La birra nella storia: l’industrializzazione

La storia della birra cambiò radicalmente dal 1700 grazie a numerose scoperte scientifiche e tecnologiche che migliorarono sensibilmente da un punto di vista qualitativo e quantitativo la produzione. Furono infatti le scoperte come il motore a scoppio (il primo installato in una birreria fu a Londra nel 1784), del termometro (entrato in uso dopo il perfezionamento di Fahrenheit circa nel 1720) e del densimetro (capace di misurare il livello di zucchero disciolto nel mosto) a dare un impulso incredibile alla produzione di birra. L’impatto di questo avanzamento tecnologico e tecnico furono alla base del successo incredibile delle nere Porter nel XVIII secolo in una Londra in piena esplosione urbana a seguito della rivoluzione industriale. Senza questi avanzamenti tecnologici i birrifici di Londra non avrebbero mai potuto produrre i 1.200.000 barili di Porter che produssero nel 1810.

Le scoperte e le invenzioni del XIX secolo avviarono definitivamente la birra alla sua fase industriale. Un primo e importantissimo passo fu il notevole avanzamento degli studi sul lievito e sui microrganismi. Charles Cagniard-Latour (1839), Anton Dreher (1840) e Gabriel Sedlmayr (1840), ripresero e approfondirono gli studi di Van Van Leeuwenhoek sul processo fermentativo permettendo così di comprenderlo meglio e, in buona sostanza, di averne un maggiore controllo a livello brassicolo. Rivoluzionario il lavoro di Pasteur (1876) che dimostrò come la fermentazione fosse prodotta dall’attività dei lieviti in assenza di ossigeno, un fenomeno “connesso alla vita” affermò, poiché comprese per primo che i lieviti erano organismi viventi. Epocale anche la scoperta di come alcuni batteri e lieviti sono inibiti a temperature oltre i 60 gradi (processo di pastorizzazione). Pochi anni più tardi nel 1879 Emil Chirstian Hansel, chimico dipendente della Carlsberg riuscì ad isolare un ceppo singolo di lievito e a crearne una coltura in acqua e zucchero. La portata della scoperta fu enorme, ed ancora oggi il lievito utilizzato per le basse fermentazioni oggetto delle ricerche, il Saccharomyces Carlsbergensis, porta il nome dell’azienda danese. A completare il quadro intervennero l’invenzione del frigorifero. Il primo esemplare fu installato alla Paulaner di Monaco nel 1873. Questo strumento dal lato produttivo permise di controllare le temperature della fermentazione e diede la possibilità di sorpassare la stagionalità di alcune produzioni; contemporaneamente permise di conservare il prodotto integro per più tempo. Ma quali furono le birre ad imporsi sul mercato? Guardando la situazione a fine ‘800 verrebbe naturale pensare che sarebbero state la ale o le porter inglesi ad inondare il mercato, ma non fu così. Nel 1842 a Plezen nell’attuale Repubblica Ceca per decisione della municipalità, nacque una birra a bassa fermentazione chiara, fresca, estremamente equilibrata e dai profumi accattivanti: la Pils. Probabilmente la nascita di questo stile non si deve ad una sorta di sommossa popolare, né tanto meno all’estro di un singolo birraio, ma alla coincidenza di vari fattori, anche tecnologici che ne resero possibile la nascita. Quello che è sicuro è che la birra di Plezen fu figlia del suo tempo e che il suo successo fu planetario. Intanto il processo di industrializzazione del mondo birrario era in atto. In Europa il fenomeno della lagerizzazione, come venne chiamato il diffondersi delle lager industriali, si affermò anche in Paesi di grande tradizione come l’Inghilterra e il Belgio (attualmente il 70% della birra consumata in Belgio è Pilsner o lager industriale).

Stesso scenario negli Stati Uniti, dove nel XIX secolo arrivarono molti coloni di origine tedesca o centro europea in fuga dalla turbolenta situazione politica nei loro Paesi, portando con sé le proprie tradizioni birrarie. Furono proprio i produttori di origine tedesca, forti delle tecniche imparate nella terra natia e del loro spirito industriale, a vedere negli Stati Uniti la possibilità di un mercato unico. È l’America brassicola di Frederick Miller, Adolphous Busch, Frederick Pabst e Joseph Schlitz, tutti nomi che hanno fatto la storia dell’industria birraria americana. In breve le politiche di questi produttori e l’adozione delle nuove tecnologia, a partire dai mezzi di trasporto refrigerati, crearono un mercato nuovo, più consolidato e molto meno legato alla vicinanza geografica. La politica dei grandi gruppi negli ultimi cento anni è stata quella di fagocitare altri marchi, controllandoli di fatto, ma spesso continuando a produrre con il brand acquisito.

Questo ha portato alla creazione di grandissimi gruppi multimarchio di dimensioni colossali: basti pensare che i primi quattro gruppi, nell’ordine AB-InBev, SAB-Miller, Heineken e Carlsberg, rappresentano da soli il 50% del mercato mondiale. Un trend che è stato invertito, o perlomeno frenato, quando l’onda della birra artigianale a cominciato a montare negli Usa alla fine degli anni 70, innescando un processo virtuoso di domanda e offerta per prodotti più ricchi a livello organolettico, meno appiattiti, quindi, da processi di stabilizzazione usati dalla grande industria. Oggi la rinascita di prodotti di qualità ha contagiato numerosi Paesi, sia a tradizione birraria sia emergenti, come l’Italia.