THE VEIL – WE DED MON (Richmond, VA – USA / Triple IPA – Alc. 11,0% vol.)

Il birrificio di Richmond merita un’altra posizione nella top ten di Eurhop con questa mastodontica DIPA che in verità viene definita Triple IPA, sottoinsieme della categoria ri-scoperto in America. Già cinque anni fa si proponevano esempi estremamente muscolari: si pensi alla Double Crooked Tree di Dark Horse o la Triple Hop Dam di Hoppin Frog. Tuttavia, mentre quelle erano imperniate sulla potenza del quantitativo di ingredienti per raggiungere gli ABV giusti, la We Ded Mon capovolge gli schemi. Cremosa, rotonda, smooth, forte di una luppolatura 100% Citra, gli undici gradi sono decisamente nascosti. Il che la rende a dir poco subdola.

HOPPIN FROG – DORIS THE DESTROYER (Akron, OH – USA / Double Imperial Stout – Alc. 10,5% vol.)

Alti e bassi per la selezione portata dal birrificio fondato nel 2006 da Fred Karm, persona squisita e curiosa (nel senso buono del termine, come in Fargo dei F.lli Cohen) per il suo aspetto. La BORIS è la loro pluri-premiata Oatmeal Russian Imperial Stout – vincitrice nella categoria del GABF per svariate volte, per quel che può contare – e la DORIS ne è la versione raddoppiata. I miei ricordi di una birra devastante, complessa, oltraggiosa, dalla schiuma nero-rossastra, che porta al massimo tutte le caratteristiche organolettiche di una RIS, sono stati riconsolidati in un solo bicchiere. Che mi ha portato via lucidità per una buona ventina di minuti.

HAMMER – WORKPIECE: AMERICAN IPA (Villa d’Adda, Bergamo – Italia / American IPA – Alc. 7.0% vol.)

Se è vero che Vento Forte, con la sua Sheepes, ad Eurhop poteva dar filo da torcere alle NE IPA americane presenti, di sicuro Hammer si distingue con un prodotto controcorrente e alla maniera di Marco Valeriani. La seconda versione della Workpiece è una micidiale West-Coast IPA dove si fa uso del lievito Vermont; più che cercare un punto d’incontro tra le due scuole, strizza l’occhio a uno dei padri fondatori della corrente New England — ovverosia The Alchemist. E non è un mistero che Marco abbia nel birrificio di Stowe una delle sue ispirazioni più forti. Forte di una bevibilità che si traduce con l’aggettivo instancabile, la Workpiece è un lavoro di pura qualità: pulita, netta, decisa, amarissima.

JESTER KING – BIERE DE COUPAGE (Austin, TX – USA / Blended Farmhouse – Alc. 6,3% vol.)

Se JK è stato tra i (il?) migliori, c’è un motivo. Al di là delle sour fruttate, era presente tale blend di una farmhouse giovane (non è dato sapere quale, nemmeno sulla bellissima descrizione online) con la Spon — la loro birra realizzata con il 100% di fermentazione spontanea. Ne è venuta fuori una creazione che al naso sfiorava, non scimmiottava, i migliori maestri belgi della categoria. A molti, me compreso, ha ricordato 3 Fonteinen (Stefano Ricci ha menzionato la Tuverbol. Paragone molto azzeccato) e la sua infinita classe, quelle commistioni di cantina, cuoio e sferzate di succo di pompelmo. In bocca la BdC terminava su una nota vuota, affievolita, che tradiva leggermente le aspettative nasali, ma ad avercene. Tutti i dannati giorni.

BALADIN – XYAUYÙ BARREL (Piozzo, Cuneo – Italia / Barley Wine – Alc. 14,0% vol.)

Prima che diventasse la parola chiave di una canzonetta italiana da quattro soldi, il karma era un concetto serio. Lo è ancora. Per anni sono stato un ferreo oppositore della Xyau, che otto volte su dieci assaggi mi dava sempre l’idea di una oltre-birra: un artificio frutto di lavoro ottimamente congegnato, di cui ne riconoscevo la bontà ma che vedevo teso quasi al distillato, dove il malto comincia a perdere consistenza e definizione. Ad Eurhop, bando ai pregiudizi (chiaro?), mi sono detto che andava riprovata un’altra volta. Potrei stilare una lista di note (marsala, caramello, fichi secchi, vaniglia, le prime che mi vengono in mente) lunga un chilometro, e invece dico: il karma mi ha punito. Una lectio magistralis sull’ossidazione che a questo giro mantiene saldamente l’appartenenza alla categoria Birre Fenomenali.