Birra in conto vendita: Il fenomeno delle beer firm
A tutt’oggi non esiste una definizione univoca di beer firm se non quella piuttosto vaga di “birraio che non possiede un impianto di produzione proprio e che realizza le sue birre presso terzi”. L’insieme così individuato risulta però decisamente eterogeneo: al suo interno vi si trova infatti sia chi segue attivamente ogni fase della realizzazione in prima persona, sia chi invece demanda totalmente la produzione limitandosi di fatto ad apporre il proprio marchio al prodotto finito. Di seguito cercheremo di delineare alcune categorie di beer firm basandoci principalmente sul grado di coinvolgimento del birraio nelle fasi di lavorazione, aiutandoci con alcuni esempi italiani.
Birrai senza birrificio: il caso Stavio
Partiamo da quei birrai che seguono completamente la produzione delle loro birre, ma che le realizzano in altri impianti. In buona sostanza si tratta di veri e propri birrifici “senza fissa dimora” i cui birrai elaborano in prima persona le ricette e “mettono direttamente mano” nell’impianto di chi li ospita, che di fatto si limita a fornire una semplice consulenza relativa allo stesso. Come caso esemplificativo abbiamo scelto Stavio, il beer firm creato nel 2011 dai giovani ma esperti Marco Meneghin, già birraio di Revelation Cat e Bauscia, e Luca Parisi, con esperienza dietro al bancone del romano Ma Che Siete Venuti a Fà. Stavio, come la quasi totalità dei beer firm, ha deciso di buttarsi nella mischia birraria provando a produrre le birre che aveva in mente presso altri birrifici “amici”, con un investimento ridotto che potesse permettergli da una parte di fare esperienza, dall’altra di attendere i tempi, sempre incalcolabili, di banche e burocrazia. Un aspetto da valorizzare in un progetto come questo, di transizione verso un birrificio proprio, è la necessità di rimanere al timone produttivo.
Fondamentale dunque la scelta del birrificio ospitante, come ci rivela Marco: “prima di tutto sono persone che conosciamo direttamente, io stesso non andrei da qualcuno che non conosco. Poi è necessario che i costi non siano troppo elevati, altrimenti è facile finire fuori mercato e, ancora, mi deve essere garantita la possibilità di realizzare direttamente la birra in tutte le sue fasi. Le ricette sono mie e le vado a realizzare nell’impianto che ci ospita, adattandole alle caratteristiche dell’impianto stesso (durezza dell’acqua, aspetti tecnici e via dicendo) ed anche del birraio che di fatto si troverà poi a gestire in prima persona le fermentazioni: scegliamo insomma la birra da produrre in un impianto in base a quelle che sono le sue peculiarità “tecniche ed umane”. Aggiustata la ricetta passo alla produzione vera e propria, nella quale all’inizio sono aiutato dalla consulenza tecnica del birraio/partner che conosce ovviamente meglio di me l’impianto. Ma con la pratica prendo confidenza e divento sempre più autonomo. Ovviamente non posso essere presente quotidianamente durante la fermentazione o la maturazione, ma quando possibile seguo direttamente tutte le fasi. Mi spiego. Anche la distanza geografica ha un peso importante: quando produciamo da Andrea Fraelloni di Free Lions (nel viterbese, ndr) riesco a seguire tutte le fasi di produzione, infustamento e imbottigliamento compresi, ma ad esempio quando abbiamo prodotto in Valtellina nel nuovo impianto di Paolo Polli non ho potuto seguire l’imbottigliamento in prima persona come ho fatto per il resto della produzione”. I vantaggi che assicura il Beer Firm, a chi come Stavio punta ad aprire un proprio impianto nel breve periodo, sono molteplici. Economici ovviamente, perché ci si inserisce in un mercato senza dover affrontare direttamente i costi di gestione e le spese elevate per l’acquisto dell’impianto e delle varie attrezzature. Il posticipare l’apertura assicura inoltre la possibilità di poter testare alcune birre “sul campo” in vista della lavorazione sul impianto proprio, valutando quali hanno più riscontro e quali meno, sia in un’ottica di scelta di stile che in termini di volume di produzione. E’ però chiaro che non sono tutte rose e fiori: il costo di uscita della birra è infatti più alto, o comunque il margine di guadagno è minore. Inoltre, aspetto da non sottovalutare, produrre presso terzi costringe in ogni caso il birraio ad adattarsi alla capacità produttiva, alle caratteristiche dell’impianto e al tipo di acqua del birrificio ospitante.
Birrai part-time: il caso MOA
Un’altra declinazione della figura del beer firm è offerta da chi, per produrre una ricetta, si affida direttamente a un contoterzista con un minore coinvolgimento nella produzione. Di questo settore il birrificio fiorentino MOA rappresenta uno dei casi più interessanti. MOA, acronimo di My Own Ale, nasce nel 2011 da Andrea Bucaletti e Riccardo “Rik” Miniati. I due soci non si sono improvvisati birrai, le loro ricette nascono dalla lunga attività di homebrewer e sono state collaudate nel tempo, oltre ad essersi affermate anche in concorsi nazionali per birrai casalinghi. Dal punto di vista produttivo la sperimentazione nasce su di un impianto pilota che è stato via via automatizzato, fino a raggiungere una standardizzazione molto simile a quella di un birrificio. Questo permette di simulare con buona approssimazione quello che succederà in un impianto professionale, anche se una volta giunti in birrificio con la ricetta in mano le cose si complicano se si vogliono ottenere dei risultati vicini a quelli ottenuti a casa. E in effetti MOA ha girato qualche birrificio in cerca di quell’impianto e di quella disponibilità necessari a replicare la birra che aveva in mente. “Non è stato facilissimo – confessa Rik – all’inizio abbiamo cercato in Toscana per una ragione di ovvia comodità, ma purtroppo quasi tutti hanno impianti troppo piccoli per sopportare un’altra produzione. Ci siamo così rivolti a Birra del Borgo, facendo alcune cotte all’impianto vecchio di Borgorose. E’ stata poi la volta del Beerbante a Colorno, che per motivi logistici ci permette di seguire meglio la produzione. Al birrificio chiediamo di partecipare direttamente a tutte le prime cotte delle nostre birre. In linea di massima ci presentiamo con le ricette, ne discutiamo e, alla presenza del birraio, si passa in produzione. Dopodiché il nostro lavoro è pressoché finito, salvo problemi. Qualora si verificasse qualche imprevisto veniamo infatti avvisati e, in caso di bisogno, andiamo a verificare”. Il caso MOA è dunque interessante: passione vera, due soci con competenza produttiva, ma con un’idea imprenditoriale non troppo sviluppata. Insomma, un caso di Beer Firm che vuole rimanere tale, per assenza di capitali e forse anche per una certa avversione al rischio d’impresa (c’è a volte uno stipendio sicuro da abbandonare). Sempre che il successo delle birre (la 12 Plato recentemente è stata premiata al concorso Birra dell’Anno) non sia tale da far sciogliere i timori e le incertezze iniziali.
Birrai zingari: il caso Buskers
Un caso molto particolare, sempre italiano, è rappresentato da Buskers Beer. Da una parte lo si potrebbe definire birrificio itinerante (gipsy brewery), che produce in diversi impianti; dall’altra presenta l’unicità di essere un vero e proprio caso di collaborazione costante. Ogni birra prodotta da Buskers parte infatti dallo stretto rapporto di scambio con uno o più birrai, configurando di fatto una serie di collaboration brew. Molti avranno notato la somiglianza con il più famoso dei Beer Firm, il danese Mikkeller, anch’egli birraio senza fissa dimora e spesso “collaborativo”. Senza entrare nello specifico, possiamo sottolineare alcune differenze: Mikkel produce alcune sue birre presso altri impianti e, solo occasionalmente (benché davvero molto spesso), collabora con altri birrifici che visita direttamente; il progetto Buskers invece è fatto di sole cotte collaborative e nasce con l’intento di riunire un gruppo di persone del settore attorno al loro più grande amore. Da veri appassionati Mirko Caretta (gestore del Bir&Fud Bottega, beershop di Roma) e Marco Chiossi (homebrewer e proprietario di Ebrius, altro beershop a Marino, nella zona dei castelli romani) dopo aver frequentato per anni il mondo della birra artigianale, hanno proposto quasi per gioco a Moreno Ercolani, birraio de L’Olmaia, di realizzare una versione rinforzata ed extraluppolata della sua La9, magari da proporre in esclusiva al beershop. Leonardo Di Vincenzo di Birra del Borgo, con cui Mirko aveva già lavorato sia come grafico che come fotografo nei primi anni del birrificio, spinse l’idea più avanti proponendo di non fare una sola birra, e neanche una “one-shot”, ma un’intera gamma. Da lì, nel 2011, il progetto Buskers, un nuovo marchio, unico per le tutte le birre a venire, nato da una forte amicizia e dalla voglia di condividere una passione, quella per la birra di qualità, che non può essere che socializzante. Un po’ come la musica, e particolarmente il rock, a cui spesso rimandano le loro birre.
L’aspetto che ci interessa indagare maggiormente è quello legato alla produzione. “Diciamo che la base della ricetta – ci spiega Mirko – viene elaborata direttamente da me. Prima di andare nel birrificio ospite, o meglio a trovare un amico, mando la mia idea e quando arrivo ne parliamo. Spesso le cotte si trasformano in un ritrovo, anche numeroso come è successo per le prime due fatte a L’Olmaia e al Borgo, e anche nell’occasione per fare un giro a salutare gli amici birrai vicini. Come detto cerchiamo sempre di produrre birre non banali e che siano una scommessa anche per chi ospita la cotta: per la Paranoid ho proposto a Beppe Vento (birraio del Bi-Du) una Black Ipa, che lui ha poi trasformato in una versione europea di questo stile rifiutandosi categoricamente di usare luppoli americani, mentre con Luigi Recchiuti (di Opperbacco) abbiamo deciso di fare una lager, la California Uber Alles, anche se particolare perché lui non produce basse fermentazioni. Personalmente cerco di seguire tutte le cotte, diciamo che su 22 ne ho fatte 17, saltando magari quelle di birre già sperimentate. Ovviamente questo è dettato anche da una questione di tempo e costi: delle birre prodotte con Birra del Borgo a Borgorose riesco ad esempio a seguire tutte le fasi, imbottigliamento compreso. Proprio per queste ragioni nel 2013 cercherò di collaborare con birrifici più vicini”. In questo caso non è una questione di scelta dettata da esigenze economiche o legali, ma piuttosto una convinta impostazione da dare al beer firm, un’esperienza vissuta come un artista di strada che non intende metter radici. Anche se, ad onor del vero, una casa i Buskers sono intenzionati ad averla: a Roma è infatti prevista a fine aprile l’apertura del primo Buskers Pub.
Birrifici a contratto
Una categoria sempre più nutrita è infine quella di chi si rivolge a un birraio senza avere particolari conoscenze, senza cioè una ricetta, ma con idee più o meno vaghe. Si va da chi dà indicazioni di stile (e magari anche qualche informazione sui luppoli) a chi invece descrive solo un profilo organolettico, passando per chi dà indicazioni di massima sulle birre che si vogliono ottenere. In questa categoria rientrano molto spesso i locali che chiedono ad un birrificio di realizzare una birra per loro, dove la mano è quella sola del birraio, o ancora le grandi catene o i distributori di bevande che realizzano prodotti presso birrifici artigianali per entrare nel settore della Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Questa soluzione presenta un duplice vantaggio per chi “chiede la birra”: non dover in alcun modo accollarsi le spese di un impianto e poter fare a meno delle conoscenze tecniche necessarie per realizzare una birra. Permette, inoltre, di abbandonare il progetto nell’esatto momento in cui non si dimostri più interessante.