La birra in Inghilterra
Con circa 1900 marchi brassicoli attivi e con un consumo pro capite non stellare ma significativo (74 litri), la Gran Bretagna continua a rappresentare uno tra centri di propulsione più significativi sullo scacchiere planetario. Ma è ancor più sul piano del valore storico, dell’enorme patrimonio tradizionale e culturale, che il Paese detiene un ruolo fondamentale e indelebile rispetto all’intera parabola esistenziale della birra, dai suoi albori a oggi. Un ruolo scolpito nella straordinariamente ampia varietà di tipologie modellate, nei secoli, dalla creatività dei brewers del regno; un ruolo parte del cui merito va sicuramente all’azione svolta, a partire dal 1971, anno della sua fondazione, dal Camra (Campaign for Real Ale), associazione di consumatori che si è battuta e si batte contro la massificazione e l’appiattimento dei profili sensoriali, contro l’estinzione delle specialità tipiche e, anzi, per la loro tutela e valorizzazione; un ruolo rilanciato – in questi anni più recenti, che hanno visto un arretramento del livello di popolarità a scapito degli stili classici battenti bandiera UK, a favore di quelli con targa Usa – dall’abilità, dal talento e dall’acume comunicativo di alcuni marchi particolarmente efficaci nel promuovere il proprio lavoro proprio (“sebbene”, da un certo punto di vista) sul quel fronte modernista improntato a scelte orientate a formule e ingredienti (luppoli in primis) del nuovo mondo. Ma andiamo con ordine; e diamo avvio alla nostra ricognizione sui generi birrari delle terre di Sua Maestà, a cominciare da quelli più legati alle radici.
Il repertorio tipologico attuale inglese prende le mosse, in gran parte almeno, come derivazione di quello ricostruibile riferendosi ai decenni di transizione tra XVII e XVIII secolo. Già dal 1642 nel Regno Unito si era andato diffondendo l’innovativo sistema (un brevetto nazionale) dell’essiccazione del cereale in forni a getto d’aria (anziché a fiamma diretta), la cui tecnologia consentiva di ottenere colorazioni (e conseguenti sfumature gustolfattive) più chiare, rispetto al passato. Ne trasse impulso l’entrata in scena di una birra alla quale, nel 1703, sarebbe stato “ufficialmente” impartito il battesimo di Pale Ale. Letteralmente, quest’espressione significa “birra pallida”. Ma perché “pallida” se in effetti si trattava di un’ambrata? Semplice: perché la norma era rappresentata da prodotti decisamente più scuri, bruno intenso. Prodotti che oggi chiameremmo Brown, ma che allora non avevano bisogno di essere comunicati con una qualifica di tipo cromatico, in quanto – al netto di sfumature – l’aspetto usuale era appunto quello dark. Le varianti, invece, interessavano altre categorie. In primis l’impiego di luppolo in quantità significative; o, al contrario, contenute se non limitate al minimo. Dal primo approccio nascevano quelle che venivano indicate come “Beers” (meno rispecchianti la tradizione e diffusasi dal XV secolo in seguito ai contatti con i mercanti dell’Europa continentale, tedeschi e olandesi soprattutto); dal secondo modo di produrre traeva linfa la consuetudine delle “Ales” (termine in questa fase non ancora contrapposto a Lagers, visto che la distinzione tra alta e bassa avrebbe iniziato ad avere senso solo tra fine Ottocento e inizio Novecento). Beers e Ales venivano a loro volta identificate in base alla città o alla zona di produzione; e in base al grado alcolico. Fattore, quest’ultimo, strettamente connesso a quella consuetudine procedurale per cui, da uno stesso ammostamento, utilizzandone tre frazioni liquide (una corrispondente al primo, denso, scorrimento; una, di medio tenore zuccherino, corrispondente al primo lavaggio delle trebbie; una, più debole, frutto del secondo lavaggio delle trebbie), si ricavavano tre diverse birra, ciascuna avviata a un proprio autonomo “destino commerciale e di consumo”.
Avallano alcune fonti, in ordine appunto alla gradazione, una classificazione di questo genere: semplicemente “Ale” o “Common” per le Ales di media caratura; “Mild” per quelle leggere e, anche per questo, destinate a un consumo rapido; “Strong Ales” oppure “Old Ales” per quelle invece più forti, dunque conservabili più a lungo, con maturazioni in botte che, ovviamente ne elevavano la complessità sensoriale. Mentre tra le Beers, l’analoga “tripartizione” si concretizzava in: “Beers” quelle appartenenti alla fascia intermedia; “Mild Beer” o “Small Beer” per le leggere; strong, anzi, il gergale “Stout” per le più robuste. Si trattava comunque di sorsi tutti abbastanza strutturati date le modalità d’esecuzione della cotta nella sua interezza, con riscaldamenti a fiamma diretta (dunque su tempi più lunghi e con meno uniformità di erogazione del calore), sia in ammostamento, sia in bollitura, con fenomeni di caramellizzazione degli zuccheri tutt’altro che infrequenti.