Saison: storia e caratteristiche

Oggi disponibili tutto l’anno, un tempo le saison venivano prodotte sul finire dell’inverno per essere consumate nel periodo più caldo: in particolare dalla manodopera stagionale impiegata nei campi durante il periodo di più intensa attività; ovvero i  “saisonnières”, dai quali traggono il loro nickname. Ogni fattoria della Vallonia (da cui provengono: con riferimento, in specie, alla Provincia dell’Hainaut) aveva la propria ricetta, così come attualmente ogni birrificio ne offre la sua personale interpretazione. La prerogativa fondamentale richiesta a ogni Saison era la capacità di conservarsi senza risultare troppo alcolica (visto che molto spesso le si beveva, appunto, durante il lavoro nei campi): risultato che si otteneva mediante acidificazioni controllate (specialmente di natura lattica); se non attraverso un congruo uso di spezie (soprattutto in principio), con miscele, dette “gruyt”, variabili nella composizione da un territorio all’altro) o di luppolo (entrato in scena successivamente, assumendo un ruolo via via più significativo).

Oggi come allora, lo stile è caratterizzato da un piacevole slancio nella bevuta, di frequente anche acidulo; e da composti aromatici – esteri, così come fenoli – sviluppati per effetto del metabolismo del lievito (lasciato lavorare a temperature decisamente alte), i quali primeggiano sugli altri ingredienti con vigorose sensazioni fruttate e speziate. Non di rado, inoltre, i birrai aggiungono aromatizzanti per via diretta (fiori, essenze vegetali, spezie stesse) per rendere l’insieme ancora più intrigante. Chiaramente le interpretazioni odierne sono cosa ben diversa dalle primigenie. Le fonti dirette relative alle versioni dei secoli passati sono molto scarse; e anche la marcata differenza d’approccio tra un produttore e l’altro non facilita le cose. Tracciare un quadro organico dello stile è dunque piuttosto difficile. Come detto, le Saison venivano prodotte in inverno con lo scopo di ristorare i contadini durante la stagione calda. Davano piacere, calorie, ma anche una fonte di acqua potabile estremamente preziosa. In generale ogni fattoria autoproduceva la propria birra, ma chi non ne aveva i mezzi poteva farlo negli impianti di paese, spazi comuni a disposizione degli abitanti.

È comune cognizione che in Vallonia vi fossero due periodi più propizi per brassare le Saison: in dicembre, durante l’Avvento (per questo chiamate bières de l’avent) e a marzo, non a caso i momenti di sosta delle operazioni agricole. Come cereale principale era utilizzato l’orzo invernale (orzo esastico), molto diffuso nella regione; ma spesso si trovavano anche aggiunte di frumento, avena e segale, a seconda delle disponibilità (in alcuni casi, a livello quantitativo, sostituivano addirittura l’orzo stesso). Medesima cosa vale per la speziatura: se il luppolo lentamente venne aggiunto in maniera più consistente, nondimeno continuarono a impiegarsi spezie di ogni tipo, come zenzero, pepe, coriandolo, ginepro e anice stellato, senza però nessun tipo obbligo formale. I luppoli erano per lo più locali, anche se all’inizio del Novecento cominciarono ad arrivare varietà dalla Germania e dall’Inghilterra, spesso gettate verso la fine della bollitura o addirittura in dry hopping (già assai diffuso). Peraltro, fattore decisivo nel determinare il profilo di una Saison è, da sempre, quello della fermentazione. Tradizionalmente ci si affidava a colture miste di lieviti, selvatici e non, spesso contaminate dal lactobacilli, e in grado di attenuare il mosto in modo decisamente energico (non erano da escludere procedimenti del tutto spontanei).

Ebbene, questa combinazione di microrganismi, durante la (lunga) seconda fermentazione, riusciva a convertire anche le catene di destrine non commestibili per i lieviti “domestici”, finendo per dare al sorso una notevole secchezza; mentre la contaminazione lattica contribuiva con i suoi apporti peculiari, così apprezzati in passato. La coltura applicata da ciascun produttore veniva di solito riutilizzata, trasferendola da una cotta all’altra: quando un ciclo si esauriva (a causa magari di un mosto troppo debole o per altri problemi di varia natura), era pratica comune chiedere in prestito il lievito del vicino, capace di adattarsi in poco tempo al nuovo ambiente.

La pratica dei “ceppi misti” è rimasta in uso fino a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso (le analisi dimostrano come Dupont ne inoculi ancora un mix di varietà, tra i quali almeno una selvatica). Quanto all’identikit organolettico, le Saison storiche dovevano presentare un colore relativamente chiaro per l’epoca (tendente all’ambrato, tenendo conto del livello tecnico della maltazione), anche in virtù dell’impiego di grani crudi. La carbonazione doveva risultare bassa, a causa dell’invecchiamento: e così è stato, almeno finché non si cominciò a rifermentare in bottiglia. E’ facile poi ipotizzare un naso dominato dalle note del Brettanomyces, con quel carattere “animale” e “vinoso” che sempre più appassionati han ricominciato ad apprezzare. Potevano inoltre essere presenti, a seconda dell’età della birra (alcune venivano consumate anche a distanza di un anno), note per lo più citriche dovute a batteri o al luppolo, assieme ad altre conferite da una speziatura comunque mai invasiva. In bocca risultavano sicuramente acide, molto attenuate e astringenti (l’orzo esastico introduce di per sé note più rustiche rispetto al distico usato oggi), con una buona amaricatura. L’intensità di queste sensazioni variava poi in base all’invecchiamento (nel tempo l’amaro e i profumi del luppolo decadevano); mentre la gradazione alcolica presunta si aggirava attorno ai 3.5%, anche se è lecito ipotizzare vi fossero versioni leggermente più forti destinate alla vendita nelle taverne e non al consumo diretto nei campi.

Gradualmente, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, le cose cominciarono a cambiare. Due furono i principali fattori: le mutate condizioni economico-produttive; e l’arrivo delle birre estere sul mercato interno. In questi decenni l’agricoltura della Vallonia imbocca una progressiva meccanizzazione; e contestualmente si espande l’attività di estrazione mineraria. Questo comportò una sensibile diminuizione del numero dei contadini, dei braccianti e delle imprese agrarie in sé, praticamente venivano meno le ragioni stesse per cui erano nate le Saison. Le nuove tecnologie spingevano inoltre verso la specializzazione produttiva: per riuscire a reggere la pressione del mercato, le aziende si trasformarono, a seconda dei casi, in birrifici o in realtà agricole. In questo contesto, e grazie alle nuove scoperte (refrigerazione, studi sulle infezioni, migliorie nell’imbottigliamento), si diffusero sempre più birre d’importazione, per lo più basse fermentazioni bavaresi o loro imitazioni. Le quali – chiare e limpide, ma anche fresche e decisamente costanti nella qualità – cambiarono i gusti dei consumatori. Il modello di autoproduzione e autoconsumo andò dunque scomparendo; e con esso gli esempi di Saison più legati al mondo contadino.

A risollevare le sorti della tipologia intervenne un’ampia campagna di promozione da parte dei brassatori dediti ai generi tradizionali, i quali, fin dagli anni Venti del Novecento, puntarono a vendere le proprie birre come “specialità belghe”, spingendo forte sul loro carattere tradizionale e nazionale. Nel complesso furono comunque adottate molte delle nuove tecniche (come la fermentazione con ceppi di lievito puri); e si mirò ad elevare il grado Plato sull’intero panorama nazionale degli stili, a partire da quelli classici. Questo processo coinvolse anche le Saison, benché molto più lentamente, a causa delle loro specificità. Progressivamente si abbandonò la fermentazione in tini di legno; la concentrazione del mosto aumentò fino a circa 14 Plato di media; la refrigerazione e la conseguente diminuzione del rischio di infezioni permise di brassare tutto l’anno; si andò diffondendo l’uso di bottiglie, nelle quali era possibile “condizionare”.

Le Saison diventarono così più forti, più chiare e carbonate, virando contemporaneamente verso la progressiva scomparsa delle note precipuamente acide, sia per una modificazione nel gusto, sia per le migliorie assunte, in lavorazione e in conservazione. All’inizio degli anni Quaranta, mentre la tipologia risultava ben conosciuta, anche al di fuori della Vallonia, ciò coincideva – più o meno – con la scomparsa degli ultimi impianti tradizionalmente contadini, ormai incapaci di reggere il confronto con le nuove tecniche ed esigenze del mercato. Quelle che il mondo – anche sotto la spinta dell’interesse verso le tipicità territoriali scaturita dal “rinascimento” artigianale – conoscerà come Saison sono dunque birre di “seconda generazione”, in qualche modo diverse dalle loro antenate. Oltre alle caratteristiche comuni che abbiamo visto (ventaglio olfattivo rigoglioso, corpo snello e secchezza finale), questo perimetro tipologico mantiene al proprio interno una grande variabilità di soluzioni, legata all’uso (possibile o meno) di spezie; di luppolature più o meno spinte; di un’ampia varietà di cereali, (anche se l’orzo è ormai solo distico). Altro fattore distintivo – nel comparare versioni storiche e contemporanee – è l’acidità: alcuni marchi utilizzano (ancora) ceppi misti di lievito proprio per mantenere note olfattive e gustative particolari; ma una vena propriamente acida non è più un fattore caratteristico delle Saison moderne, se non lungo il filone degli esperimenti e delle rievocazioni in atto, ad esempio, sul fronte delle cosiddette “Farmhouse Ale”.

In ogni caso, oggi questa progenie birraria è più viva che mai: tantissimi birrifici in tutto il mondo si cimentano con essa; e specialmente negli Stati Uniti la si interpreta non solo con cospicuità, ma anche con successo, grazie anche all’estrema elasticità della ricetta. Solo per citare due parametri, il colore va dal dorato al bruno; la gradazione dal 3.5% al 9,5%.