Beer experience: perché viaggiare significa conoscere la birra
La birra ha un fortissimo legame col suo luogo di origine, almeno nei Paesi di grande tradizione. Non c’entrano tanto le materie prime – che sono comunque molto importanti – ma è piuttosto una questione culturale, storica, di senso di appartenenza. Per comprendere fino in fondo una birra non si può prescindere dal suo luogo di produzione, dalle peculiarità del suo servizio e, soprattutto, del suo consumo. Per questo ritengo che i viaggi birrari siano importantissimi e non capirò mai chi sceglie di vivere la birra professionalmente, ma non dedica la giusta attenzione alla scoperta in loco. Diversi anni fa, un birraio italiano mi fece assaggiare una sua nuova ricetta, una schwarz. All’epoca era uno stile molto poco conosciuto, dalle nostre parti (oggi per fortuna ci sono molte ottime interpretazioni) e il birraio mi chiese, con un candore disarmante: “la trovi in stile? Te lo chiedo perché io non l’ho mai assaggiata, una schwarz, ho trovato la ricetta su internet”.
Personalmente ho sempre cercato di viaggiare tanto, il più possibile, tornando non so quante volte in Belgio, in Germania, nel Regno Unito, in Repubblica Ceca, in Irlanda. Tutti i viaggi sono stati fonti preziose di scoperta, curiosità, elementi di costume (e di folklore, in qualche caso), che credo siano molto utili per dare una dimensione più ampia e profonda al racconto della birra. Trovo infatti che la sola analisi sensoriale sia un approccio un po’ troppo tecnico, asciutto e “scientifico”, inadatto a raccontare l’anima e le sfaccettature culturali che stanno attorno – e dentro – al bicchiere.
Ho iniziato a viaggiare per birre e birrifici ben prima dell’arrivo degli smartphone – sembra impossibile, ma per anni si è arrivati ovunque senza navigatore e senza internet, ma solo con le fidate cartine Michelin e gli indirizzi scritti a penna sul taccuino. Il newsgroup it.hobby.birra vide la luce il 27 luglio del 1998 e per molti anni rimase una miniera insostituibile di informazioni, diventando un supporto fondamentale per l’organizzazione di quelle mie prime esplorazioni. Esperienze che mi hanno fatto crescere professionalmente e che mi hanno lasciato memorie indelebili, che spesso uso durante i corsi, per arricchire e colorire il racconto delle birre.
Come uno dei tanti ricordi che ho legati alla città di Bamberga e alla sua campagna circostante, territorio che amo molto e in cui torno sovente. Non riesco a risalire alla data della mia prima visita, ma era stata una sorta di un’apnea di due giorni, in cui l’obiettivo era bere almeno un boccale in tutti i birrifici cittadini. Praticamente non avevo visto nulla, oltre ai locali di mescita. Per questo motivo, alla mia seconda occasione, ero motivato nel fare un po’ di turismo e visitare quel meraviglioso centro abitato – ricco di arte e di storia. Dopo una bellissima cena da Spezial (che era e rimane il mio posto preferito, in città) vado a dormire relativamente presto e al mattino, rinfrancato da un’abbondante colazione, parto per la programmata esplorazione, puntando al duomo. Poteva essere ottobre o novembre, perché passando per caso davanti a Schlenkerla vedo il cartello che annuncia la Urbock. Mi ero ripromesso di fare il turista, ma non l’avevo ancora mai assaggiata, l’ho preso come un segno del destino e sono entrato. Non sono ancora le 10 del mattino e il locale è semi deserto, con l’eccezione di un tavolo di vecchietti intenti a fare una bella merenda (portata da casa, visto che a quell’ora la cucina è chiusa), accompagnata – ovviamente – dagli spumeggianti boccali della Urbock. Mi siedo, attendo la cameriera e ordino, cercando di pronunciare al meglio: Bitteschön, ein Urbock. Poco dopo mi arriva il classico willibecher di Märzen. Non dico nulla (subito penso ad un semplice errore di bicchiere) e bevo. Una decina di minuti, bicchiere vuoto, richiamo l’attenzione della stessa cameriera: Entschuldigung, ein Bockbier. L’asciutta chellerina non cambia espressione e mi porta una seconda Märzen. Di nuovo, non protesto, e bevo. Quando sono verso la fine del bicchiere viene lei da me e – abbozzando una sorta di sorriso – mi chiede: Bockbier?, e finalmente mi porta l’ambito calice. Perché? Non l’ho mai capito, ma ipotizzo che vedendomi palesemente straniero e fuori contesto, studentello sbarbato, alle 9.45 del mattino, ordinare una potente bock, abbia voluto proteggermi. Quando poi ha capito che potevo farcela, è stata lei a proporla. In ogni caso il gusto di quella birra mi è rimasto piantato dentro come un ricordo indelebile.
Il secondo episodio riguarda l’Inghilterra, altro paese a cui sono fortemente affezionato, fin dagli anni di volontariato al GBBF come scudiero di Kuaska, quando ancora la reputazione della birra italiana era molto lontana da quella attuale. Il primo anno di servizio fu il 2005, avevamo a disposizione 4 birre in fusto (Daü del Troll, ReAle e Duchessa di Borgo e ArtigianAle di Bi-Du), più alcune bottiglie da 37,5 di Panil Barriquée (versione Mild). Oltre a questo Kuaska aveva stappato per lo staff una bottiglia di Xyauyù che aveva lasciato tutti senza parole. Ho trovato un vecchio post del newsgroup dove raccontavo dettagliatamente quell’esperienza, con tanto di elenco delle 79 real ale assaggiate e appuntate sulla Moleskine. Un ritratto di un altro mondo, completamente altri tempi, ma quelle esperienze negli anni mi hanno particolarmente legato al Regno Unito. Si dice anche che ad un GBBF di diversi anni dopo – poteva essere il 2016 – diedi da bere al Principe Harry, in incognito con qualche amico, ovviamente senza riconoscerlo e trattandolo come un qualunque ragazzino alticcio. L’Inghilterra è un posto che mi manca moltissimo, quotidianamente, e dove torno sempre molto volentieri.
Mitico fu il viaggio nel marzo del 2011 con Eugenio Signoroni (curatore con me della Guida birre d’Italia). Scegliemmo come base lo sconosciuto villaggio di Wakefield – che si rivelò comunque molto vivace nelle serate – baricentrico per le visite dei birrifici pianificate: Marbel a Manchester, Thornbridge (sia la storica sede di Thornbridge Hall, sia quella nuova di Buxton) nel Peak District, Titanic a Stoke-on-Trent, Coniston nel Lake District e poi il festival Camra di Leeds. Fu un viaggio ricchissimo di informazioni, di scoperte, una vera e propria “immersione” britannica. Tutte le visite mi hanno lasciato qualcosa di indelebile, ma quella che ricordo con più tenerezza è quella del birrificio Coniston, che sorge nell’omonimo villaggio di poco più di mille abitanti, in Cumbria, nella parte meridionale del Parco nazionale del Lake District. È senza alcun dubbio uno dei posti più belli che abbia mai visto in vita mia (e una delle tante occasioni che la birra mi ha portato su rotte che altrimenti difficilmente avrei percorso, e che invece si sono rivelate splendide). Fiumi, prati verdi, laghi, pecore, muretti a secco, strade strette come una macchina e paesaggi mozzafiato. Di tanto in tanto un piccolo villaggio, di servizio ai tanti camminatori e a chi – da queste parti sono tanti – ama vivere all’aria aperta, a ritmi lenti, immersi nella natura. In questo contesto è perfetto un piccolo birrificio, che produce real ales principalmente per il consumo interno. La Coniston Brewing Co. è annessa al pub/hotel Black Bull, che è un punto di riferimento per tutta l’area ed è dove abbiamo incontrato il mitico Ian Bradley, figlio del proprietario dello storico hotel e deus ex machina del birrificio fin dalla sua fondazione, del 1995. Dopo una lunga e approfondita visita ci siamo accomodati nel pub, abbiamo mangiato un ottimo fish & chips e “assaggiato” tutte le birre, partendo dalla splendida Bluebird Bitter (una meraviglia di equilibrio e profondità, con solo 3.4% alc.) e proseguendo con tutte le altre. Finiamo la nostra piacevolissima bevuta, assieme al birrario che sembra davvero apprezzare i nostri commenti – ricordo un “nutty” di Eugenio che lo aveva sorpreso, era tutto contento di quel descrittore – con una mezza pinta di No.9 Barley Wine, in cask. Una meraviglia di intensità, microssidazioni, frutta secca, morbida, ricca, profonda, pur con “soli” 8.4 gradi alcolici. Stiamo per salutare, ma Ian ci ferma. Volete assaggiarla anche in bottiglia? Ovviamente, volentieri. Stappa una bottiglia e la serve in tre bicchieri. La troviamo gasatissima, sgraziata, senza tutta quella setosità della versione in cask, ed esprimiamo il nostro stupore a Ian, ormai siamo amici. Ci confida che non la imbottiglia lui, ma manda qualche cask ad una ditta lì vicino che confeziona soft drink. Loro la saturano di CO2 e la imbottigliano. Ci guarda con un’espressione che ricordo come se fosse ieri e ci dice una cosa del tipo Too fizzy, do you think? Quindi prende un cucchiaino lungo e inizia a “sbattere” la birra nel bicchiere. Dopo un paio di minuti assaggia ed esclama: You’re right! Now it’s better! I’ll tell them, less CO2. Per inciso, quella birra – in cask, non in bottiglia – fu eletta Supreme Champion Beer of Britain al GBBF dell’anno successivo. Non dimenticherò mai la gentilezza, la spontaneità e, in un certo senso, anche l’ingenuità di Ian. Mi ha fatto capire moltissime cose delle birre inglesi, gli sarò per sempre debitore.
Non poteva mancare il Belgio, fondamentale, dove ho iniziato la mia “carriera” e al quale ho dedicato il libro “Belgio. I Paesi della birra”. Su questa terra ho un numero smisurato di ricordi, episodi al limite dell’assurdo, come facilmente può immaginare chi si è fatto rapire – almeno una volta – dalla celebre magia del Belgio (© Kuaska, ovviamente). La storia che voglio qui raccontare risale al 2008, quando assieme a Enrico Lovera (mio storico compagno di merende in terra belga), Leonardo Di Vincenzo e Jef Van den Steen sono andato a visitare il birrificio di Westvleteren. Ci accoglie padre Joris, che ci fa accomodare in una umile saletta, dove iniziamo a chiacchierare, ci racconta della vita monastica, dell’organizzazione della giornata, della preghiera e dell’organizzazione del birrificio. Ci fa vedere la programmazione dell’imbottigliamento previsto per il 20 novembre, dove oltre a 8 trappisti (Joris, Johannes, Arnold, Jos, Benedict, Pieter, Willem) sono impegnati anche 4 laici (Jean-Paul, Stefaan, Paul, Bart) e quindi fa la domanda che tutti aspettavano: Possiamo offrirvi qualcosa? Caffè? Tè? Birra?. Birra, certo, grazie!, rispondiamo. E qui si apre un siparietto davvero bizzarro. Perché Joris ci chiede cosa vogliamo bere e noi rispondiamo che sarebbe andata benissimo una Blond. Lui fa uno sguardo strano, che non capiamo. Poi, un po’ imbarazzato, ci chiede se siamo sicuri, se non vogliamo assaggiare magari una 8, o una 12, che sono anche molto buone. Noi non cogliamo il sottinteso e ribadiamo che la Blond va benissimo. Joris va a prendere le birre, torna dopo poco con un vassoio, quattro bottiglie col tappo verde e quattro calici. Ce le serve e poi, mentre brindiamo, ci confida il motivo della sua domanda. Loro sono autorizzati solo a bere Blond, a meno che non abbiano ospiti che chiedono un’altra birra, in tal caso possono anche loro assaggiare qualcosa di diverso! Vi lascio immaginare la fine della storia. In quei momenti passati all’interno del monastero, ascoltando i racconti del monaco, osservando i suoi occhi vispi e i suoi gesti misurati, ho imparato di più della vita monastica e della birra trappista di quanto si possa fare leggendo tutto il (peraltro ottimo) libro del nostro cicerone Jef Van den Steen, che ancora oggi ringrazio per aver reso possibile quell’esperienza, che rimane una delle più intense e significative di tutta la mia vita (birraria, s’intende).
La birra per me è soprattutto questo. Cultura, tradizione, senso di appartenenza. Una bevanda che accompagna la vita di uomini e donne da secoli e che spesso è molto difficile decontestualizzare, trasportare, raccontare altrove. Questa è l’enorme ricchezza che i Paesi di grande tradizione hanno ed è il motivo per cui le storie che ho raccontato mi affascinano così tanto. Penso che anche noi in Italia – dove abbiamo birrai di capacità tecniche straordinarie – dovremmo ricordare sempre che la birra è un’espressione di un territorio, di una cultura, oltre che del gusto e della sensibilità di chi la produce. Non c’è nulla che mi emoziona meno di un birrificio che non esprime identità e carattere e che semplicemente replica le birre in voga in altri territori, magari facendolo tecnicamente molto bene, ma senza metterci del proprio, senza dare una sfumatura di originalità. La strada è lunga, passa attraverso un profondo lavoro anche (ma non necessariamente) sulla filiera, attraverso un radicamento culturale che sarà certamente faticoso da raggiungere, ma credo sia un percorso necessario, se si vorrà lasciare un segno duraturo.